di Franco Cordelli
Il poeta muore, noi prendiamo in mano i suoi libri, li sfogliamo, ritroviamo quella voce inconfondibile. La voce di Giovanni Giudici si fa ascoltare, non è mai baritonale o tenorile, non è mai «poetica»; e però, per esibire quest'abito di umiltà, così contrario all' esibizione, deve scartare di lato, arrestarsi sul più bello, girarsi da un'altra parte senza che noi (noi lettori, noi ascoltatori delle sue «prove di teatro», come s'intitola una poesia del 1977), senza che noi, dicevo, ci si accorga della sua abilità, della sua prodigiosa tecnica: una delle più elaborate e delle meno visibili del secondo Novecento. Con Giudici ho parlato una sola volta. Lo incontrai in un tram diretto a piazza Cavour. Scendemmo alla stessa fermata, il colloquio continuò per poco. Pensai che averlo visto in tram era simbolico. Un tram, nella sua Milano, lui sorridente, cordiale, cittadino fino al midollo. Ma che tipo di cittadino, ovvero di poeta, fu Giudici? Del cittadino ossessionato dalla città, ad essa morbosamente vincolato, nessuno ha interpretato con così profondo sentimento i tratti salienti, inclusa la sua stessa nevrosi. Il più accurato e fedele interprete della sua opera è stato Alfonso Berardinelli: «Giudici è un poeta senza miti, leggendo il quale a nessuno può venire in mente di mitizzare la poesia e i poeti. Si leggano i suoi versi, che sono probabilmente i più melodici, i più abilmente dissonanti della poesia italiana recente. E si dimentica la poesia-valore, la poesia-mito (...) Giudici è l'esatto contrario di Pasolini, che instaura incessantemente il mito di se stesso come poeta scrivendo un po' come viene, sicuro com' è di trovarsi sempre, per natura e per destino, nella grazia della poesia». Pure, benché controvoglia, a Giudici sono toccati i suoi miti. Il tema, ovvero il mito, della «vita in versi», ossia della vita e della poesia l'una contro l'altra armate eppure solidali, complici: «Inoltre metti in versi che morire/ è possibile a tutti più che nascere,/ e in ogni caso l'essere è più del dire». Ciò, fu tuttavia detto. Altro mito: il lavoro. Andrea Zanzotto osservò come il personaggio di Giudici, per quanti abiti mutasse nel corso della giornata e del tempo, era l' impiegato: di questo tipo umano nella società industriale Giudici spiò il grigiore, congetturò la soffocazione. Non per nulla uno dei suoi poemetti più belli e famosi resta Se sia opportuno trasferirsi in campagna, cioè andare via, fuggire (dalla città - dove si lavora, dove si è «impiegati»). E non per nulla (terzo mito) il padre fu una specie di suo doppio, quel padre specializzato nel nascondersi, nello scantonare dall' esistenza, nel tentativo di sfuggire ai creditori: Il male dei creditori è un altro suo canonico titolo. Con quel padre, in questa città, tormentato dal lavoro, schivando ogni rischio di «poesia», cosa per sé sognò il poeta Giovanni Giudici? Un punto di semplice, umana nobiltà: «In verità io non voglio separare e distinguere./ Resterei solo troppo a lungo - più della mia/ durata - e amo invece la compagnia».
«Corriere della Sera» del 25 maggio 2011
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