di Paolo Senna
Nel 1968 Eugenio Montale partecipò in qualità di Presidente al convegno sui Valori permanenti nel divenire storico con uno scritto introduttivo di profonda ricchezza meditativa. Di questo testo – che non figura nelle raccolte montaliane – abbiamo addirittura l’autografo, riprodotto fotostaticamente nel medesimo anno su 'Persona', periodico di ispirazione cattolica diretto da Adriano Grande e Marcello Camilucci. Ora la 'Rivista di Letteratura italiana' (n. 2, 2007) in distribuzione in questi giorni lo ripresenta ai lettori.
Montale andava offrendo in quegli anni il 'verso' della sua lirica: una lirica rastremata e all’apparenza distaccata dall’impegno sociale e politico che in quegli anni si richiedeva con insistenza alla letteratura. Eppure, in quelle poesie, così come nelle sue prose, si possono ritrovare i segni di un mai sopito interrogarsi sull’uomo e sul significato della vita, di cui anche questo testo porta compiutamente il segno. «Esistono valori permanenti nell’uomo, di questo non saprei dubitare […]. Ma è certo (quasi certo) che l’uomo è il solo animale che ponga un punto interrogativo su di sé e sul proprio significato. L’uomo è il solo animale che viva poco o punto naturalmente; il solo che sa di dover morire e che contesta questo suo duro privilegio».
L’attenzione di Montale è tesa a indagare quella «visione della vita […] naturalmente antropomorfica» cui l’uomo pare soggiacere anche nel suo sforzo di 'pensare l’Essere': il poeta è perciò scettico sul fatto che gli strumenti umani riescano in qualche modo a dare non solo vera prova dell’Essere, ma anche ad attestare l’effettiva vita dell’uomo; e forse proprio all’occasione di questo convegno va fatto risalire un gruppo di liriche tra le quali quella intitolata proprio «Al Congresso»: «Se l’uomo è l’inventore della vita / (senza di lui chi se ne accorgerebbe) / non ha l’uomo il diritto di distruggerla? // Tale al Congresso il detto dell’egregio / preopinante che mai mosse un dito / per uscire dal gregge». La soluzione che, con una punta di ironia, sembra indicare Montale è «l’uomo semplice, l’uomo che sa tutto perché si limita a pensare il verosimile e il vero: l’uomo semplice insomma, il vero sapiente». Lontano dalle controversie e dalle risposte preconfezionate degli intellettuali e dei dialettici, la figura del 'semplice' affiora dal pozzo della vita, come quel tale Carubba, lo storpio che in «Corso Dogali» spingeva l’organino a manovella, e la cui esistenza sembra raggiungere «la perfezione: quella che se dico / Carubba è il cielo che non ho mai toccato».
Montale andava offrendo in quegli anni il 'verso' della sua lirica: una lirica rastremata e all’apparenza distaccata dall’impegno sociale e politico che in quegli anni si richiedeva con insistenza alla letteratura. Eppure, in quelle poesie, così come nelle sue prose, si possono ritrovare i segni di un mai sopito interrogarsi sull’uomo e sul significato della vita, di cui anche questo testo porta compiutamente il segno. «Esistono valori permanenti nell’uomo, di questo non saprei dubitare […]. Ma è certo (quasi certo) che l’uomo è il solo animale che ponga un punto interrogativo su di sé e sul proprio significato. L’uomo è il solo animale che viva poco o punto naturalmente; il solo che sa di dover morire e che contesta questo suo duro privilegio».
L’attenzione di Montale è tesa a indagare quella «visione della vita […] naturalmente antropomorfica» cui l’uomo pare soggiacere anche nel suo sforzo di 'pensare l’Essere': il poeta è perciò scettico sul fatto che gli strumenti umani riescano in qualche modo a dare non solo vera prova dell’Essere, ma anche ad attestare l’effettiva vita dell’uomo; e forse proprio all’occasione di questo convegno va fatto risalire un gruppo di liriche tra le quali quella intitolata proprio «Al Congresso»: «Se l’uomo è l’inventore della vita / (senza di lui chi se ne accorgerebbe) / non ha l’uomo il diritto di distruggerla? // Tale al Congresso il detto dell’egregio / preopinante che mai mosse un dito / per uscire dal gregge». La soluzione che, con una punta di ironia, sembra indicare Montale è «l’uomo semplice, l’uomo che sa tutto perché si limita a pensare il verosimile e il vero: l’uomo semplice insomma, il vero sapiente». Lontano dalle controversie e dalle risposte preconfezionate degli intellettuali e dei dialettici, la figura del 'semplice' affiora dal pozzo della vita, come quel tale Carubba, lo storpio che in «Corso Dogali» spingeva l’organino a manovella, e la cui esistenza sembra raggiungere «la perfezione: quella che se dico / Carubba è il cielo che non ho mai toccato».
«Avvenire» del 4 gennaio 2008
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