di Maurizio Caverzan
Televisione: cattiva maestra o buona maestra? Al di là degli interrogativi un po’ generici sulla natura intrinseca dell’elettrodomestico più invasivo della nostra epoca su cui si sono esercitati schiere di studiosi - Volevo solo dirti che è lei che guarda te, Paolo Landi, Bompiani e Tutto quello che fa male ti fa bene, Steven Johnson, Mondadori, tanto per citare due uscite del 2007 agli antipodi tra loro - forse conviene semplicemente chiedersi se la televisione che guardiamo ogni giorno ci arricchisce o ci impoverisce, ci stimola o ci assopisce. Secondo la tesi prevalente è lei, «la televisiun» che, per dirla con Jannacci, «la g’ha na forsa da leun», a determinare i nostri comportamenti influenzando il nostro sistema di valori. Salvo poi, una volta modificato il costume, ri-assorbire dalla vita quotidiana modelli, idee, provocazioni da rimescolare e restituire nuovamente rafforzati. Per usare un esempio fresco fresco, il Grande Fratello cominciato ieri sera ha tra i suoi concorrenti una famiglia siciliana di cinque persone e un transessuale. Che cos’è questa operazione se non il tentativo di riflettere e vampirizzare il dibattito che attraversa la società civile nel campo della morale e della sessualità per averne un vantaggio in termini di ascolti e di visibilità sui giornali? Non facciamoci illusioni: sempre di più sono i cervelloni del marketing a suggerire tracce e contenuti dei programmi. È vero: esistono tante televisioni, tanti canali tematici con i quali ognuno si fa il palinsesto da sé, e non una sola televisione. Ma quella che parla a tutti, il media universale che rappresenta il battito cardiaco del Paese, è la televisione generalista. E per la televisione generalista l’imperativo è catalizzare il maggior numero di spettatori. Perciò si devono rappresentare propensioni e gusti maggioritari. Il resto è minoranza, nicchia, élite.
Se provassimo, come in una sorta di ricerca di mercato, a fare la spesa nel supermarket della televisione italiana fatta di reality, di quiz e di giochini, di varietà e di talk show pomeridiani, torneremmo a casa con la sporta piena di prodotti ben precisi. L’infotainment, il genere prevalente in questi anni in tv che mescola informazione e intrattenimento, news e gossip, ha finito per creare un impasto che somiglia al chewingum della modernità. Tanto per elencare, in ordine sparso, la nostra borsa della spesa sarebbe carica di bellezza, successo, moda, look, esibizione, velocità, protagonismo, individualismo, ambizione. Mentre rimarrebbe drammaticamente povera di riflessione, riservatezza, ascolto, solidarietà, lentezza. Negli ultimi anni l’omologazione culturale di pasoliniana memoria si è data un alone di sofisticazione passando per palestre e beauty farm, per centri estetici e atelier della moda. E tutti noi finiamo per somigliarci, per convergere - «centrifugati» - sotto l’ombrello del conformismo dominante.
Grazie a Dio ci sono le eccezioni, delle finestre d’aria che rompono l’embargo del modello unico prevalente. Lasciando stare l’informazione e i programmi di approfondimento, qualcuno fa notare il tramonto dei reality show a vantaggio delle formule narrative come la fiction e, soprattutto, i telefilm americani. Il successo di una serie come Dr. House, per esempio, va registrato come un piccolo fenomeno controcorrente e, dunque, a suo modo significativo. Alla qualità dei dialoghi, abituale punto di forza di quasi tutte le serie hollywoodiane, il telefilm con Hugh Laurie aggiunge elementi di anticonformismo, genialità, originalità, misantropia: tutti «valori» oggi minoritari. Anche nel campo dell’informazione leggera, la formula dell’intervista (Che tempo che fa, Le Invasioni barbariche, Il senso della vita) offre spesso una boccata d’ossigeno al telespettatore in fuga dal modello unico.
Tuttavia, sarebbe un errore farsi troppe illusioni. Il corpaccione della nostra tv, ahimè, è quell’altro, quello con i palinsesti intrisi di diete, griffe e amori vip. Ma alla fine, tra la provocatoria proposta di moratoria per la tv (spegnerla? non vederla?) e l’eccessivo ottimismo di credere che tutto quello che fa male invece finirà per giovarci, l’unica arma di difesa è il solito vecchio spirito critico.
Se provassimo, come in una sorta di ricerca di mercato, a fare la spesa nel supermarket della televisione italiana fatta di reality, di quiz e di giochini, di varietà e di talk show pomeridiani, torneremmo a casa con la sporta piena di prodotti ben precisi. L’infotainment, il genere prevalente in questi anni in tv che mescola informazione e intrattenimento, news e gossip, ha finito per creare un impasto che somiglia al chewingum della modernità. Tanto per elencare, in ordine sparso, la nostra borsa della spesa sarebbe carica di bellezza, successo, moda, look, esibizione, velocità, protagonismo, individualismo, ambizione. Mentre rimarrebbe drammaticamente povera di riflessione, riservatezza, ascolto, solidarietà, lentezza. Negli ultimi anni l’omologazione culturale di pasoliniana memoria si è data un alone di sofisticazione passando per palestre e beauty farm, per centri estetici e atelier della moda. E tutti noi finiamo per somigliarci, per convergere - «centrifugati» - sotto l’ombrello del conformismo dominante.
Grazie a Dio ci sono le eccezioni, delle finestre d’aria che rompono l’embargo del modello unico prevalente. Lasciando stare l’informazione e i programmi di approfondimento, qualcuno fa notare il tramonto dei reality show a vantaggio delle formule narrative come la fiction e, soprattutto, i telefilm americani. Il successo di una serie come Dr. House, per esempio, va registrato come un piccolo fenomeno controcorrente e, dunque, a suo modo significativo. Alla qualità dei dialoghi, abituale punto di forza di quasi tutte le serie hollywoodiane, il telefilm con Hugh Laurie aggiunge elementi di anticonformismo, genialità, originalità, misantropia: tutti «valori» oggi minoritari. Anche nel campo dell’informazione leggera, la formula dell’intervista (Che tempo che fa, Le Invasioni barbariche, Il senso della vita) offre spesso una boccata d’ossigeno al telespettatore in fuga dal modello unico.
Tuttavia, sarebbe un errore farsi troppe illusioni. Il corpaccione della nostra tv, ahimè, è quell’altro, quello con i palinsesti intrisi di diete, griffe e amori vip. Ma alla fine, tra la provocatoria proposta di moratoria per la tv (spegnerla? non vederla?) e l’eccessivo ottimismo di credere che tutto quello che fa male invece finirà per giovarci, l’unica arma di difesa è il solito vecchio spirito critico.
«Il Giornale» del 22 gennaio 2008
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«I nostri programmi sono una centrifuga che ci appiattisce»
di Paolo Bracalini
Un grande «centrifugato» in cui realtà e tv, starlette e aspiranti tali, modelli e cloni si sovrappongono perfettamente in un gioco di rimandi infallibile che determina cosa esiste e cosa no. È quella che Edmondo Berselli chiama «realtà tivuizzata» in un intervento sull’Espresso in cui l’editorialista di Repubblica propone, come via di fuga da questa melassa alienante, una moratoria, una resistenza culturale che potrebbe partire proprio da una tv più «aperta». Berselli, autore del recente Adulti con riserva - Com’era allegra l’Italia prima del ’68 (Mondadori, pagg. 180, euro 16.50), conduce oltre a firmarlo come autore, Su al Sud su Raidue, un programma che racconta l’Italia facendo ampio uso di materiali dell’archivio televisivo.
Berselli, ma quando siamo caduti dentro questa realtà tivuizzata?
«La realtà tivuizzata esplode con il dilatarsi dell’offerta televisiva a partire dagli Anni ottanta. L’effetto sulla società italiana è fortissimo. Cambia tutto e la tv ha un ruolo formidabile perché da un lato intercetta il cambiamento e dall’altro lo riflette di nuovo sulla società stessa, con la creazione di un’estetica televisiva che rafforza i comportamenti visti in tv. Per stare dentro la tv ci sono dei codici da rispettare, e questi a poco a poco diventano di uso comune».
Ma non è un effetto inevitabile della tv come mezzo di massa?
«Il punto è che nella tv del passato c’era un solo canale, poi solo due. Adesso nei game show della sera i concorrenti sono più simili ai personaggi della tv che alle persone della strada. Non essendoci più la necessità di saper fare qualcosa, allora tanto vale prendere ragazze belle, ragazzi palestrati. Un quiz ormai assomiglia più ad Amici di Maria de Filippi che a Rischiatutto. Questa è la realtà tivuizzata».
La moratoria come la intende, tenere la tv più spenta?
«Non lo so, io la tv la tengo già spenta abbastanza. Non si può pretendere di migliorare la società, ma magari migliorare la tv può essere un programma non dico politico ma almeno culturale per l’Italia».
Quindi questa liberazione può partire dalla tv stessa, dal suo interno?
«Oggi la tv presenta dei modelli comportamentali secondo cui chiunque può far tutto purché sia presentabile in tv dal punto di vista estetico. Non c’è nessuna dichiarazione di intenti sulle professionalità. Se si vede la tv di fine Anni cinquanta inizio sessanta si trova una qualità tecnica e professionale enorme. Questo mi induce a pensare che oggi il riscatto della tv non passi attraverso il servizio pubblico o le trasmissioni culturali, ma da un inserimento di capacità e professionalità anche nei programmi di intrattenimento normali».
Per questo nel suo «manifesto» per una nuova tv lei non usa mai il termine «spazzatura»?
«Perché si può far bene anche la tv spazzatura. La tv buona non è quella intelligente, ma quella di qualità. Il problema principale oggi è scomporre la rigidità dell’offerta tv, che crea un universo concentrazionario di intrattenimento e pubblicità in cui tutto è uguale».
Ma non è invece che i telespettatori vogliono proprio questa tv?
«No, non credo. È molto cambiato il modo di guardare la tv. I programmi vengono “agganciati” per poco e poi si passa ad altro. Quindi, se la tv non si decostruisce è il telespettatore che la smonta per pezzi. La tv generalista è particolarmente arretrata, nel senso che è fatta in modo tale da essere rigida. Se la tv non è flessibile, è uno strumento superato. Noi tutti viviamo in una realtà in cui l’informazione, la musica, l’intrattenimento sono un flusso continuo. Ci siamo abituati alla sorpresa, c’è bisogno di non sapere cosa c’è dopo. Se questo è vero, allora la tv è una specie di totem immutabile».
Ma una tv flessibile, scomponibile, non produrrebbe altri modelli tivuizzanti?
«Ne produrrebbe molti di più forse rispetto a quelli attuali. La società italiana ha fatto tutto il possibile per adeguarsi a pochi modelli, mettendosi quei vestiti, facendosi quelle abbronzature, adeguandosi al calciatore e alla velina, alla pupa e al secchione, quando in realtà ne rimangono fuori molti altri. Sono sempre fiducioso nella creatività della società. I modelli che non trovano spazio in questa tv potrebbero trovarlo se ci fosse un’offerta più diversificata».
Non sarebbe un «centrifugato» di post modernità anche quello?
«Ecco, che il centrifugato diventi centrifugato davvero, non perché mette insieme i modelli e ne fa venire fuori uno solo, ma perché scompone tutto e ognuno si prende quello che vuole. Dobbiamo essere noi a usare la tv e non la tv a usare noi».
«Il Giornale» del 22 gennaio 2008
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