Questa volta, da Perugia, non sono state spifferate ovunque intercettazioni. La magistratura lavora, zitta, poi si vedrà
di Marina Corradi
Camminare nei corridoi corti e con le volte medioevali, e poi bussare alle stanze chiuse e alla fine sentire solo i propri passano che rimbombano». Parrebbe il set del sinistro monastero de "Il nome della rosa", invece è la Procura di Perugia descritta dall’inviato del Corriere. Un posto "silente, cupo, riservatissimo". Un posto in cui, soprattutto, i magistrati non parlano. C’è un’inchiesta su un giro di fatture false per milioni di euro, che avrebbero coperto dei fondi neri destinati ai politici, e tre arrestati, fra cui un costruttore legato alle coop rosse. I nomi dei tre si sanno, ma non quelli di altri dieci indagati a piede libero. "Il riserbo - leggiamo - è strettissimo". Dunque questa volta non sono state spifferate ovunque indiscrezioni e intercettazioni. La magistratura fa il suo lavoro, zitta, e si vedrà al processo. A noi parrebbe una bella cosa. Una fortuna, per gli imputati, che talvolta sono anche innocenti, finire nelle mani di giudici così. E se sorge il dubbio che tanto garbo possa essere perchè stavolta la parte indagata è quella sbagliata, perdonateci. Sono riflessi che vengono, quando si nota che Repubblica, per esempio, dedica paginate all’indagine sul governatore di centrodestra della Puglia Fitto e non si accorge dell’inchiesta di Perugia.Il Corriere invece ne parla, ampiamente. Solo, il suo inviato pare attonito in quel palazzo cavernoso in cui i pm rispondono duri: "No, non ho niente da dire". In altri tempi, uno avrebbe telefonato al giornale dicendo: qui, non vien fuori una riga, io torno a casa. Ora invece si cerca, per questo inaudito silenzio, una spiegazione politico-sociologica: "A Perugia, si vive in una condizione simile a un regime". Un regime? "In senso democristiano. Palude, fango, melma. Chi cammina, si sporca e rischia di sprofondare. E’ difficile per tutti muoversi. Giornalisti e giudici paiono imbrigliati". Brutto, commenta impressionato il cronista. "Terribile, ma la morsa del potere è molto forte". E via così, alla Ken Follett. Mah. Per quanto cupa possa essere, questa Procura di Perugia, e paludoso - ergo, ovviamente, democristiano - l’ambiente circostante, continuiamo a pensare che preferiremmo, nella disgrazia d’essere indagati, finire in quelle stanze che a Potenza. Dove chissà come filtrano sui giornali i verbali dell’interrogatorio del giudice alla soubrette della tv. Lei imbarazzata che distingue fra "bacini" e "coccole", lui che interroga con spietatezza arcigna da confessore d’altri tempi. La parte più penosa è quella del giudice Torquemada. E verrebbe anche da ridere, se non venisse invece da piangere a vedersi l’Italia , in tante intercettazioni cubitalmente titolate, raccontata e ridotta a, quasi solo, un covo di malfattori e ladri.Meglio i silenzi cupi di Perugia che il modello Potenza, o Bari, dove un giudice descrive un suo indagato, in un’intervista, come un personaggio da Cupola mafiosa. C’era una volta la presunzione di innocenza. C’era una volta l’"assoluto riserbo". Ora, dagli anni Novanta diciamo e di nuovo adesso, il sistema giudiziario è più veloce, il tempo di mandare in macchina un giornale con ciò che è stato origliato. Repubblica, la maestra della nuova morale, scrive che il sistema politico "è troppo debole e contaminato per dare risposte politiche alle cause genetiche del suo degrado". E dunque? E’ quest’ansia giustizialista, quasi invocante aiuti straordinari alla democrazia in diffcicoltà, a dare i brividi, non i corridoi silenti della Procura di Perugia.
«Avvenire» del 23 giugno 2006
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