di Giorgio Pressburger
Da qualche decennio in qua la nostra cultura non si occupa più dello studio degli antichi miti. Il nostro sapere pare proiettarsi verso il futuro e tutto ciò che è avvenuto, nella coscienza e nell’intelligenza dell’uomo, nei secoli e nei millenni passati, non pare più interessarci. A meno che non si traduca in grandi business come avvenuto per esempio con l’attrazione da circo organizzato attorno al Codice da Vinci. L’uomo del 3000 vuole liberarsi del fardello dei millenni oscuri, nei quali la sua coscienza era ancora in preda a un sapere elementare e a un’immaginazione primitiva soggetta a paure primordiali. Ma ci siamo davvero affrancati da quello stadio dello sviluppo? Abbiamo davvero gettato via ciò che l’uomo nei millenni ha imparato senza mezzi scientifici, senza l’aiuto della tecnologia? A prima vista sì. Il linguaggio dei computer, le conoscenze biologiche ci hanno portato avanti di un balzo e pare che non torneremo mai più indietro. Ma se guardiamo il cielo, come chiamiamo le costellazioni, le stelle, i pianeti? Con i nomi degli antichi miti greci. Saturno, Orione, Marte, Mercurio, Andromeda, divinità che con l’avvento del cristianesimo e con le conoscenze odierne avrebbero dovuto scomparire dalla nostra mente, e quindi dal nostro vocabolario. Invece sono ancora lì. Ma quando ci diamo appuntamento mettiamo per giovedì o per venerdì non citiamo forse ancora quei nomi di dei antichi che presiederebbero tutt’oggi al nostro fato, al nostro destino? E il nome di battesimo non riconduce forse all’antica storia greca e romana, alla religione ebraica, alle saghe nordiche? Anche la scienza medica si basa in gran parte su terminologie dell’antica medicina greca e poi cinquecentesca: pancreas, epididimo (l’inizio dei gemelli, cioè dei testicoli), ipotalamo cioè «sotto al letto nuziale» (una certa ghiandola del cervello), ippocampo (cavalluccio marino, sempre nel cervello) sono i nomi antichi di parti del corpo umano. E l’eccessivo attaccamento alla madre di un maschio non si chiama forse «complesso di Edipo»? Oppure chi ama troppo se stesso non è «un Narciso»? L’energia con cui oggi mandiamo avanti tutto il mondo non si chiama forse con parola greca «elettrica»? Insomma il mondo antico, con i suoi riti, con le sue paure «paniche» (dal dio Pan) è ancora presente in ogni attimo della nostra vita, non soltanto nel linguaggio, ma in tutta la psicologia, legata agli antichi miti. Che cosa significa? Che l’uomo moderno è schiavo di credenze millenarie e che le porte della modernità non si sono del tutto aperte? Che l’uomo vive ancora uno stadio infantile? Oppure che dobbiamo ancora ricorrere a ciò che l’antichità ci ha tramandato per puntellare le rovine di una civiltà in cui orientarsi ormai è difficilissimo, dove menzogna, sopraffazione, potere occulto hanno preso il sopravvento? Qualche decennio fa le scienze mitologiche, la storia delle religioni, l’antropologia culturale avevano conosciuto una stagione di grande sviluppo e fertilità. Improvvisamente si era scoperto come la comunità degli esseri umani si basasse sulla necessità di comprendere i valori, i movimenti originari del nostro essere sulla Terra, l’inizio della nostra convivenza civile. I movimenti femministi avevano scoperto le leggi dell’antica società celtica, Margaret Mead si era specializzata nello studio della civiltà balinese. Uomini come Viktor Propp, Kàroly Kerényi, Claude Lèvy-Strauss con le loro ricerche hanno portato una vera rivoluzione nella concezione del mondo. Poliakoff aveva rintracciato l’origine del mito ariano che tanto aveva nuociuto nella prima metà del Novecento, messo a disposizione del nazismo. Oggi quegli studi sono stati soppiantati dall’attenzione rivolta all’economia, scienza a cui si attribuisce la maggiore validità nel campo del sapere umano. Tutte le nostre attività originerebbero e avrebbero la loro legittimità soltanto in quel campo. L’economia stessa si propone come un mito in cui gli indici Mibtel, il Pil, il tasso di crescita prendono il posto dei riti arcaici. Forse anche questa tendenza, però, potrà avere una spiegazione negli antichi miti babilonesi (per esempio nella figura di Moloch che tutto inghiotte) o ancora in quello greco di Kronos, il Dio del Tempo che divora i suoi figli. Anche da noi probabilmente verranno ancora riscoperti gli scritti di De Martino, che ha tanto in profondità ha studiato gli antichi riti del meridione d’Italia, così vivi nel profondo del popolo anche se in superficie ci sono i divi e i padroni delle televisioni.
«Avvenire» del 22 giugno 2006
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