di Annalisa Gimmi
«Una goccia d'acqua \ di notte viene su per le scale. Tic, tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura». Immaginiamo un evento normale. Un suono che fa parte del nostro quotidiano. Ma qualcosa non va. Qualcosa ci fa intendere che non è tutto come al solito. È il mistero, l'impossibile che bussa alla nostra coscienza e ci scompiglia le poche certezze che la vita concede. Non è tanto l'evento straordinario a sconvolgere, quanto il minimo scarto, l'impercettibile frattura nel bozzolo delle nostre sicurezze.
È difficile vivere, ci dice Buzzati nei suoi racconti, perché non ci è dato conoscere il mistero che sta alla base della nostra stessa esistenza. E l'uomo, piccolo e impotente, si crea un suo mondo di effimere difese. E sogna. Attende ostinato l'evento che possa dare una svolta a quel lento e soffocato rotolare del tempo. Sogna il successo, innanzi tutto, come Giovanni Drogo che per tutta la vita attende il decisivo scontro con i tartari, che farà di lui un eroe.
Oppure aspetta la rivalsa, come Barnabo che nelle oscure vallate delle sue montagne attende il momento per dimostrare al mondo il suo coraggio. E in questa attesa il tempo si consuma. Poi è tardi. Per tutto.
La quotidianità grigia e inconcludente regala però anche un'illusione di sicurezza. Finché l'imprevisto si insinua. Fin troppo facile ricordare Kafka, ma l'assurdo in Buzzati assume venature più sottili, meno eclatanti. Non c'entrano impressionanti trasformazioni o assurde macchine burocratiche che annientano la personalità del singolo. Basta la paura in se stessa. L'idea dell'ignoto, che è poi la paura della morte.
Durante la sua vita Buzzati fu spesso tacciato dalla critica di essere un giornalista anche nello scrivere di narrativa. Gli si rimproverava uno stile troppo asciutto, diretto, senza la cura ossessiva di un labor limae. Eppure oggi si riconosce infine che è proprio grazie alla sua prosa così chiara e essenziale che lo scrittore è riuscito a definire, con poche parole misurate, una situazione, uno stato d'animo, indagando le paure più segrete dell'uomo. L'impossibilità di difendersi davanti a un ignoto evento catastrofico (non la catastrofe in sé è terribile, sia chiaro, ma l'impotenza a cui ci si sente condannati); il destino a cui non si può sfuggire; la sofferenza insita nella vita che sconvolge le nostre coscienze: «Che cosa era successo? In città non avremmo più trovato un'anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. “Aiuto! Aiuto!” urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati» (Qualcosa era successo).
Come consolarsi allora di queste oscure minacce? Come sfuggire al terrore? Per Buzzati la risposta è chiara: arrampicandosi sulle montagne. Affrontando con le proprie forze una sfida con la natura. L'amore per la montagna trapela da ogni suo scritto, dai quadri, dalle lettere private, dai disegnini con cui ostinatamente istoriava i margini delle lettere e dei fogli con gli appunti di lavoro. La montagna è stata il suo grande antidoto al dolore di vivere. «Ti garantisco che quella calata, nelle tenebre che venivano, nella negra nebbia \ è stata una cosa sensazionale, come un estremo rimedio» ha scritto in una lettera all'amico Arturo Brambilla. E racconti come questi, di magici momenti di immersione nella natura, si trovano in tutto il ricco epistolario con «Illa», l'amico di sempre. Questa è la pace, l'equilibrio con se stessi e con la vita. Poi ci sono gli animali, davvero molti nelle pagine di Buzzati. Reali o fantastici, buoni o minacciosi. Ma sempre preziosi (e spesso incompresi) compagni di viaggio. E spaventa la sofferenza di un animale agonizzante, anche se si tratta solo di uno scarafaggio (forse questo sì, di kafkiana memoria).
A volte a spaventare è anche il vuoto, l'immensità dello spazio. O ancora l'inconsapevolezza in cui i medici scelgono di lasciare i pazienti, finché piano piano «le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendono lentamente, chiudendo il passo alla luce».
È difficile vivere, ci dice Buzzati nei suoi racconti, perché non ci è dato conoscere il mistero che sta alla base della nostra stessa esistenza. E l'uomo, piccolo e impotente, si crea un suo mondo di effimere difese. E sogna. Attende ostinato l'evento che possa dare una svolta a quel lento e soffocato rotolare del tempo. Sogna il successo, innanzi tutto, come Giovanni Drogo che per tutta la vita attende il decisivo scontro con i tartari, che farà di lui un eroe.
Oppure aspetta la rivalsa, come Barnabo che nelle oscure vallate delle sue montagne attende il momento per dimostrare al mondo il suo coraggio. E in questa attesa il tempo si consuma. Poi è tardi. Per tutto.
La quotidianità grigia e inconcludente regala però anche un'illusione di sicurezza. Finché l'imprevisto si insinua. Fin troppo facile ricordare Kafka, ma l'assurdo in Buzzati assume venature più sottili, meno eclatanti. Non c'entrano impressionanti trasformazioni o assurde macchine burocratiche che annientano la personalità del singolo. Basta la paura in se stessa. L'idea dell'ignoto, che è poi la paura della morte.
Durante la sua vita Buzzati fu spesso tacciato dalla critica di essere un giornalista anche nello scrivere di narrativa. Gli si rimproverava uno stile troppo asciutto, diretto, senza la cura ossessiva di un labor limae. Eppure oggi si riconosce infine che è proprio grazie alla sua prosa così chiara e essenziale che lo scrittore è riuscito a definire, con poche parole misurate, una situazione, uno stato d'animo, indagando le paure più segrete dell'uomo. L'impossibilità di difendersi davanti a un ignoto evento catastrofico (non la catastrofe in sé è terribile, sia chiaro, ma l'impotenza a cui ci si sente condannati); il destino a cui non si può sfuggire; la sofferenza insita nella vita che sconvolge le nostre coscienze: «Che cosa era successo? In città non avremmo più trovato un'anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. “Aiuto! Aiuto!” urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati» (Qualcosa era successo).
Come consolarsi allora di queste oscure minacce? Come sfuggire al terrore? Per Buzzati la risposta è chiara: arrampicandosi sulle montagne. Affrontando con le proprie forze una sfida con la natura. L'amore per la montagna trapela da ogni suo scritto, dai quadri, dalle lettere private, dai disegnini con cui ostinatamente istoriava i margini delle lettere e dei fogli con gli appunti di lavoro. La montagna è stata il suo grande antidoto al dolore di vivere. «Ti garantisco che quella calata, nelle tenebre che venivano, nella negra nebbia \ è stata una cosa sensazionale, come un estremo rimedio» ha scritto in una lettera all'amico Arturo Brambilla. E racconti come questi, di magici momenti di immersione nella natura, si trovano in tutto il ricco epistolario con «Illa», l'amico di sempre. Questa è la pace, l'equilibrio con se stessi e con la vita. Poi ci sono gli animali, davvero molti nelle pagine di Buzzati. Reali o fantastici, buoni o minacciosi. Ma sempre preziosi (e spesso incompresi) compagni di viaggio. E spaventa la sofferenza di un animale agonizzante, anche se si tratta solo di uno scarafaggio (forse questo sì, di kafkiana memoria).
A volte a spaventare è anche il vuoto, l'immensità dello spazio. O ancora l'inconsapevolezza in cui i medici scelgono di lasciare i pazienti, finché piano piano «le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendono lentamente, chiudendo il passo alla luce».
«Il Giornale» del 6 ottobre 2006
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