di Enrico Negrotti
Il commento ai Promessi Sposi di Aldo Spranzi, recentemente pubblicato dalle Edizioni Ares (pagine 864, euro 26), è completamente diverso tutti gli altri finora comparsi. L’autore, docente di Economia dell’arte all’Università degli studi di Milano, da oltre quindici anni (a partire dal ponderoso Anticritica dei Promessi Sposi) difende le sue tesi «eterodosse» sull’ispirazione manzoniana e sulla vera interpretazione del romanzo, che sarebbe fin qui sfuggita a tutti i critici letterari.
La tesi di Spranzi, in estrema sintesi, è che ci troviamo di fronte a un romanzo anticristiano, dove Dio è un signorotto mafioso, la Provvidenza non opera e anzi lascia il mondo nelle mani del caos e del caso, mentre gli uomini sono capaci solo di odio. Prove evidenti di questa visione sarebbero soprattutto i capitoli delle cosiddette digressioni storiche, dalla carestia alla guerra e soprattutto alla peste. E la storia di Renzo e Lucia? È solo la fiaba cattolica destinata a scomparire nel corso di una lettura attenta che, seguendo le indicazioni che fornisce l’io narrante (personaggio alter ego dell’autore), giunge a scoprire il criptoromanzo, che svelerebbe le reali intenzioni del Manzoni. Il volume incuriosisce sin dal titolo: Alla scoperta dei «Promessi Sposi».
Dalla lettura integrale del testo un’inattesa interpretazione del romanzo. Dopo una presentazione, che invita il lettore a muoversi autonomamente nel testo manzoniano – privo di pregiudizi (e dell’accompagnamento degli «eruditi specialisti») – il commento ha un andamento molto irregolare. Nessuna introduzione ai singoli capitoli: le indicazioni di Spranzi si riassumono soprattutto in alcuni inserti che egli pone quando ritiene che vi sia una svolta interpretativa da sottolineare (sono alle fine dei capitoli 8, 10, 11, 17, 18, 20, 23, 24, 27, 32, 37, 38).
All’interpretazione dell’autore viene contrapposta una figura di «avvocato del diavolo» che tenta di contestare le tesi – via via più ardite col passare delle pagine – proposte da Spranzi. Anche le note sono ovviamente funzionali: additare alcuni elementi di perplessità rispetto a una prima lettura, che sono stati sottovalutati o ignorati dalla critica, e che invece dovrebbero obbligare un lettore onesto a rivalutare i personaggi e il loro ruolo nel romanzo. Lasciando invece da parte tutta una serie di indicazioni che solitamente i critici offrono, di carattere stilistico o storico (in una parola metatestuale), che sarebbero responsabili degli occhiali deformanti con cui si è letto sempre il capolavoro manzoniano, trasformato in un poema cattolico.
Ma se questa è una definizione di comodo (e contestabile), la tesi di Spranzi non risulta affatto convincente. Se è vero che i commenti al romanzo possono risultare talora stucchevoli o melensi – e c’è ovviamente libertà di dissentire anche dal moralismo manzoniano –; e se alcune intuizioni del commentatore offrono spunti e approfondimenti meritevoli di discussione, paiono sostanzialmente più convincenti le obiezioni dell’avvocato del diavolo che lamenta (pag. 682) che «l’autore del commento sia... schiavo di un suo ostinato disegno di contestazione globale, di capovolgimento, che lo costringe a piegare le indicazioni testuali a una tesi arditissima quanto deformante».
Spranzi legge ogni episodio con gli occhi del sospetto ritenendo che don Abbondio non rischi realmente la vita per le minacce dei bravi (pag. 166), che don Rodrigo non sia un delinquente ma solo un innamorato che perde completamente la testa (pag. 366), che fra Cristoforo sia “solo” un attaccabrighe che indossa il saio per evitare la forca (pag. 83), che Lucia non sia profondamente religiosa ma sia vittima di una superstizione rispetto a un Dio che le ha ucciso il padre (pag. 510), che l’innominato non viva nessuna conversione, ma perda interesse per i delitti perché cade in una sindrome depressiva (pag. 434), che Renzo sia capace di fare l’elemosina solo per mercanteggiare l’aiuto divino e sentirsi in credito (pag. 333), che Gertrude sia del tutto innocente perché la monacazione forzata ne annulla la responsabilità morale negli atti successivi, anche nel tradimento di Lucia operato perché vittima di un ricatto (pag. 415).
È evidente che le vicende del romanzo si svolgono tra delitti e lutti, stragi e devastazioni, e che non si può cancellare la presenza del male nel mondo, ma per negare qualunque presenza religiosa, Spranzi è costretto a deformare, svalutare o ignorare i molti segnali del contrario. Per citarne solo alcuni: nei Promessi Sposi non prega nessuno (pag. 509) dice il commentatore, dimenticando non solo il fatto che i personaggi vanno a Messa la domenica, ma che Lucia rapita recita il rosario e che nel lazzaretto c’era una cappella.
Così come appare a dir poco sorprendente la nota (pag. 486) al passo in cui Lucia liberata ripensa al voto e rimane costernata: «La reazione disperata di Lucia produce un vero e proprio terremoto: per conto di chi è stata rapita Lucia? Pensavamo si trattasse di don Rodrigo, ma il riscatto pagato per la liberazione risulta incassato da Dio (il voto, ndr): è dunque lui che ha fatto rapire la fanciulla». E la decisione di fra Cristoforo di prestare servizio al lazzaretto? «Recita la parte del sacrificio della vita per il prossimo sofferente che renderà (ai suoi occhi) autentica la “conversione” seguita al delitto» (pag. 734). Inutile cercare commenti adeguati alla preghiera con cui fra Cristoforo induce Renzo davanti a don Rodrigo morente (pag. 741).
E il discorso alto di padre Felice agli scampati della peste viene così liquidato (pag. 744): «Quando entra in scena per recitare la sua parte, la platea è vuota. Sono rimasti solo gli spettatori della fiaba, mentre i lettori impegnati nell’interpretazione sono da tempo usciti dal teatrino della vicenda apparente». Il «lieto fine della fiaba cattolica», «ridicolo» (pag. 682), è frutto solo del Caso: «Non si salvano i giusti in questo mondo, né misteriosamente si salveranno in un’altra vita» (pag. 789).
La tesi di Spranzi, in estrema sintesi, è che ci troviamo di fronte a un romanzo anticristiano, dove Dio è un signorotto mafioso, la Provvidenza non opera e anzi lascia il mondo nelle mani del caos e del caso, mentre gli uomini sono capaci solo di odio. Prove evidenti di questa visione sarebbero soprattutto i capitoli delle cosiddette digressioni storiche, dalla carestia alla guerra e soprattutto alla peste. E la storia di Renzo e Lucia? È solo la fiaba cattolica destinata a scomparire nel corso di una lettura attenta che, seguendo le indicazioni che fornisce l’io narrante (personaggio alter ego dell’autore), giunge a scoprire il criptoromanzo, che svelerebbe le reali intenzioni del Manzoni. Il volume incuriosisce sin dal titolo: Alla scoperta dei «Promessi Sposi».
Dalla lettura integrale del testo un’inattesa interpretazione del romanzo. Dopo una presentazione, che invita il lettore a muoversi autonomamente nel testo manzoniano – privo di pregiudizi (e dell’accompagnamento degli «eruditi specialisti») – il commento ha un andamento molto irregolare. Nessuna introduzione ai singoli capitoli: le indicazioni di Spranzi si riassumono soprattutto in alcuni inserti che egli pone quando ritiene che vi sia una svolta interpretativa da sottolineare (sono alle fine dei capitoli 8, 10, 11, 17, 18, 20, 23, 24, 27, 32, 37, 38).
All’interpretazione dell’autore viene contrapposta una figura di «avvocato del diavolo» che tenta di contestare le tesi – via via più ardite col passare delle pagine – proposte da Spranzi. Anche le note sono ovviamente funzionali: additare alcuni elementi di perplessità rispetto a una prima lettura, che sono stati sottovalutati o ignorati dalla critica, e che invece dovrebbero obbligare un lettore onesto a rivalutare i personaggi e il loro ruolo nel romanzo. Lasciando invece da parte tutta una serie di indicazioni che solitamente i critici offrono, di carattere stilistico o storico (in una parola metatestuale), che sarebbero responsabili degli occhiali deformanti con cui si è letto sempre il capolavoro manzoniano, trasformato in un poema cattolico.
Ma se questa è una definizione di comodo (e contestabile), la tesi di Spranzi non risulta affatto convincente. Se è vero che i commenti al romanzo possono risultare talora stucchevoli o melensi – e c’è ovviamente libertà di dissentire anche dal moralismo manzoniano –; e se alcune intuizioni del commentatore offrono spunti e approfondimenti meritevoli di discussione, paiono sostanzialmente più convincenti le obiezioni dell’avvocato del diavolo che lamenta (pag. 682) che «l’autore del commento sia... schiavo di un suo ostinato disegno di contestazione globale, di capovolgimento, che lo costringe a piegare le indicazioni testuali a una tesi arditissima quanto deformante».
Spranzi legge ogni episodio con gli occhi del sospetto ritenendo che don Abbondio non rischi realmente la vita per le minacce dei bravi (pag. 166), che don Rodrigo non sia un delinquente ma solo un innamorato che perde completamente la testa (pag. 366), che fra Cristoforo sia “solo” un attaccabrighe che indossa il saio per evitare la forca (pag. 83), che Lucia non sia profondamente religiosa ma sia vittima di una superstizione rispetto a un Dio che le ha ucciso il padre (pag. 510), che l’innominato non viva nessuna conversione, ma perda interesse per i delitti perché cade in una sindrome depressiva (pag. 434), che Renzo sia capace di fare l’elemosina solo per mercanteggiare l’aiuto divino e sentirsi in credito (pag. 333), che Gertrude sia del tutto innocente perché la monacazione forzata ne annulla la responsabilità morale negli atti successivi, anche nel tradimento di Lucia operato perché vittima di un ricatto (pag. 415).
È evidente che le vicende del romanzo si svolgono tra delitti e lutti, stragi e devastazioni, e che non si può cancellare la presenza del male nel mondo, ma per negare qualunque presenza religiosa, Spranzi è costretto a deformare, svalutare o ignorare i molti segnali del contrario. Per citarne solo alcuni: nei Promessi Sposi non prega nessuno (pag. 509) dice il commentatore, dimenticando non solo il fatto che i personaggi vanno a Messa la domenica, ma che Lucia rapita recita il rosario e che nel lazzaretto c’era una cappella.
Così come appare a dir poco sorprendente la nota (pag. 486) al passo in cui Lucia liberata ripensa al voto e rimane costernata: «La reazione disperata di Lucia produce un vero e proprio terremoto: per conto di chi è stata rapita Lucia? Pensavamo si trattasse di don Rodrigo, ma il riscatto pagato per la liberazione risulta incassato da Dio (il voto, ndr): è dunque lui che ha fatto rapire la fanciulla». E la decisione di fra Cristoforo di prestare servizio al lazzaretto? «Recita la parte del sacrificio della vita per il prossimo sofferente che renderà (ai suoi occhi) autentica la “conversione” seguita al delitto» (pag. 734). Inutile cercare commenti adeguati alla preghiera con cui fra Cristoforo induce Renzo davanti a don Rodrigo morente (pag. 741).
E il discorso alto di padre Felice agli scampati della peste viene così liquidato (pag. 744): «Quando entra in scena per recitare la sua parte, la platea è vuota. Sono rimasti solo gli spettatori della fiaba, mentre i lettori impegnati nell’interpretazione sono da tempo usciti dal teatrino della vicenda apparente». Il «lieto fine della fiaba cattolica», «ridicolo» (pag. 682), è frutto solo del Caso: «Non si salvano i giusti in questo mondo, né misteriosamente si salveranno in un’altra vita» (pag. 789).
«Avvenire» del 26 aprile 2011
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