Sarà la sussidiarietà a permetterci di mantenere l'alto livello di sicurezza sociale raggiunto dall'Occidente? Esperti a confronto
Di Edoardo Castagna
Mai nella storia si è vissuto meglio che nell'Europa di oggi. È il benessere diffuso, solido, acquisito, che attraversa ogni strato sociale: i problemi che hanno travagliato l'umanità lungo tutta la sua storia - fame, miseria, malattie - sembrano debellate una volta per tutte, almeno in quest'isola felice del mondo che è l'Occidente. Un pilastro di questo traguardo del secondo Novecento è lo Stato sociale. Quell'insieme di assistenza, sanità, previdenza e sicurezza che oggi si usa raccogliere sotto il nome di welfare state. E che oggi vacilla. Il modello europeo di Stato sociale non sembra in grado di sopravvivere ancora a lungo, almeno così com'è. Il binomio alta tassazione-alte prestazioni sociali non regge ai rapidi e drastici cambiamenti demografici in corso: invecchiamento della popolazione, bassa natalità, frammentazione della famiglia. Che fare? Alla ricerca di una risposta va il nuovo numero della rivista "Atlantide", trimestrale della fondazione per la Sussidiarietà in uscita giovedì, dal titolo "Welfare, liberi di scegliere. Più società, meno Stato?" (dal quale è tratto il testo di Davide Rondoni che pubblichiamo qui sotto). A inquadrare il problema è Pierpaolo Donati. Il sociologo evidenzia l'origine hobbesiana del welfare state: «Siccome gli uomini tendono per loro natura a regredire a una condizione di vita in cui valgono solo la forza e la frode, occorre che qualcuno detti loro delle regole, e li faccia passare dallo stato di natura allo stato civile». In questa coincidenza di società civile e società politica lo Stato, almeno quello dell'età moderna, costruisce tanto gli ordinamenti giuridici quanto i sistemi di riequilibrio sociale - il welfare state. Ma oggi questo modello, che pure ha dato i suoi frutti, è in crisi. A metterlo sotto scacco, argomenta Donati, è prima di tutto il fatto che tutto ciò che non è economico e politico venga ritenuto «irrilevante per la cittadinanza, sfera privat a». Peccato che oggi la società civile non sia più quella del Seicento, quando nacquero sia Hobbes sia gli Stati nazione, e i cittadini siano più consapevoli dei loro diritti, più informati e immersi in reti organizzate e autonome che risolvono i problemi. Quindi, occorre un'alternativa di welfare, non più costruita «su una visione antropologica negativa come quella hobbesiana».Il richiamo a un'idea di Stato sociale eticamente qualificata è espresso da Elio Borgonovi, che lamenta come, nel sistema tassazione-redistribuzione, siano diminuiti «gli spazi di scelta autonoma da parte degli individui» e sia sfumata «la percezione della correlazione tra sacrificio, di coloro che pagano i contributi, e beneficio di coloro che usufruiscono di beni gratuiti», per di più spesso inefficienti: «Da qui il tentativo di elaborare un nuovo modello di welfare, non più statalista», ma nemmeno basato «sui semplici meccanismi di autoregolazione del mercato». "Atlantide" ospita due provocatori tentativi di dare concretezza a questo nuovo modello. Charles Murray fa due conti in tasca al bilancio statunitense e azzarda: quello delle pensioni di vecchiaia è solo un modo possibile di ridistribuire quanto raccolto con le tasse, non l'unico. Si potrebbe invece elargire «un contributo annuale di diecimila dollari [circa ottomila euro, ndr] a tutti i cittadini». Utopia? No: l'Occidente, ricorda Murray contro troppi luoghi comuni, «è così benestante che sarebbe facile garantire a ognuno uno standard di vita decente, ma non possiamo farlo trastullandoci con i sistemi del welfare state». Anche Marvin Olasky teme «la bancarotta della Social security», e come rimedio - economico ed etico - suggerisce di alzare fino a settant'anni l'età di pensionamento. Non solo per far quadrare i conti, ma anche, visto quanto sono attivi e in salute i sessantenni di oggi, perché «dovremmo chiederci se sia giusto che una person a che gode ancora di buona salute smetta di usare i talenti di cui Dio lo ha dotato».Trasferendo il dibattito al caso italiano, "Atlantide" interpella i segretari dei tre sindacati confederali. Che, unanimemente, rivendicano un ruolo quasi istituzionale delle loro organizzazioni in materia di pensioni integrative, pur riconoscendo - in particolare il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni - che «lo Stato da solo non ce la fa a svolgere tutte le funzioni». Quindi entra in campo la sussidiarietà, concepita da Bonanni come «un modo per valorizzare la partecipazione responsabile dei cittadini all'organizzazione della società» attraverso «l'aiuto dei corpi intermedi». Sul versante politico rispondono Francesco Rutelli e Roberto Formigoni. Il ministro afferma il primato della persona rispetto alle istituzioni e della società civile rispetto al potere politico. In un campo specifico come quello dell'educazione, questa impostazione porta Rutelli a rivendicare «una posizione chiara a favore della parità scolastica», pur salvaguardando «la natura pubblica delle scuole paritarie che rispondano a criteri precisi, verificati dallo Stato». Il governatore della Lombardia rilancia ribadendo di non volere affatto «uno Stato minimo, che lascia soli gli individui in balia dei flutti del mercato», perché «non c'è vero sviluppo senza solidarietà sociale». Pubblico e privato non devono escludersi a vicenda: è proprio la pluralità dei soggetti in campo, pubblici e privati, a garantire contenimento dei costi e aumento della qualità. Il campo della sussidiarietà si allarga anche alle imprese private, che hanno - in teoria - come unico obiettivo il profitto? È quanto sostiene Dario Velo, che, almeno in Europa, nelle aziende vede un corpo intermedio che può essere inscritto in un nuovo quadro costituzionale fondato sulla sussidiarietà. Un quadro al quale Velo indica un modello ben preciso, da riprodurre nell'attuale Unione europea: il New Deal.
« Avvenire » del 13 giugno 2006
Nessun commento:
Posta un commento