di Pier Mario Fasanotti
In un libro la denuncia di un ex deportato: in Cina ci sono ancora mille «Lagoai», lager di lavoro forzato con sei milioni di prigionieri, tra dissidenti o semplici criminali
Dietro quella muraglia c’è un grande Paese che stupisce e che, dice chi sa, è destinato a contare sempre di più nel mondo. Però, dietro quella muraglia c'è anche il più deplorevole degli inganni: l’umiliazione dell'uomo ridotto a schiavo, lo schiaffo bruciante e quotidiano al diritto di pensare liberamente. È in base a questi inganni che la Cina sta per compiere, per dirla con Mao Zedong, «il grande balzo in avanti», stavolta sulla scena mondiale. La sua economia fa così paura che attrae frotte di diplomatici dell'economia, seguaci della tattica secondo cui al nemico conviene offrire contratti, relazioni proficuamente amichevoli.
Ma dietro quella muraglia ci sono milioni di schiavi-prigionieri che, per dissenso politico o semplice «mugugno», per criminalità ma spesso per altro, vengono rinchiusi nei Laogai. Termine che è l'equivalente di gulag sovietico o campo di concentramento nazista. Certe cose si sanno poco o si intuiscono soltanto. La Cina si avvale di veri e propri black-out dell'informazione, anche telematici. La muraglia è fatta di pietre del silenzio, sulle fondamenta della segretezza burocratica. Una piccola casa editrice di Napoli, «L'ancora del mediterraneo», sta per fare uscire un libro che rivela, nei minimi e macabri particolari, l'esistenza di questo esercito di non-persone. S'intitola appunto Laogai (146 pagine, 15 euro). L’autore è Hongda Harry Wu, un cinese che ha vissuto ben diciannove anni in un laogai e ne conosce i perversi meccanismi. Risiede ora in America, dopo essere riuscito a tornare nel paese natale e ad aggiungere informazioni di prima mano a quelle dolorosamente e personalmente raccolte.
Non tanto una smentita quanto un’educata (la memoria archivistica è sempre storicamente educata) e liberissima risata rivolta a coloro che ancora oggi, senza nemmeno un imbarazzo sornione, dicono che tutto sommato Mao Zedong è stato una brava persona, addirittura un condottiero della storia che ha affrancato un enorme paese dalla schiavitù. Rossana Rossanda sul Manifesto ha scritto: «Ha fatto per il 70 per cento le cose giuste e per il 30 le cose sbagliate», riprendendo un vecchio adagio cinese. Schiavitù, si diceva. Ci vuole un bella impudenza ad accennare all'affrancamento e a dimenticare i morti per carestia o per tortura (con 10mila esecuzioni l'anno, la Cina detiene un lugubre primato). Il signor Wu scrive d'essere certo di una cosa: attualmente in Cina esistono almeno mille campi di lavoro e che sono estremamente attivi nel sostenere l'economia nazionale. Se in Germania i campi avevano come finalità l'eliminazione fisica dei nemici (ebrei, zingari e dissidenti politici), se nell'Unione Sovietica (a partire dal 1917, grazie a Lenin) i gulag servivano a rinchiudere i nemici della rivoluzione, i laogai cinesi assommano queste due finalità (la morte è conseguenza, diciamo così, indiretta) a un’altra, quella di produrre beni a costi che in certi casi sono del 70 per cento inferiori a quelli, già bassi, della manodopera locale.
La condanna del cinese criminale o che solo «mugugna» non ha un riscontro giuridico. Innanzitutto per chi viene reso schiavo non ci può essere un appello. Lo scopo è quello della rieducazione, che però non finisce mai in quanto il lavoratore-schiavo fa troppo comodo al sistema. Parlare di leggi sarebbe oltretutto ridicolo, visto che la Repubblica Popolare Cinese, ricorda Wu, «è ancora priva delle più elementari basi del diritto». I campi cinesi sono strutturati secondo tre distinzioni: laogai, cioè il lavoro correzionale penitenziario, il laojiao ovvero la rieducazione attraverso il lavoro, e il jiuye ossia la destinazione professionale obbligatoria. Le linee guida di Mao e di Deng sono la naturale appendice di quanto dichiarava Lenin: «La dittatura si basa sulla forza e non ammette restrizioni di legge».
Ci sono processi, sia pure farseschi? Assolutamente no. E i reclusi hanno avuto buon gioco ad aumentare inquantoché la delazione era ed è sempre premiata, non importa se non abbia un riscontro oggettivo. Chi denuncia è un eroe e basta. Alla ferocia diffusa della dittatura maoista è succeduta «la riforma» di Deng. L'accettazione del sistema para-capitalistico (in realtà sfruttamento) ha in un certo senso modernizzato i laogai, rendendoli barbaricamente più efficienti. Deng ha decretato che ogni distaccamento diventasse responsabile delle perdite e dei profitti. Una devolution del terrore. È la polizia che organizza lo smistamento. Poi ogni laogai si nasconde dietro il paravento di una scritta qualsiasi: di azienda, di miniera e così via. Mimetismo perfetto.
La domanda è: quanti? Hongda Harry Wu scrive che «la stima più prudente comprende trenta, quaranta milioni di persone arrestate e condannate in 40 anni». E oggi? Il numero totale dovrebbe aggirarsi tra i quattro e i sei milioni. Tutti sono definiti criminali in base al dogma marxista secondo cui il crimine è frutto dell'individualismo. E questo va represso nelle forme anche più brutali. Chi delinque è capitalista. Detenuti come forza-lavoro. Le varie disposizioni economico-politiche del Politburo cinese prevedeva in bilancio le entrate che provenivano dal lavoro coatto. Molti prodotti esportati in Occidente escono dai campi. Wu cita il vino Dynasty, frutto della joint venture franco-cinese a Tianjin, messo in vendita dalla ditta Nan Yang di Palo Alto. Oppure il tè nero Yingten, prodotto dal campo di riforma provinciale numero 7 di Xinsheng, venduto in California. La ditta francese Remy Martin fece autocritica nel 1990: sì, sapeva dell'esistenza del lavoro forzato nelle vigne, e aggiunse che i cinesi nell'86 fecero un passo indietro forse perché avevano trovato «una miglior fonte di lavoro».
«Il Giornale» del 12 settembre 2006
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