Tratto dal volume Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Paravia, volume III, tomo 2/b, pp. 774 ss.
di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
Questa poesia, come il testo precedente, era stata anticipata nel 1915 su «Lacerba», in un abbozzo ancora piuttosto informe. Anche in questo caso risalta il lavoro di riduzione operato dal poeta. Collocandola all’inizio della prima edizione del Porto sepolto, in una forma ormai molto simile a quella definitiva, Ungaretti ne sottolineava la funzione esemplare, per la capacità di saldare la dimensione autobiografica del ricordo con la natura del discorso poetico.
La vicenda di Moammed Sceab consente infatti di introdurre uno dei motivi di fondo della raccolta: quello dell’esilio, inteso come perdita immedicabile di ogni punto di riferimento, che la poesia ha il compito di sublimare e di sanare, proponendosi come ricerca di una identità originaria perduta. La peregrinazione dell’individuo (cfr. anche Girovago) è parallela alla rottura dei legami con il passato e all’impossibilità di reintegrarlo nel presente. Il suicidio dell’amico comprende e racchiude in qualche modo il destino stesso del poeta, corrispondendo a un’analoga ricerca di valori, che si conclude tragicamente in chi non sa (o non sa più) esprimerli e comunicarli (cfr. vv. 18-21). Oltre a sollecitare la commossa pietà del ricordo, il gesto diventa così l’equivalente della poesia, con la quale ha in comune la medesima ansia di liberazione e di «abbandono».
Il tono, insieme dolente e distaccato (in quanto si basa su una sequenza di nude indicazioni), trova riscontro nel ritmo franto e spezzato delle strofe e dei versi, che sollecitano una lettura lenta e sillabata. L’isolamento di parole semanticamente rilevanti (da «suicida» a «Riposa» e «sempre», attraverso «Patria», «vivere» e «sciogliere», queste ultime precedute dalla negazione) risulta l’effetto di una disarticolarzione del verso, che può essere composto anche da particelle prive in se stesse di ogni significato (v. 33: «di una»). In questo modo Ungaretti sembra voler tradurre l’insanabile contraddizione - propria dell’amico e della sua stessa poesia - fra l’aspirazione all’assoluto e la contingente precarietà della vita.
Il rapporto che si stabilisce fra la parola e la sua pronuncia nel vuoto e nel silenzio ricompone con fatica una continuità dolorosa e sofferta, quasi un singhiozzo sommesso, che corrisponde a una sorta di «cantilena» funebre. Lo snodarsi dei versi, nella loro misura del tutto variabile, sembra adeguarsi all’andamento della stessa esistenza, in relazione al carattere più scopertamente autobiografico del discorso, inconsueto nella poesia ungarettiana. Di qui un’attenzione quasi cronachistica, scandita dalla precisa indicazione dei riferimenti topografici, che finisce tuttavia per porre l’accento sullo sfiorire e sul decomporsi della vita (si noti la corrispondenza fra «appassito» e «decomposta», che introducono i vv. 27 e 34, con cui si chiudono la terzultima e la penultima strofa). In questi termini sembra racchiudersi il mistero delle cose (e della poesia che cerca di coglierlo), nell’incerto confine fra il contingente e l’assoluto.
La vicenda di Moammed Sceab consente infatti di introdurre uno dei motivi di fondo della raccolta: quello dell’esilio, inteso come perdita immedicabile di ogni punto di riferimento, che la poesia ha il compito di sublimare e di sanare, proponendosi come ricerca di una identità originaria perduta. La peregrinazione dell’individuo (cfr. anche Girovago) è parallela alla rottura dei legami con il passato e all’impossibilità di reintegrarlo nel presente. Il suicidio dell’amico comprende e racchiude in qualche modo il destino stesso del poeta, corrispondendo a un’analoga ricerca di valori, che si conclude tragicamente in chi non sa (o non sa più) esprimerli e comunicarli (cfr. vv. 18-21). Oltre a sollecitare la commossa pietà del ricordo, il gesto diventa così l’equivalente della poesia, con la quale ha in comune la medesima ansia di liberazione e di «abbandono».
Il tono, insieme dolente e distaccato (in quanto si basa su una sequenza di nude indicazioni), trova riscontro nel ritmo franto e spezzato delle strofe e dei versi, che sollecitano una lettura lenta e sillabata. L’isolamento di parole semanticamente rilevanti (da «suicida» a «Riposa» e «sempre», attraverso «Patria», «vivere» e «sciogliere», queste ultime precedute dalla negazione) risulta l’effetto di una disarticolarzione del verso, che può essere composto anche da particelle prive in se stesse di ogni significato (v. 33: «di una»). In questo modo Ungaretti sembra voler tradurre l’insanabile contraddizione - propria dell’amico e della sua stessa poesia - fra l’aspirazione all’assoluto e la contingente precarietà della vita.
Il rapporto che si stabilisce fra la parola e la sua pronuncia nel vuoto e nel silenzio ricompone con fatica una continuità dolorosa e sofferta, quasi un singhiozzo sommesso, che corrisponde a una sorta di «cantilena» funebre. Lo snodarsi dei versi, nella loro misura del tutto variabile, sembra adeguarsi all’andamento della stessa esistenza, in relazione al carattere più scopertamente autobiografico del discorso, inconsueto nella poesia ungarettiana. Di qui un’attenzione quasi cronachistica, scandita dalla precisa indicazione dei riferimenti topografici, che finisce tuttavia per porre l’accento sullo sfiorire e sul decomporsi della vita (si noti la corrispondenza fra «appassito» e «decomposta», che introducono i vv. 27 e 34, con cui si chiudono la terzultima e la penultima strofa). In questi termini sembra racchiudersi il mistero delle cose (e della poesia che cerca di coglierlo), nell’incerto confine fra il contingente e l’assoluto.
Postato il 2 maggio 2011
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