di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
NOTE
1. Meriggiare: riposarsi all’ombra nelle ore più calde del pomeriggio.
2. pruni: arbusti spinosi, rovi (è termine dantesco).
3. schiocchi: i suoni secchi, prodotti dal canto dei merli.
4. veccia: pianta erbacea dai fiori rossi, usata come foraggio; i suoi semi servivano un tempo per la panificazione.
5. biche: propriamente i mucchi di covoni del grano o di altri cereali; qui indicano i mucchietti di terra sulla cui cima (a sommo, sulla sommità) vanno e vengono le formiche.
6. scaglie di mare: il balenare delle onde che si accavallano.
7. scricchi: rumori secchi, crepitanti, come quelli prodotti dal frinire delle cicale nel silenzio assoluto dell’ora (tremuli è un aggettivo tra i più usati da Pascoli).
8. calvi picchi: le alture brulle, prive di vegetazione.
9. travaglio: il termine, che racchiude semanticamente l’idea di pena e di fatica, indica il sofferto e laborioso divenire della vita.
10. seguitare: seguire, camminare a fianco.
11. cocci ... bottiglia: i cocci posti sul muro per impedire che possa essere scavalcato.
ANALISI DEL TESTO
È un momento di sospensione quasi assoluta, in cui la vita sembra essersi arrestata nelle proprie forme e parvenze, in un colloquio muto fra l’uomo e le cose. Il paesaggio è quello arido e scabro della prima raccolta montaliana, in cui è possibile cogliere echi dell’influsso di D’Annunzio (Mengaldo ha ad esempio individuato, ai vv. 9-10, l’arcaismo «frondi» e l’espressione «scaglie di mare», riconducendola a L’onda, in Alcyone). Non c’è tuttavia traccia, in questi versi, del panismo dannunziano, inteso come immedesimazione e quasi fusione del poeta in una mitica natura. Il quadro paesistico propone al contrario il motivo dell’aridità, dominante negli Ossi di seppia come emblema oggettivato di una condizione esistenziale desolata, prosciugata e svuotata di ogni slancio vitale (« rovente muro », «pruni» e «sterpi», «crepe del suolo», «calvi picchi», «sole che abbaglia»). Il paesaggio di Montale non si apre all’uomo (e per l’uomo); vive in se stesso, chiuso nella propria realtà incomunicabile. Esso non è uno scopo, il cui conseguimento possa appagare il poeta (come suprema conquista di un estetismo vitalistico), ma un tramite, senza sbocchi risolutori, verso l’"altro", verso un qualcosa che resta, alla fine, misterioso e inconoscibile, crudele nel suo rifiuto di dare risposte (si pensi alla «divina Indifferenza» di Spesso il male di vivere ho incontrato). È la dimensione metafisica che incombe sulle cose, insieme presente e assente, nella tangibile concretezza delle sue apparenze e nella remota lontananza delle sue ragioni, che lasciano nell’oscurità lo scopo dell’esistenza. Il «sole che abbaglia» (v. 13) è luce che non lascia vedere; di qui uno stupito e dolente ripiegarsi su se stessi («sentire con triste meraviglia»), nel tentativo di ascoltare e di comprendere il «travaglio» della «vita», che resta tuttavia misterioso e indecifrabile. I due versi conclusivi esprimono con straordinaria intensità (proprio per il loro andamento comune e dimesso, quasi prosastico) questa condizione: la «muraglia» (che riprende il «rovente muro d’orto» del v. 2), con i «cocci aguzzi di bottiglia» che la sovrastano, rappresenta la chiusura in questa prigione esistenziale, l’impossibilità di attingere ad una verità e pienezza che si collocano al di là dell’ostacolo, irraggiungibili. È evidente qui anche la tecnica con cui Montale costruisce il suo discorso poetico: esso è tutto affidato all’enumerazione di nudi oggetti, che costituiscono il correlativo oggettivo di una condizione metafisica. L’uso del verbo all’infinito, su cui si regge la struttura del componimento, accentua il senso di una continuità e di una durata uniformi, su cui si sovrappone un intenso gioco di allitterazioni, quasi per rendere, attraverso una mutevole sonorità verbale, il «palpitare» della natura e delle sue voci. Si veda la sequenza dei termini in rima della prima quartina («assorto» / «orto» / «sterpi» / «serpi»), che si ripercuote sull’intero componimento, nelle svariate combinazioni della liquida r con altre consonanti (ad esempio «presso», «tra i primi», «merli», «frusci», «crepi», «intrecciano», «frondi», «mentre», «tremuli», «triste», «travaglio»). L’animazione sonora di «scricchi» (preceduto da «tremuli», con esito sinestetico, al v. 11), anticipata dagli «schiocchi» del v. 4, conduce alla rima, attraverso l’allitterazione in c, con il v. 12: «di cicale dai calvi picchi». Particolarmente insistiti, infine, sono gli effetti combinati di rima e di consonanza dell’ultima strofa, nella serie «abbaglia» / «meraviglia» / «travaglio» / «muraglia» / «bottiglia». Le reminiscenze dannunziane si mescolano qui con la ripresa di termini usati da Pascoli, in un impasto linguistico che resta tuttavia originale, in una ricerca di parole e di rime «aspre» che si può far risalire alla grande lezione dantesca. La poesia può costituire un esempio di quelle «storte sillabe e secche come un ramo», a cui fa menzione la dichiarazione di poetica contenuta in Non chiederci la parola.
Postato il 14 maggio 2011
Nessun commento:
Posta un commento