fino ai vent'anni che l'ho conosciuto.
Allora ho visto ch'egli era un bambino,
e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d'una donna che l'ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
"Non somigliare - ammoniva - a tuo padre":
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.
Il terzo dei quindici sonetti di Autobiografia ha come protagonista il padre (incontrato per la prima volta a vent'anni), ma il suo significato complessivo è sintetizzato nel verso finale («Eran due razze in antica tenzone»), dove Saba ricorda il radicale contrasto, di cultura e temperamento, che divise i genitori ancor prima della sua nascita.
Commentando il ricorso a una forma metrica chiusa, Saba rivela come la scelta del sonetto gli sia servita proprio «a chiudere e isolare i diversi periodi della sua vita, cavando di ciascuno l'essenziale» (Storia e cronistoria del Canzoniere): la madre ebrea e il ghetto, il padre «assassino» e la zia «benefica», il primo amico, la vita militare e la guerra, Firenze e Bologna, ma soprattutto Trieste e Lina.
Prima di confluire nel secondo volume del Canzoniere, Autobiografia (scritta in realtà nel 1922) è uscita nel 1923 con la serie di sonetti I prigioni.
Analisi del testo
Il sonetto riassume il dramma che segnò l'infanzia di Saba: l'assenza del padre, conosciuto solo attraverso le recriminazioni materne («l'assassino»; «Non somigliare... a tuo padre»), poi incontrato e valutato per la prima volta in modo diverso solo a vent'anni (irresponsabile come un bambino); l'atmosfera pesante dell'ambiente familiare.
In primo piano campeggia la figura paterna, descritta nei tratti fisici e soprattutto psicologici: l'immaturità e la leggerezza (gaio e leggero...; come un pallone, vv. 9-11), il fascino ma anche l'incapacità di stabilire rapporti duraturi (più d'una donna l'ha amato e pasciuto, v. 8).
Al contrario, la madre, cui sono parzialmente dedicate le terzine, tutti sentiva della vita i pesi (v. 10). L'inversione sintattica ha una netta funzionalità semantica ed enfatizza la fatica del vivere che in Saba connota sempre la figura materna: la madre rappresenta quindi l'autorità, il dovere, la punizione, mentre il padre la trasgressione, la fuga, il principio del piacere.
Il poeta sente nelle proprie contraddittorietà interiori il persistere di due mentalità inconciliabili, che riconduce all'opposizione fra la cultura ebraica (della madre) e quella cattolica (del padre). Giunto alla maturità, anche con il supporto della terapia psicoanalitica, Saba ricomporrà il dissidio: «... i parenti m'han dato due vite, / e di fonderle in una io fui capace» (Preludio, vv. 14-15).
Con insolita severità, in Storia e cronistoria del Canzoniere il poeta ammette la «sgradevolezza» di molti versi di Autobiografia, riscattata però – aggiunge – dal «calore dell'ispirazione». Tale sgradevolezza sarebbe dovuta alla presenza di «licenze poetiche» e di «termini arcaici» dentro il consueto «linguaggio piano e famigliare». Esemplifichiamo: la preposizione articolata pel (v. 7); l'aulico e arcaico tenzone (v. 14). Si aggiungano le ardue inversioni sintattiche necessarie a piegare la rigida struttura del sonetto alla fondamentale narratività autobiografica: il dono ch'io ho da lui l'ho avuto (v. 4); Di mano ei gli sfuggì (v. 11) ecc. e il già citato iperbato con anastrofe del v. 10.
Un'interessante particolarità deriva dalla compagine metrica: è stato osservato (Pinchera) che questo sonetto è scandito per distici («coppie di versi modulati per chiave dattilica»), il che destruttura la compattezza del sonetto tradizionale.
Postato il 25 maggio 2011
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