Il «Canzoniere» (e la sua «forma») ha influenzato tutto il secolo passato, da Pirandello a Ungaretti, da Rebora a Montale
di Paolo Senna
Alla ricerca della voce di Petrarca. Così potremmo chiosare il contributo alle celebrazioni petrarchesche rappresentato da un incontro di studio su petrarchismo e antipetrarchismo nella lirica del Novecento italiano (che ora vede la luce in un volume curato da Giuseppe Savoca), dedicata a una delle più grandi - e feconde in sede letteraria - intuizioni del cantore di Laura: la forma-canzoniere. Letto, interpretato da intellettuali e cultori di ogni secolo, il libro d'ore dell'anno e della vita affascina e insieme sgomenta tanto il lettore comune quanto lo specialista. Ne può essere una prova il fatto che se al corpus petrarchesco non arride nemmeno in patria un progetto che contempli un'edizione completa e con le cure del caso sorvegliata (l'ultima data Basilea 1554), il Canzoniere è stato invece pubblicato a più riprese e con commenti validi e spesso illuminanti (recentissimo quello a cura di Rosanna Bettarini). Savoca, nel brillante contributo iniziale, invita però a riflettere sulla effettiva mancanza nel Novecento di un'edizione critica dei Rerum vulgarium fragmenta, dimostrando come il testo curato da Gianfranco Contini per Einaudi nel 1964 (e che oggi, nelle molte ristampe, costituisce la lezione più diffusa) non sia stato condotto direttamente con un confronto né sull'originale (il noto codice Vaticano latino 3195), né sulla pur disponibile copia fototipica procurata da Marco Vattaso per l'editore Hoepli nel 1905. Savoca, attraverso una serie di confronti evidenti, mostra come invece Contini (che, del resto, mai definisce il suo un testo «critico») si sia sostanzialmente affidato alla trascrizione diplomatica fornita nel 1904 da Ettore Modigliani, non esente da errori che vengono dunque a riversarsi nel testo continiano. Basti considerare questi minimi passaggi: in RVF LXXII l'originale «Et quando 'l verno sparge le pruine» diviene «E quando 'l verno sparge le pruine» nel testo Contini; in RVF CV «Quanto posso mi spetro, et sol mi sto» diventa «Quando posso mi spetro, et sol mi sto».
Ma non solo filologia: nel Novecento, infatti, il breviario (di vita, amore e morte) di Petrarca è stato assimilato in modo profondo dalla meditazione artistica dei nostri scrittori: dal sentimento del tempo e dell'assenza di Ungaretti, alle tensioni ossimoriche di Rebora, al filone delle «rime in morte» nelle Occasioni montaliane, sino a Sereni, Sinisgalli, Caproni e Giudici e, sorprendentemente, a Pirandello (a ciascuno di questi è dedicato un saggio nel volume). Opera viva l'esperienza petrarchesca è stata rimodulata e rinverdita, divenendo linfa e declinandosi in una lingua e in un canto nuovi. La voce di Petrarca ha ancora molto da raccontare.
«Avvenire» del 2 settembre 2006
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