Regole sulle Dat: risposta a Veronesi
di Francesco D’Agostino
Concordo in un solo punto con la lettera aperta che Umberto Veronesi ha pubblicato sul Corriere della Sera del 1° maggio in merito alla legge sul "fine vita": questo è uno di quei temi che non hanno carattere politico, che non sono né di destra né di sinistra «e neppure di questa o quella religione». Non si potrebbe dire di meglio. Su tutto il resto della lettera, invece, il disaccordo è totale.
Primo punto. Non è vero che la legge che Veronesi definisce sul «testamento biologico» – ma bisognerebbe parlare di «dichiarazioni anticipate di trattamento» – sia auspicata solo da coloro che temano di poter cadere in uno stato vegetativo persistente (temano cioè di diventare dei «morti viventi», secondo l’incredibile e offensiva espressione che Veronesi utilizzò in una intervista a "Repubblica" il 18 giugno del 2000). Sono numerosi, e sempre più lo saranno, gli anziani in stato confusionale o colpiti da Alzheimer o da qualsiasi altra patologia che ne riduca in modo significativo la lucidità: è comprensibile che alcuni, di fronte a questa prospettiva, vogliano redigere dichiarazioni anticipate non per rifiutare le cure o chiedere l’eutanasia, ma per rifiutare forme di accanimento e per meglio concordare anticipatamente col proprio medico tecniche ottimali di futuro trattamento. La legge è prevista per regolare queste legittime istanze, impedendo che abbiano esiti eutanasici; non è affatto, quindi, una legge che tradisce le aspettative dei cittadini o che va "contro" la loro espressione di volontà. Si tratta piuttosto di una legge che vuole saggiamente regolamentare tutto questo.
Secondo punto. Non è vero che il tema affrontato dalla legge sulle Dat possa ridursi a una mera questione di «autodeterminazione»: questa categoria, essenziale nei contesti politici, possiede, in bioetica, limitati spazi di utilizzazione. Il diritto nega la disponibilità della vita (nega insomma la liceità dell’eutanasia); nega la possibilità di fare commercio dei propri organi e anche quella di disporne discrezionalmente.
La nostra Costituzione non proclama l’autodeterminazione come diritto fondamentale, ma si limita (giustamente) a esigere il consenso del malato per ogni atto medico, proibendo interventi sanitari coercitivi e qualificando la salute alla stregua di «diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32). Di qui l’esigenza di garantire il carattere ippocratico della medicina, imponendo al medico di operare sempre a favore della vita e mai contro di essa (senza considerare che è interesse dei medici stessi non essere ridotti a esecutori passivi della volontà dei loro pazienti). Il disegno di legge sul "fine vita", evitando di dare carattere vincolante alle dichiarazioni anticipate, ma obbligando il medico a tenerne seriamente conto, individua una corretta mediazione nei casi in cui l’alleanza terapeutica tra medico e paziente possa entrare in crisi: una mediazione peraltro già individuata, e unanimemente, dal Comitato nazionale per la bioetica.
Terzo punto. Non è vero – purtroppo – che il lavoro della giustizia italiana in tema di bioetica sia talmente rassicurante, da rendere superflua una legge sul fine vita. La Cassazione, nel caso tragico di Eluana, ha avallato una sorta di testamento "orale" che, se avesse avuto contenuto patrimoniale e non "biologico", sarebbe stato ritenuto irricevibile perfino da uno studente di primo anno di giurisprudenza. È un fatto che il "caso Englaro" ha aperto una lacerazione nell’etica e nella pratica medica, che rende opportuno e urgente un intervento del Parlamento.
Quarto e ultimo punto. In contraddizione con se stesso, quando sostiene che la questione del testamento biologico non è «di questa o di quella religione», Veronesi chiude la lettera citando le ben note parole con cui Montanelli, rispondendo a un lettore, negava il diritto della Chiesa a imporre i suoi comandamenti in tema di fine vita anche a chi non avesse «la fortuna di essere un credente».
La citazione sarebbe appropriata (e sarebbero state appropriate le parole di Montanelli) solo alla condizione che l’insegnamento della Chiesa sull’eutanasia fosse davvero confessionale e non piuttosto rivolto al bene umano in sé e per sé; solo cioè se fosse vero che con questa legge si vogliano imporre a tutti i cittadini, cristiani e non cristiani, precetti ecclesiastici fondati esclusivamente su dogmi o dichiarazioni del Magistero.
Questo però è falso. Sta diventando francamente insopportabile che molti laici (o, più correttamente, molti laicisti) continuino ad usare questo sofisma (la parola è grossa, ma non ne esistono altre appropriate). Che Veronesi, e chi la pensi come lui o come Montanelli, spieghino per favore sotto quali profili le considerazioni appena svolte (giuste o sbagliate che siano) possano essere ritenute esclusivamente cattoliche o confessionali.
Primo punto. Non è vero che la legge che Veronesi definisce sul «testamento biologico» – ma bisognerebbe parlare di «dichiarazioni anticipate di trattamento» – sia auspicata solo da coloro che temano di poter cadere in uno stato vegetativo persistente (temano cioè di diventare dei «morti viventi», secondo l’incredibile e offensiva espressione che Veronesi utilizzò in una intervista a "Repubblica" il 18 giugno del 2000). Sono numerosi, e sempre più lo saranno, gli anziani in stato confusionale o colpiti da Alzheimer o da qualsiasi altra patologia che ne riduca in modo significativo la lucidità: è comprensibile che alcuni, di fronte a questa prospettiva, vogliano redigere dichiarazioni anticipate non per rifiutare le cure o chiedere l’eutanasia, ma per rifiutare forme di accanimento e per meglio concordare anticipatamente col proprio medico tecniche ottimali di futuro trattamento. La legge è prevista per regolare queste legittime istanze, impedendo che abbiano esiti eutanasici; non è affatto, quindi, una legge che tradisce le aspettative dei cittadini o che va "contro" la loro espressione di volontà. Si tratta piuttosto di una legge che vuole saggiamente regolamentare tutto questo.
Secondo punto. Non è vero che il tema affrontato dalla legge sulle Dat possa ridursi a una mera questione di «autodeterminazione»: questa categoria, essenziale nei contesti politici, possiede, in bioetica, limitati spazi di utilizzazione. Il diritto nega la disponibilità della vita (nega insomma la liceità dell’eutanasia); nega la possibilità di fare commercio dei propri organi e anche quella di disporne discrezionalmente.
La nostra Costituzione non proclama l’autodeterminazione come diritto fondamentale, ma si limita (giustamente) a esigere il consenso del malato per ogni atto medico, proibendo interventi sanitari coercitivi e qualificando la salute alla stregua di «diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32). Di qui l’esigenza di garantire il carattere ippocratico della medicina, imponendo al medico di operare sempre a favore della vita e mai contro di essa (senza considerare che è interesse dei medici stessi non essere ridotti a esecutori passivi della volontà dei loro pazienti). Il disegno di legge sul "fine vita", evitando di dare carattere vincolante alle dichiarazioni anticipate, ma obbligando il medico a tenerne seriamente conto, individua una corretta mediazione nei casi in cui l’alleanza terapeutica tra medico e paziente possa entrare in crisi: una mediazione peraltro già individuata, e unanimemente, dal Comitato nazionale per la bioetica.
Terzo punto. Non è vero – purtroppo – che il lavoro della giustizia italiana in tema di bioetica sia talmente rassicurante, da rendere superflua una legge sul fine vita. La Cassazione, nel caso tragico di Eluana, ha avallato una sorta di testamento "orale" che, se avesse avuto contenuto patrimoniale e non "biologico", sarebbe stato ritenuto irricevibile perfino da uno studente di primo anno di giurisprudenza. È un fatto che il "caso Englaro" ha aperto una lacerazione nell’etica e nella pratica medica, che rende opportuno e urgente un intervento del Parlamento.
Quarto e ultimo punto. In contraddizione con se stesso, quando sostiene che la questione del testamento biologico non è «di questa o di quella religione», Veronesi chiude la lettera citando le ben note parole con cui Montanelli, rispondendo a un lettore, negava il diritto della Chiesa a imporre i suoi comandamenti in tema di fine vita anche a chi non avesse «la fortuna di essere un credente».
La citazione sarebbe appropriata (e sarebbero state appropriate le parole di Montanelli) solo alla condizione che l’insegnamento della Chiesa sull’eutanasia fosse davvero confessionale e non piuttosto rivolto al bene umano in sé e per sé; solo cioè se fosse vero che con questa legge si vogliano imporre a tutti i cittadini, cristiani e non cristiani, precetti ecclesiastici fondati esclusivamente su dogmi o dichiarazioni del Magistero.
Questo però è falso. Sta diventando francamente insopportabile che molti laici (o, più correttamente, molti laicisti) continuino ad usare questo sofisma (la parola è grossa, ma non ne esistono altre appropriate). Che Veronesi, e chi la pensi come lui o come Montanelli, spieghino per favore sotto quali profili le considerazioni appena svolte (giuste o sbagliate che siano) possano essere ritenute esclusivamente cattoliche o confessionali.
«Avvenire» del 4 maggio 2011
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