Scoperto un testo autobiografico del celebre scrittore. L’autore, già anziano, scrisse un libro d’amore su richiesta di un amico Può capitare al filologo quel che capita spesso al detective: che si imbatta in indizi che lo portano su piste inattese rispetto a quelle previste. Prendiamo il caso di Beatrice Barbiellini Amidei, ricercatrice di Filologia romanza alla Statale di Milano. Aveva cominciato, qualche anno fa, a studiare la novella di Griselda per verificare in che misura il capolavoro di Boccaccio fosse debitore di un famoso trattatello in latino del XII secolo, il De Amore di Andrea Cappellano, una sorta di vademecum laico sul comportamento amoroso. Su questa pista, la Barbiellini si è casualmente imbattuta in un manoscritto cartaceo vergato prima del 1372 e conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze (con la segnatura 2317).
Questo manoscritto contiene un volgarizzamento dei primi due libri del De Amore e altri materiali molto interessanti: due letterine amorose; quattro sonetti anonimi; una ballata (la cui prima stanza è attribuita a Dante) accompagnata da una prosa in forma di lettera amorosa alla donna; una lode alla donna, sempre in forma di lettera, scritta sul modello del linguaggio mistico; la conclusione in cui l’autore dell’intero codice parla al lettore, facendo riferimento al libro come a un organismo unitario. Bisogna tener presente che i codici coevi di questo genere sono di solito meno eleganti nella forma e soprattutto raccolgono materiali eterogenei senza avere nessuna pretesa di unità tematica e stilistica. In questo caso, trovandosi di fronte a un vero e proprio libro (così come dichiarato dall’anonimo autore nella chiusa) in cui la parte finale richiama esplicitamente il testo d’apertura, la Barbiellini è andata oltre ponendosi la domanda cruciale: chi l’ha compilato? Il tutto (risposta compresa) è consegnato a un saggio apparso nell’ultimo numero della rivista Medioevo romanzo. La tematica erotica che percorre il codice, la notevole qualità stilistica, l’elegante uniformità grafica, le rubriche in rosso e i capilettera pure in rosso fanno pensare a questo libro come al progetto di un autore non sprovveduto: «Un letterato ardito e abile - scrive la Barbiellini -, in grado di padroneggiare diverse tipologie testuali».
Un letterato che scrive poco prima del 1372, unica data presente nella nota di possesso in fondo al codice, e che dimostra di conoscere a menadito la poesia del Duecento e le opere di Dante, avventurandosi persino a completare una ballata frammentaria dell’Alighieri senza sfigurare. Al che si aggiunge l’ampia gamma di citazioni (da «l’ardente fiamma di Dido» a Tristano e Isotta, da Lancillotto e Ginevra allo scrittore di exempla Valerio Massimo). A questo punto, la Barbiellini si ricorda dell’importanza che ha il De Amore per l’ultima novella del Boccaccio e del riferimento (presente nella chiusa) al tema del mezzano, tanto caro all’autore del Decameron (definito Galeotto). Ma, come l’investigazione poliziesca, anche la filologia richiede molta cautela e piedi di piombo. Si trattava dunque di andare alla ricerca di spie e microspie, facendo ulteriori verifiche: stilistiche, tematiche, lessicali, linguistiche, grafiche e chi più ne ha più ne metta. Ecco, in breve, questa verifica. I motivi ricorrenti nelle opere di Boccaccio ben presenti nel codice Riccardiano sono diversi: la lettera, l’umana fragilità, le donne pietose e misericordiose, le donne come angelo, la fiamma d’amore, l’«assoluta fedeltà» dell’amante (che compare in Griselda), e poi il motivo principe del mezzano d’amore. Atri elementi: l’aneddoto del tiranno ateniese Pisistrato (citato come Fisistrato), tratto da Valerio Massimo come esempio di umanità e pietà e presente nel congedo del nostro codice, compare ben tre volte in un’opera di Boccaccio, il Filocolo , nella stessa forma con la «F» iniziale. Un aneddoto che compare nelle Esposizioni di Boccaccio (il suo lavoro esegetico sulla Divina Commedia ) ritorna nel volgarizzamento del Cappellano. E poi c’è tutta una serie di sintagmi e formule stilistiche che dalle opere maggiori e minori di Boccaccio rimbalzano nel nostro Riccardiano; ci sono immagini dantesche che ser Giovanni commentò da par suo utilizzandole nelle Rime e che tornano nei testi poetici del nostro codice; c’è la citazione di un amico di Boccaccio, Agnolo Torini, «uno degli esponenti delle confraternite laiche» satireggiato nel Decameron.
Questo manoscritto contiene un volgarizzamento dei primi due libri del De Amore e altri materiali molto interessanti: due letterine amorose; quattro sonetti anonimi; una ballata (la cui prima stanza è attribuita a Dante) accompagnata da una prosa in forma di lettera amorosa alla donna; una lode alla donna, sempre in forma di lettera, scritta sul modello del linguaggio mistico; la conclusione in cui l’autore dell’intero codice parla al lettore, facendo riferimento al libro come a un organismo unitario. Bisogna tener presente che i codici coevi di questo genere sono di solito meno eleganti nella forma e soprattutto raccolgono materiali eterogenei senza avere nessuna pretesa di unità tematica e stilistica. In questo caso, trovandosi di fronte a un vero e proprio libro (così come dichiarato dall’anonimo autore nella chiusa) in cui la parte finale richiama esplicitamente il testo d’apertura, la Barbiellini è andata oltre ponendosi la domanda cruciale: chi l’ha compilato? Il tutto (risposta compresa) è consegnato a un saggio apparso nell’ultimo numero della rivista Medioevo romanzo. La tematica erotica che percorre il codice, la notevole qualità stilistica, l’elegante uniformità grafica, le rubriche in rosso e i capilettera pure in rosso fanno pensare a questo libro come al progetto di un autore non sprovveduto: «Un letterato ardito e abile - scrive la Barbiellini -, in grado di padroneggiare diverse tipologie testuali».
Un letterato che scrive poco prima del 1372, unica data presente nella nota di possesso in fondo al codice, e che dimostra di conoscere a menadito la poesia del Duecento e le opere di Dante, avventurandosi persino a completare una ballata frammentaria dell’Alighieri senza sfigurare. Al che si aggiunge l’ampia gamma di citazioni (da «l’ardente fiamma di Dido» a Tristano e Isotta, da Lancillotto e Ginevra allo scrittore di exempla Valerio Massimo). A questo punto, la Barbiellini si ricorda dell’importanza che ha il De Amore per l’ultima novella del Boccaccio e del riferimento (presente nella chiusa) al tema del mezzano, tanto caro all’autore del Decameron (definito Galeotto). Ma, come l’investigazione poliziesca, anche la filologia richiede molta cautela e piedi di piombo. Si trattava dunque di andare alla ricerca di spie e microspie, facendo ulteriori verifiche: stilistiche, tematiche, lessicali, linguistiche, grafiche e chi più ne ha più ne metta. Ecco, in breve, questa verifica. I motivi ricorrenti nelle opere di Boccaccio ben presenti nel codice Riccardiano sono diversi: la lettera, l’umana fragilità, le donne pietose e misericordiose, le donne come angelo, la fiamma d’amore, l’«assoluta fedeltà» dell’amante (che compare in Griselda), e poi il motivo principe del mezzano d’amore. Atri elementi: l’aneddoto del tiranno ateniese Pisistrato (citato come Fisistrato), tratto da Valerio Massimo come esempio di umanità e pietà e presente nel congedo del nostro codice, compare ben tre volte in un’opera di Boccaccio, il Filocolo , nella stessa forma con la «F» iniziale. Un aneddoto che compare nelle Esposizioni di Boccaccio (il suo lavoro esegetico sulla Divina Commedia ) ritorna nel volgarizzamento del Cappellano. E poi c’è tutta una serie di sintagmi e formule stilistiche che dalle opere maggiori e minori di Boccaccio rimbalzano nel nostro Riccardiano; ci sono immagini dantesche che ser Giovanni commentò da par suo utilizzandole nelle Rime e che tornano nei testi poetici del nostro codice; c’è la citazione di un amico di Boccaccio, Agnolo Torini, «uno degli esponenti delle confraternite laiche» satireggiato nel Decameron.
Non mancano spie lessicali che si possono definire boccacciane (come l’aggettivo «melato» - dolce come il miele - che troviamo in varie combinazioni nel volgarizzamento come nel Decameron ), c’è la passione del vecchio Boccaccio per il linguaggio biblico e misticheggiante. Ma, scrive la Barbiellini, «la lingua in generale appare vicina a quella di Boccaccio nelle sue varie opere volgari (...). Il linguaggio utilizzato per la traduzione dal Cappellano è nel suo insieme il linguaggio della cortesia utilizzato da Boccaccio in generale». Ma vale la pena aggiungere che la Barbiellini non trascura neanche l’impaginazione, comune ad altri codici boccacceschi e alcune osservazioni sulla grafia. Questione spinosa. Perché la grafia di Boccaccio cambia nelle diverse fasi della sua vita. La scrittura cancelleresca del Riccardiano non somiglia a prima vista alla scrittura che compare nei codici autografi di Boccaccio. Ma... Due soli codici cartacei sono attribuiti alla sua mano (gli altri sono di pergamena) e, confrontando alcuni tratti del Boccaccio anziano (nel ’72 ha 59 anni), si riscontrano non poche coincidenze, su cui qui non è il caso di insistere troppo, come certe aste, doppie e singole, delle «f» e delle «s». L’ipotesi, insomma (ma a questo punto, con tutte le possibili cautele filologiche, è più che un’ipotesi, anche se la Barbiellini cela le sue certezze dietro un «attribuibile a Boccaccio» che ricorda il Contini alle prese con il Fiore di Dante), è che ci troviamo di fronte a un manoscritto autografo con testi inediti di ser Giovanni. Anzi, a un vero e proprio libro amoroso, probabilmente destinato a un giovane amico che ne aveva fatto richiesta allo scrittore ormai anziano, perfettamente padrone dei vari codici della letteratura erotica. E forse anche conscio che per lui il passaggio dalla teoria alla pratica era ormai superato per motivi banalmente anagrafici. Ma queste sono faccende che non riguardano la filologia.
«Corriere della sera» del 23 giugno 2006
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