False verità e manipolazioni. Bavagli e veline. Gerarchi e giornalisti in camicia nera intenti a esaltare l’idilliaca immagine di una dittatura nell’interesse del popolo
di Marco Roncalli
di Marco Roncalli
Documenti tratti dagli archivi della segreteria di Mussolini nel periodo della Repubblica Sociale Italiana. Una marea di direttive drastiche, lunghe un ventennio, a propagandare la coincidenza della causa del fascismo con quella dell’Italia. C’è questo nel volume di Romain H. Rainero. Per avere un’idea del dato generale, si ricorda subito ciò che disse il duce a Palazzo Chigi nel ’28 ai direttori dei quotidiani italiani: «In un regime totalitario la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime. Ecco perché tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime».
Se è vero che il tema della politica culturale fascista, della sua ricerca di consenso nei perversi rapporti con i media, è stato indagato, è anche vero che le ricerche hanno affrontato gli aspetti più appariscenti nella diffusione della dottrina del fascismo, mentre il capitolo degli 'ordini alla stampa' durante il governo della Rsi attendeva ulteriori scavi. Questo volume, sopperendo lacune, si concentra proprio su questa fase cruciale: dalla prima caduta di Mussolini alla Liberazione (25 luglio ’43 25 aprile ’45). Ovviamente non mancano riferimenti alla genesi del 'sistema' parallela all’ascesa di Mussolini. Ecco le immagini del duce in quotidiano colloquio, insieme a sottosegretario e ministro della cultura popolare, con il suo ufficiostampa, al quale chiede di diffondere comunicati da lui vistati o di dare disposizioni all’agenzia Stefani. Ecco un imperversare di veline e telefonate piene di ordini ai quali nessuno può disobbedire. Tutto regolato nei 37 punti della 'direttiva Polverelli' cui si attengono quotidiani e periodici, bollettini parrocchiali e agenzie. Un mondo mediatico che, a guerra iniziata, con il nuovo ministro del Minculpop è poi continuamente obbligato a «svalutare l’avversario, moralmente e politicamente, ma non militarmente». Obblighi puntellati con minacce o ricatti. Ma anche con denaro e contratti pubblicitari per giornalisti ed editori 'a libro paga'. Soluzioni antiche adottate anche, su consiglio di Giolitti, nella cosiddetta Italia liberale, poi quando Mussolini era in sella senza problemi. Anzi, di tale pratica, il duce si ricordò bene proprio nel periodo della Repubblica Sociale: denunciando i suoi beneficiati passati all’antifascismo, i 'voltacasacca' o 'canguri giganti' i cui nomi rese pubblici in un elenco mai smentito dagli interessati (riguardante solo l’ultimo anno finanziario del regime e dove spiccano firme famose, da Bellonci a Sem Benelli Sem, da Bontempelli a Longanesi, da Castellani a Pratolini).
Certo, rileggendo oggi tutte le disposizioni, capita anche di sorridere su quelle di Pavolini (maggio 1940) circa l’uso più corretto del termine 'germanico' invece che 'tedesco' (per evitare «certe reazioni di carattere sentimentale specialmente nel Nord Italia … reazioni contro i tedeschi e che quasi sempre sbagliano direzione perché si riferiscono agli austriaci...»).
Meno innocui gli ordini del ministro Mezzasoma (novembre 1943) a stabilire che nella Rsi col «termine di 'italiano', 'truppe italiane' … devono essere designati soltanto i seguaci di Mussolini», mentre ai badogliani si riservano parole «come 'mercenari', 'traditori', 'cricca'». E tuttavia, esaminando le fonti rimaste non possiamo banalizzare il prolungarsi della prassi della censura. Con le veline continuate sotto Badoglio nonostante le sostituzioni dei direttori, che s’infittiscono nella Repubblica Sociale nel periodo romano (metà settembre ’43 - primi di giugno ’44, quando Mussolini riassume la direzione del fascismo nominando Pavolini segretario provvisorio del Partito nazionale fascista diventato Partito repubblicano fascista) e nelle ultime stagioni del 'Minculpop'( 4 giugno ’44 -25 aprile ’45), parallelamente al periodo veneziano della Rsi.
Curiose infine certe operazioni di propaganda libraria durante la Repubblica Sociale testimoniate da Cristoforo Mercati .Tra i libri confezionati spicca Il Comunismo di Benedetto Croce, pezzi spigolati qua e là con copertina fac-simile Laterza. Lui che in quel periodo «a Sorrento faceva arte del governo e aveva collega Togliatti» certamente non gradì.
Se è vero che il tema della politica culturale fascista, della sua ricerca di consenso nei perversi rapporti con i media, è stato indagato, è anche vero che le ricerche hanno affrontato gli aspetti più appariscenti nella diffusione della dottrina del fascismo, mentre il capitolo degli 'ordini alla stampa' durante il governo della Rsi attendeva ulteriori scavi. Questo volume, sopperendo lacune, si concentra proprio su questa fase cruciale: dalla prima caduta di Mussolini alla Liberazione (25 luglio ’43 25 aprile ’45). Ovviamente non mancano riferimenti alla genesi del 'sistema' parallela all’ascesa di Mussolini. Ecco le immagini del duce in quotidiano colloquio, insieme a sottosegretario e ministro della cultura popolare, con il suo ufficiostampa, al quale chiede di diffondere comunicati da lui vistati o di dare disposizioni all’agenzia Stefani. Ecco un imperversare di veline e telefonate piene di ordini ai quali nessuno può disobbedire. Tutto regolato nei 37 punti della 'direttiva Polverelli' cui si attengono quotidiani e periodici, bollettini parrocchiali e agenzie. Un mondo mediatico che, a guerra iniziata, con il nuovo ministro del Minculpop è poi continuamente obbligato a «svalutare l’avversario, moralmente e politicamente, ma non militarmente». Obblighi puntellati con minacce o ricatti. Ma anche con denaro e contratti pubblicitari per giornalisti ed editori 'a libro paga'. Soluzioni antiche adottate anche, su consiglio di Giolitti, nella cosiddetta Italia liberale, poi quando Mussolini era in sella senza problemi. Anzi, di tale pratica, il duce si ricordò bene proprio nel periodo della Repubblica Sociale: denunciando i suoi beneficiati passati all’antifascismo, i 'voltacasacca' o 'canguri giganti' i cui nomi rese pubblici in un elenco mai smentito dagli interessati (riguardante solo l’ultimo anno finanziario del regime e dove spiccano firme famose, da Bellonci a Sem Benelli Sem, da Bontempelli a Longanesi, da Castellani a Pratolini).
Certo, rileggendo oggi tutte le disposizioni, capita anche di sorridere su quelle di Pavolini (maggio 1940) circa l’uso più corretto del termine 'germanico' invece che 'tedesco' (per evitare «certe reazioni di carattere sentimentale specialmente nel Nord Italia … reazioni contro i tedeschi e che quasi sempre sbagliano direzione perché si riferiscono agli austriaci...»).
Meno innocui gli ordini del ministro Mezzasoma (novembre 1943) a stabilire che nella Rsi col «termine di 'italiano', 'truppe italiane' … devono essere designati soltanto i seguaci di Mussolini», mentre ai badogliani si riservano parole «come 'mercenari', 'traditori', 'cricca'». E tuttavia, esaminando le fonti rimaste non possiamo banalizzare il prolungarsi della prassi della censura. Con le veline continuate sotto Badoglio nonostante le sostituzioni dei direttori, che s’infittiscono nella Repubblica Sociale nel periodo romano (metà settembre ’43 - primi di giugno ’44, quando Mussolini riassume la direzione del fascismo nominando Pavolini segretario provvisorio del Partito nazionale fascista diventato Partito repubblicano fascista) e nelle ultime stagioni del 'Minculpop'( 4 giugno ’44 -25 aprile ’45), parallelamente al periodo veneziano della Rsi.
Curiose infine certe operazioni di propaganda libraria durante la Repubblica Sociale testimoniate da Cristoforo Mercati .Tra i libri confezionati spicca Il Comunismo di Benedetto Croce, pezzi spigolati qua e là con copertina fac-simile Laterza. Lui che in quel periodo «a Sorrento faceva arte del governo e aveva collega Togliatti» certamente non gradì.
Romain H. Rainero, PROPAGANDA E ORDINI ALLA STAMPA. Da Badoglio alla Repubblica sociale italiana, Franco Angeli. Pagine 320. Euro 22,00
«Avvenire» del 6 gennaio 2008
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