di Sergio Romano
Lo studioso inglese Anthony Beevor ribalta la visione tradizionale della guerra civile
Se avessero vinto i repubblicani sarebbe nato un regime satellite dell’Urss
La Seconda guerra mondiale, soprattutto dopo l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno 1941, ha enormemente contribuito a semplificare la lettura della guerra civile spagnola. Fu più facile da allora ritenere che il dramma spagnolo fosse una ouverture alla tragedia maggiore degli anni seguenti. Gli antagonisti erano gli stessi: fascismo e antifascismo, militarismo reazionario e resistenza democratica, cultura della guerra e cultura della pace. Diveniva semplice, soprattutto per le sinistre, collocare i comunisti nel campo della democrazia e il regime franchista nel campo nazifascista. Vi furono anche interpretazioni diverse, meno schematiche e apodittiche. Vi fu chi cercò di spiegare che i drammi spagnoli di quegli anni erano molto più numerosi e non tutti riconducibili a una versione semplificata della guerra civile: il socialismo massimalista contro il socialismo democratico, i comunisti contro gli anarchici e i trotzkisti, i falangisti di sinistra contro i generali conservatori, il tradizionalismo cattolico contro i sentimenti libertari e anticlericali di una parte del Paese, i baschi e i catalani contro il potere castigliano di Madrid. Vi fu anche chi cercò di ricordare che l’intervento del Comintern nelle vicende spagnole coincise con l’inizio delle grandi purghe moscovite e che nel 1939, l’anno della sconfitta repubblicana, Stalin concluse un patto segreto con Hitler per la spartizione della Polonia e del Baltico. E vi fu infine chi sostenne che è difficile fare una scelta morale fra coloro che scoperchiano le tombe dei conventi per fucilare gli scheletri e coloro che bruciano i libri per distruggere le idee. Ma ciascuna di queste distinzioni venne travolta dalla grande semplificazione degli anni seguenti. Perché la storia del XX secolo avesse un senso, occorreva che la vicenda spagnola trasmettesse al mondo un messaggio semplice e chiaro: fascismo contro democrazia. Occorreva sottolineare che Germania e Italia, di lì a poco unite nel Patto d' Acciaio, avevano considerato la Spagna un terreno d' addestramento per le guerre che avrebbero combattuto negli anni seguenti. È vero. Ma è altrettanto vero che i comunisti, dal canto loro, avevano appreso in Spagna una lezione che avrebbero applicato nei movimenti di resistenza della Seconda guerra mondiale: come eliminare i concorrenti e imporre la propria egemonia. Il confronto tra la fucilazione degli scheletri e il rogo dei libri è suggerito da due fotografie che il lettore troverà nel libro di Anthony Beevor (La guerra civile spagnola), apparso ora presso Rizzoli.
Beevor non è uno storico accademico. È stato per qualche anno ufficiale di carriera dell’esercito britannico, ha scritto saggi e romanzi, ha pubblicato libri su Stalingrado e la caduta di Berlino nel 1945 che hanno il merito di piacere contemporaneamente agli studiosi e al grande pubblico dei lettori di storia. L’esperienza nelle forze armate del suo Paese gli permette di orientarsi abilmente nel guazzabuglio militare di una guerra in cui non vi fu, come in altri conflitti, una chiara linea del fronte tra campi contrapposti. E il talento letterario gli permette di allargare l’orizzonte della narrazione agli altri conflitti che si combatterono in quegli anni nella società spagnola. Il lettore troverà in questo libro molte ragioni per ripensare la guerra civile spagnola. Dirò quali siano state, alla fine della lettura, le mie impressioni. La guerra, come osserva Beevor, non comincia nel 1936. Uno dei meriti maggiori del suo studio è quello di risalire il fiume della storia spagnola sino ai grandi rivolgimenti dell’Ottocento e alla crisi dello Stato monarchico tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta. I protagonisti del dramma (i militari, la Falange, i socialisti, gli anarchici, i liberaldemocratici, i comunisti, la Chiesa) hanno una matrice europea e referenti internazionali, ma ciascuno di essi ha risentimenti, aspirazioni e timori che risalgono alle generazioni precedenti. Quando la guerra comincia nell’estate del 1936, la violenza esplode con una carica di rabbia e paura che si è progressivamente accumulata nel sottosuolo della società. Poche guerre civili sono state altrettanto crudeli e «religiose». Si uccide, da una parte e dall’altra, per «pulire» il Paese, «purificare» la società, distruggere e annientare i microbi che minacciano il suo futuro. Per vincere, quindi, non basta conquistare il territorio. Alcune delle pagine più importanti del libro di Beevor sono quelle che l’autore dedica al secondo atto della guerra civile, dopo la conquista di Barcellona e la trionfale parata di Madrid. Come Lenin e Hitler, anche Franco approfitta del potere conquistato per proseguire una guerra di «disinfezione», un' operazione che mira «alla distruzione fisica dei quadri dei partiti del Fronte popolare, dei sindacati e delle organizzazioni massoniche». Balza agli occhi, leggendo Beevor, il confronto con i grandi totalitarismi del Ventesimo secolo. Come nell’Unione Sovietica di Stalin, nel Terzo Reich e, più recentemente, nell’Argentina dei generali, i bambini del «nemico» vengono allevati in istituzioni pubbliche o affidati a famiglie ideologicamente sicure. I dittatori si imitano, il terrore, di destra o di sinistra, si serve degli stessi strumenti, ricorre alle stesse armi, persegue gli stessi scopi. Come va di moda oggi, soprattutto fra gli storici britannici e americani, il libro di Beevor termina con un piccolo esercizio di storia controfattuale (la «storia con i se» a cui il Corriere della Sera, qualche tempo fa, ha dedicato una serie di articoli) e si chiede che cosa sarebbe accaduto se la guerra civile fosse stata vinta dal campo repubblicano. Come appare dai rapporti degli emissari sovietici in Spagna, il Comintern era deciso a instaurare nel Paese una egemonia comunista. Forse gli interessi internazionali dell’Urss avrebbero suggerito a Mosca una diversa linea politica. Ma se lo stato dell’Europa lo avesse permesso, la Spagna, «con un governo autoritario di sinistra, sarebbe rimasta in condizioni simili a quelle delle repubbliche popolari dell’Europa centrale o dei Balcani fino al 1989». È più facile comprendere, a questo punto, perché il partito comunista non abbia avuto alcun ruolo nella Spagna post-franchista e perché la storia spagnola degli ultimi trent'anni sia stata così diversa dalla storia italiana del secondo dopoguerra.
Beevor non è uno storico accademico. È stato per qualche anno ufficiale di carriera dell’esercito britannico, ha scritto saggi e romanzi, ha pubblicato libri su Stalingrado e la caduta di Berlino nel 1945 che hanno il merito di piacere contemporaneamente agli studiosi e al grande pubblico dei lettori di storia. L’esperienza nelle forze armate del suo Paese gli permette di orientarsi abilmente nel guazzabuglio militare di una guerra in cui non vi fu, come in altri conflitti, una chiara linea del fronte tra campi contrapposti. E il talento letterario gli permette di allargare l’orizzonte della narrazione agli altri conflitti che si combatterono in quegli anni nella società spagnola. Il lettore troverà in questo libro molte ragioni per ripensare la guerra civile spagnola. Dirò quali siano state, alla fine della lettura, le mie impressioni. La guerra, come osserva Beevor, non comincia nel 1936. Uno dei meriti maggiori del suo studio è quello di risalire il fiume della storia spagnola sino ai grandi rivolgimenti dell’Ottocento e alla crisi dello Stato monarchico tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta. I protagonisti del dramma (i militari, la Falange, i socialisti, gli anarchici, i liberaldemocratici, i comunisti, la Chiesa) hanno una matrice europea e referenti internazionali, ma ciascuno di essi ha risentimenti, aspirazioni e timori che risalgono alle generazioni precedenti. Quando la guerra comincia nell’estate del 1936, la violenza esplode con una carica di rabbia e paura che si è progressivamente accumulata nel sottosuolo della società. Poche guerre civili sono state altrettanto crudeli e «religiose». Si uccide, da una parte e dall’altra, per «pulire» il Paese, «purificare» la società, distruggere e annientare i microbi che minacciano il suo futuro. Per vincere, quindi, non basta conquistare il territorio. Alcune delle pagine più importanti del libro di Beevor sono quelle che l’autore dedica al secondo atto della guerra civile, dopo la conquista di Barcellona e la trionfale parata di Madrid. Come Lenin e Hitler, anche Franco approfitta del potere conquistato per proseguire una guerra di «disinfezione», un' operazione che mira «alla distruzione fisica dei quadri dei partiti del Fronte popolare, dei sindacati e delle organizzazioni massoniche». Balza agli occhi, leggendo Beevor, il confronto con i grandi totalitarismi del Ventesimo secolo. Come nell’Unione Sovietica di Stalin, nel Terzo Reich e, più recentemente, nell’Argentina dei generali, i bambini del «nemico» vengono allevati in istituzioni pubbliche o affidati a famiglie ideologicamente sicure. I dittatori si imitano, il terrore, di destra o di sinistra, si serve degli stessi strumenti, ricorre alle stesse armi, persegue gli stessi scopi. Come va di moda oggi, soprattutto fra gli storici britannici e americani, il libro di Beevor termina con un piccolo esercizio di storia controfattuale (la «storia con i se» a cui il Corriere della Sera, qualche tempo fa, ha dedicato una serie di articoli) e si chiede che cosa sarebbe accaduto se la guerra civile fosse stata vinta dal campo repubblicano. Come appare dai rapporti degli emissari sovietici in Spagna, il Comintern era deciso a instaurare nel Paese una egemonia comunista. Forse gli interessi internazionali dell’Urss avrebbero suggerito a Mosca una diversa linea politica. Ma se lo stato dell’Europa lo avesse permesso, la Spagna, «con un governo autoritario di sinistra, sarebbe rimasta in condizioni simili a quelle delle repubbliche popolari dell’Europa centrale o dei Balcani fino al 1989». È più facile comprendere, a questo punto, perché il partito comunista non abbia avuto alcun ruolo nella Spagna post-franchista e perché la storia spagnola degli ultimi trent'anni sia stata così diversa dalla storia italiana del secondo dopoguerra.
Il libro di Anthony Beevor, La guerra civile spagnola (pp. 590, € 24,50), è edito da Rizzoli. L’autore, ex ufficiale dell’esercito britannico, ha scritto diversi saggi di storia militare.
«Corriere della sera» del 27 giugno 2006
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