13 giugno 2006

Buzzati: il dio che c'è ma non esiste

di Elisabetta Rosaspina
Dio c' è, anche se non esiste. Forse suona un po' pirandelliana, ma è l' unica conclusione possibile alla lunga indagine di Lucia Bellaspiga su un non credente al di sopra di ogni sospetto: Dino Buzzati. Cento anni dopo la sua nascita e 34 dopo la sua morte, Buzzati rivela il suo rapporto con l'Aldilà, la fede, l' inspiegabile, insomma: il soprannaturale. Una confessione postuma, ricostruita attraverso il delicato montaggio delle sue parole, opere, omissioni e contraddizioni: Dio che non esisti ti prego (edizioni Ancora, pp. 224, 15) è il titolo e la sintesi di molti mesi di ricerche. L'inchiesta non trascura alcuna pista: i racconti, i diari, gli appunti inediti, i disegni, perfino gli spazi vuoti; e alcune testimonianze di quanti accompagnarono, per un breve tratto o per buona parte della sua vita, l' autore del Deserto dei Tartari, il cronista simbolo di via Solferino: la moglie, il compagno di scalate, i colleghi. Anche due di loro, nel frattempo, sono scomparsi: Indro Montanelli e Gaetano Afeltra. Fedeli a un' antica e complice discrezione, magari non hanno detto tutto. Ma sicuramente quanto basta. Per essere un uomo senza il dono della fede, come si accreditò fino alla fine, rifiutando l' estrema unzione, Buzzati non è stato bravo nel nascondere le tracce e cancellare le prove dei suoi dubbi trascendentali, dei suoi cedimenti al fascino di una giustizia universale, di un amore extraterreno, di un' infinita «boutique dei misteri» che intuiva sopra le sue Dolomiti, dietro le stelle, nell' ultima espressione del viso di sua madre sul letto di morte, nell' ombra di un arabo che scompare nel suk con la sua palandrana bianca. Lucia Bellaspiga, ora giornalista di «Avvenire», era una bambina quel 28 gennaio del 1972, quando anche Buzzati varcò la «frontiera» e scoprì, forse, se avesse avuto ragione a non credere o, piuttosto, a non escludere. Il tenace inseguimento inizia dieci anni più tardi, quando lei scrive una lettera al «Giornale Nuovo» di Montanelli, esprimendo la sua devozione adolescenziale per il grande scrittore bellunese. Tanta passione colpisce la vedova, Almerina Buzzati, che apre alla ragazza la porta di casa, poi i cassetti, gli album, le agende e dunque i confini tra il mito e l' uomo. A molti sarebbe bastato. Sarebbe bastato toccare i fogli su cui aveva passeggiato il suo pugno, sentire il fiato umido e vero del vecchio Diabolik, il cane raffigurato nel suo ultimo quadro. Sarebbe bastato conoscere, quasi in esclusiva, l'incertezza su un aggettivo, svelata dalle correzioni sui manoscritti. Sarebbe bastata la commozione per quella grafia resa quasi infantile dal cancro che stava per ucciderlo. Ma si poteva apprendere di più di «quello che i libri non dicono» dell' autore prediletto. Si poteva scoprire in che cosa crede un non credente come Buzzati. Che non era un ateo, precisa Vittorino Andreoli nella prefazione. Ma un cronista dell' insondabile. A differenza di un «senza-Dio», Buzzati non chiude gli occhi di fronte ai segni, ai messaggi e, soprattutto, ai messaggeri dell' Altrove. Anzi, li cerca e sa dove trovarli: tra le creature semplici. Dove, sbadatamente, nessuno guarda. O tra gli esseri repellenti, che nessuno vuole guardare. Come il Colombre, il «mostruoso pesce dal muso di bufalo», temuto come un predatore e inascoltato come un profeta. I messaggeri «sanno», sanno che cosa c' è oltre l' ultima porta, come «il cane che ha visto Dio», nel paesino di Tis. Ma non riescono mai a comunicare il loro segreto, perché ci si accorge di loro sempre troppo tardi, quando hanno svoltato l' angolo e sono scomparsi. Se Buzzati è diventato uno di loro, invisibile e immateriale, ha dato più di un' occasione all' implacabile biografa della sua anima: per esempio, quando Lucia Bellaspiga ritrova uno schizzo a matita che ritrae, di spalle, «la Madre scrivente», datato 7 settembre 1941. L' abbozzo le ricorda una scena identica, descritta da Buzzati nell' agenda del 1971, dieci anni dopo la morte della madre. Segue la direzione indicata dal disegno, approfondisce e scopre, con l' aiuto di Almerina, che quello era davvero il «fermo immagine» di un ricordo rimasto per 30 anni nascosto nel cuore dello scrittore. E restituito dal passato remoto di un cassetto altri 35 anni dopo. Proprio a lei. Un caso, una coincidenza, un messaggio. Come vi pare.
« Corriere della sera » del 12 giugno 2006

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