di Edward Freser
(professore di filosofia alla Loyola Marymount University di Los Angeles)
Come nasce l’egemonia culturale nelle università americane (e non solo) in cinque teorie: da quella del «risentimento» a quella dell’«interesse di classe»
L’egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio. Si tratti di un’istituzione pubblica o privata, di un piccolo college o di un prestigioso campus universitario, si può prevedere con assoluta certezza che i temi che pervadono i programmi di studio saranno questi: a) il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, disumano e portatore di miseria; b) il socialismo, quali che siano i suoi fallimenti pratici, è motivato dai più alti ideali e i suoi luminari, specialmente Marx, hanno ancora molto da insegnarci; c) la globalizzazione danneggia i poveri del Terzo Mondo; d) le risorse naturali si stanno consumando e l’attività industriale è sempre più minacciosa per l’ambiente; e) quasi tutte le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono «socialmente costruite», e le loro differenze di reddito o di presenza nelle diverse professioni sono per la maggior parte il risultato dal «sessismo»; f) i problemi dell’underclass negli Stati Uniti sono dovuti al razzismo, mentre quelli del Terzo Mondo sono dovuti ai perduranti effetti del colonialismo; g) la civiltà occidentale è oppressiva in maniera unica, specialmente verso le donne e la gente di colore, e i suoi prodotti sono spiritualmente inferiori a quelli delle culture non-occidentali; h) le credenze religiose tradizionali, specialmente quelle cristiane, si fondano sull’ignoranza dei moderni sviluppi scientifici e oggi non possono più essere razionalmente giustificate; i) gli scrupoli morali tradizionali, riguardanti specialmente il sesso, si basano sulla superstizione e sull’ignoranza e non hanno alcun fondamento razionale... Ciascuna di queste affermazioni è a mio avviso falsa, in alcuni casi in maniera dimostrabile. Tuttavia è molto raro sentire nelle università qualcuno che sfidi seriamente queste affermazioni, di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale. I grandi pensatori del passato che difendevano opinioni opposte alle loro vengono trattati come reperti archeologici, e i loro argomenti vengono presentati in forma caricaturale allo scopo di ridicolizzarli; i pensatori del presente che difendono queste idee, quando non sono totalmente ignorati, vengono presentati come macchiette per poi essere consegnati all’oblio. Visitando un moderno campus universitario si sente ripetere il mantra della «diversità» tante di quelle volte, che viene voglia di urlare «Basta!». L’unica diversità che non si incontrerà mai è quella che più conta in un contesto accademico: la diversità di pensiero sulle più fondamentali questioni riguardanti la religione, la moralità, la politica. Ora, la domanda è: perché l’università è caduta in pieno dominio della sinistra? Esistono diverse teorie. La prima potrebbe essere chiamata la «teoria della sopravvivenza del più a sinistra». L’idea sarebbe che i professori, a dispetto delle chiacchiere sulla diversità, tendono a circondarsi di colleghi che la pensino come loro in questioni di politica, moralità e cultura. Poiché i professori tendono a essere di sinistra, quelli nettamente di destra tenderanno a essere eliminati dalla «selezione» quando si devono decidere assegnazioni di cattedre. Il problema di questa teoria è che spiega al massimo come un professore sinistroide diventi tale una volta che il numero degli accademici di sinistra raggiunga una massa critica, e come successivamente conservi la propria posizione. Ma perché mai dovrebbe formarsi questa massa critica? E perché non ci sono significative forze conservatrici capaci di mantenere un equilibrio ideologico? Sembrerebbe che ci sia qualcosa nella natura stessa della professione che inclini i suoi rappresentanti verso sinistra. Robert Nozick, nel saggio Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?, suggerisce che la spiegazione possa essere rinvenuta negli anni formativi dell’intellettuale medio. Questi rappresenta quel genere di persona che, a scuola, va bene sul piano intellettuale ma non altrettanto sul piano sociale. Egli cioè viene ricompensato per il modo esemplare con cui si conforma alle direttive dell’autorità centrale (l’insegnante) che applica un piano completo e dettagliato (il programma di studi) entro un sistema sociale irreggimentato (la classe scolastica); ma non viene remunerato allo stesso modo per i contributi che cerca di offrire alla sfera decentralizzata e non pianificata delle interazioni volontarie che costituiscono la vita di una persona giovane fuori dalla classe (le attività sportive, le feste, le relazioni con l’altro sesso...). Così egli tende naturalmente a pensare che lo scenario del primo tipo sia più ragionevole e giusto del secondo, e generalizzando tenderà a favorire le politiche che comportano la pianificazione centralizzata piuttosto che i risultati non pianificati della libera interazione dei cittadini nel mercato. Simile è la «teoria del risentimento»: non solo negli anni della loro formazione, ma anche durante la loro vita lavorativa gli intellettuali tendono a vedersi trattati ingiustamente dai loro coetanei. Come Ludwig von Mises ha sottolineato in La mentalità anticapitalistica, gli intellettuali provano risentimento per i più elevati guadagni monetari che nella società capitalista accumulano uomini d’affari, atleti e uomini di spettacolo - quello stesso genere di persone, si noti, che in gioventù erano più popolari dei secchioni imbranati sui campi da gioco e alle feste - pur considerando la propria meno lucrativa occupazione di gran lunga più importante. Se l’ultimo album del cantante Diddy vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechtenstein in cinque volumi del professor Doddy vende 106 copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor Doddy inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche... Questo ci porta però alla «teoria del filosofo-re». È probabile che molte volte l’intellettuale veda il mancato apprezzamento del proprio lavoro come un’ingiustizia non solo nei propri confronti, ma anche verso gli altri: in altre parole, chi non preferisce l’opera degli intellettuali sarebbe responsabile anche di un grave danno nei confronti di se stesso. Per il loro stesso bene, quindi, agli individui non dovrebbe essere lasciata molta libertà di scelta, e gli esperti nel gestire gli affari umani dovrebbero trovarsi a dirigere le loro vite al posto loro. L’intellettuale, fantasticando di essere egli stesso un tale esperto, si offrirebbe altruisticamente come volontario per svolgere questo compito. Qui siamo effettivamente in presenza dell’ideale del «filosofo-re», e con esso di un’altra possibile spiegazione del perché gli intellettuali tendano a sinistra: la prospettiva che l’incremento del potere statale gli possa fornire maggiori opportunità per applicare la proprie idee. Come Hayek suggerisce nel saggio Gli intellettuali e il socialismo, per l’intellettuale medio è del tutto ragionevole l’idea che le persone più intelligenti dovrebbero essere le uniche a dirigere tutto. Naturalmente questo dà per scontato che loro siano in generale capaci di gestire le cose meglio degli altri: un assunto che stranamente queste menti cosiddette indagatrici non sembrano disposte a mettere in questione. L’intellettuale quindi si trastulla sempre con l’idea che le cose andrebbero molto meglio se solo tutti seguissero la visione del mondo che lui e i suoi colleghi hanno discusso nelle riviste accademiche. Come ha scritto Hayek ne La presunzione fatale «le persone intelligenti tenderanno a sopravvalutare l’intelligenza», e troveranno perfino scandalosa l’idea che l’intelligenza sia qualcosa che possa essere sopravvalutata. La cosa è invece del tutto possibile, dato che anche l’intelligenza dell’essere umano più brillante ha dei limiti. Riconoscerlo richiede una semplice dose d’umiltà, virtù che generalmente scarseggia tra gli intellettuali. Pur mancando di umiltà, alla fine l’intellettuale non dovrebbe arrivare a vedere le fredde e dure dimostrazioni della propria estrema inefficacia come pianificatore sociale? Non necessariamente, almeno se sosteniamo la «teoria della testa fra le nuvole». Questa è probabilmente la teoria favorita dal non-intellettuale medio: per quanto intelligenti possano essere nelle materie teoriche, nelle questioni pratiche gli intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c’è da sorprendersi che gli intellettuali siano attratti da essi.
Infine, c’è la «teoria dell’interesse di classe», secondo la quale la classe dei professori, una volta messa da parte la calcolata ipocrisia del noblesse oblige, non è affatto la disinteressata Educatrice del Popolo come ama presentarsi. È solo un altro meschino gruppo di pressione, che lotta con gli altri animali nella giungla del welfare state per arrivare al capezzolo del governo. Avendo maggiori capacità di articolare le parole, riesce più facilmente a mascherare i propri reali motivi: si presenta infatti come un nuovo ceto sacerdotale, la cui religione socialista offre allo Stato una giustificazione per la sua esistenza in cambio di un’occupazione permanente nelle fabbriche statali della propaganda (scuole pubbliche e università), e dell’opportunità di elaborare a tavolino i piani che i funzionari statali applicheranno.
Il sinistrismo degli intellettuali è così facilmente comprensibile, dato che si tratta precisamente dell’ideologia che ognuno si aspetterebbe dalla classe dei cortigiani di Stato. Di fatto, è molto profittevole per un intellettuale sostenere le politiche di sinistra, dato che queste richiedono inevitabilmente programmi di lavoro per gli «esperti», cioè per gli intellettuali stessi.
Come tutte le spiegazioni ispirate dalla teoria marxista dell’ideologia, anche questa non deve però essere esagerata; nessun conservatore dovrebbe emulare la volgare inclinazione dei marxisti a respingere istintivamente tutti i punti di vista opposti al proprio usando argomenti ad hominem.
«Il Giornale» del 22 maggio 2006
Nessun commento:
Posta un commento