La Ue ha varato l'accordo sui contenuti di quelli che sono sempre meno giocattoli e sempre più narrazioni: d'ora in poi verrà indicata un'età minima
di Giuseppe Romano
Nel mondo dei videogiochi è appena successo qualcosa d'importante: un accordoquadro europeo affinché da ora in poi chi ne compra uno non debba più aspettarsi sgradite sorprese nei contenuti al momento di utilizzarlo. Anche i lettori distratti ricordano le feroci polemiche che periodicamente affollano i giornali riguardo videogame violenti, disgustosi, offensivi, inadatti ai bambini. Si è diffusa l'impressione che spesso i giochi per computer siano volgari e inguardabili, e qualcuno comincia a chiedersi se per caso sia in atto una vera e propria strategia di 'invasione culturale', che attraverso prodotti definiti 'per ragazzi' diffonde contenuti che farebbero impallidire anche un adulto. Non è così. Non del tutto. Per fare chiarezza, però, è bene distinguere piani diversi.
Secondo chi scrive ce ne sono almeno quattro: il piano creativo, quello produttivo, quello educativo, quello commerciale. Cominciamo dal piano creativo perché quando si parla di 'videogiochi' non si può dimenticare che si tratta di un piccolo settore entro un'enorme rivoluzione. L'era digitale ci ha cambiati. Dalle carte di credito al Telepass, dal navigatore satellitare al robot di cucina, le innovazioni si affollano con un influsso pratico, nelle nostre vite, non inferiore a quello che a suo tempo ebbero la luce elettrica, il frigorifero e l'aeroplano.
Dentro l'intenso flusso di parole, immagini, numeri che imbozzola il mondo, le 'storie interattive' - il termine 'videogioco' è limitante - sono l'avanguardia di un nuovo stile espressivo, che utilizza una tecnologia specifica, quella digitale, per raggiungere lo stesso scopo importante che altri canali di espressione e d'arte - la letteratura, il cinema, ecc. - perseguono con mezzi diversi. A partire dagli anni Ottanta si sono diffuse 'storie interattive' di ogni tipo, sempre più sofisticate. Coinvolgendo persone di tutte le età (allora e oggi) e suscitando passioni che vanno oltre l'entusiasmo sia in chi le inventava sia in chi ne fruiva. Produrre videogiochi costa molto e rende ancora di più. Per dare un'idea, il giro complessivo dell'industria ha finito col superare quello del cinema, con un fatturato mondiale attorno ai ventun miliardi di euro. Un mercato in netta espansione, che contende il primato assoluto a quello della musica. E non per caso stiamo utilizzando parolechiave come industria, mercato, fatturato: elementi che hanno profondamente trasformato il panorama, spostando l'interesse primario dal piano creativo al piano commerciale. L'artigianato è un ricordo. La competizione tra le
console di ultima generazione, la sorprendente Wii di Nintendo, la massiccia Xbox di Microsoft e la consolidata (ma un po' appannata) Playstation di Sony, nel 2007 tocca livelli da capogiro. Nel 2006, da gennaio a dicembre, le famiglie italiane ci avevano speso 740 milioni di euro (una famiglia su tre possiede una console), e c'è da scommettere che alla fine di quest'anno la cifra sarà più alta. Ragioni di sano pragmatismo, se non altre, fanno intuire che l'interesse dei produttori dovrebbe coincidere con quello dei consumatori: acquistare una console implica decidere che da quel momento in poi si compreranno giochi in quel formato e non in altri.
Non è interesse di chi produce giochi ingannare chi deve comprarli. E allora com'è possibile che accadano 'infortuni' inaccettabili?
Che genitori sconvolti scoprano i figli alle prese con scene ripugnanti (ma coinvolgenti)? La risposta chiama in causa gli altri due tasselli del puzzle. Sarebbe banale addossare tutte le colpe ai commercianti: ma, d'altra parte, se papà e mamma sotto le feste entrano in un negozio e chiedono qual è il videogame che va per la maggiore, non è detto che trovino una consulenza pedagogicamente azzeccata. Tuttavia, se è vero che un commerciante può legittimamente essere animato dal desiderio di 'piazzare' un prodotto, i genitori dovrebbero a loro volta riflettere sul fatto che forse non si fiderebbero ciecamente al momento di regalare al figlio un libro o un film: dunque, in parte la 'colpa' è anche loro. Esaltata dalla constatazione che mai come in questo momento la gerarchia educativa è apparsa compromessa: non è più vero, non sempre, che gli adulti 'ne sanno di più' dei giovani. Anzi, è acclarato che la perizia e la competenza di un bambino decenne al computer possono essere assai superiori a quelle dei genitori che dovrebbero consigliarlo. Per tutte queste ragioni la recente istituzione della normativa definita 'Pegi' (Pan European Games Information) è significativa.
Essa è tesa anzitutto a mettere i produttori di videogiochi al riparo dalle critiche. E per questa via dovrebbe garantire gli acquirenti rispetto alla qualità e alle caratteristiche di ciò che comprano, più di quanto non lo siano mai state le classificazioni adottate finora. La classificazione Pegi - che viene illustrata sui siti www.pegi.info/it e www.pegionline.eu/it, dove si trova anche una guida per individuare giochi con le caratteristiche desiderate - suddivide i videogame per fasce di età (cinque: dai tre anni in su, dai sei, dai dodici, dai sedici e dai diciotto) e per tipologie di contenuti, raffigurate tramite immagini (linguaggio scurrile, discriminazione, droghe, paura, gioco d'azzardo, sesso, violenza). Sono i medesimi produttori a proporre la classificazione, inviando informazioni e dettagli a un organismo centralizzato di valutazione con potere d'interdizione, di divieto, di sanzione. La proposta viene analizzata e approvata, o modificata. In questo modo l'acquirente dovrebbe avere una certa garanzia di non incontrare sorprese: anche perché, in caso di denunce di cui sia accertata la ragione, i provvedimenti possono arrivare all'obbligo di ritirare il videogioco dal commercio.
Tutti i principali editori di videogame hanno aderito, in parecchie nazioni Ue (solo la Germania è rimasta fuori perché le sue leggi già obbligano i produttori a particolari classificazioni), tra cui l'Italia dove se n'è fatta promotrice Aesvi, associazione nazionale di categoria, che ha agito in sintonia col governo.
Tutto a posto da ora in poi? Almeno, c'è qualche chiarezza in più. Purché i genitori ricordino che nessuno conosce i loro figli meglio di loro.
Secondo chi scrive ce ne sono almeno quattro: il piano creativo, quello produttivo, quello educativo, quello commerciale. Cominciamo dal piano creativo perché quando si parla di 'videogiochi' non si può dimenticare che si tratta di un piccolo settore entro un'enorme rivoluzione. L'era digitale ci ha cambiati. Dalle carte di credito al Telepass, dal navigatore satellitare al robot di cucina, le innovazioni si affollano con un influsso pratico, nelle nostre vite, non inferiore a quello che a suo tempo ebbero la luce elettrica, il frigorifero e l'aeroplano.
Dentro l'intenso flusso di parole, immagini, numeri che imbozzola il mondo, le 'storie interattive' - il termine 'videogioco' è limitante - sono l'avanguardia di un nuovo stile espressivo, che utilizza una tecnologia specifica, quella digitale, per raggiungere lo stesso scopo importante che altri canali di espressione e d'arte - la letteratura, il cinema, ecc. - perseguono con mezzi diversi. A partire dagli anni Ottanta si sono diffuse 'storie interattive' di ogni tipo, sempre più sofisticate. Coinvolgendo persone di tutte le età (allora e oggi) e suscitando passioni che vanno oltre l'entusiasmo sia in chi le inventava sia in chi ne fruiva. Produrre videogiochi costa molto e rende ancora di più. Per dare un'idea, il giro complessivo dell'industria ha finito col superare quello del cinema, con un fatturato mondiale attorno ai ventun miliardi di euro. Un mercato in netta espansione, che contende il primato assoluto a quello della musica. E non per caso stiamo utilizzando parolechiave come industria, mercato, fatturato: elementi che hanno profondamente trasformato il panorama, spostando l'interesse primario dal piano creativo al piano commerciale. L'artigianato è un ricordo. La competizione tra le
console di ultima generazione, la sorprendente Wii di Nintendo, la massiccia Xbox di Microsoft e la consolidata (ma un po' appannata) Playstation di Sony, nel 2007 tocca livelli da capogiro. Nel 2006, da gennaio a dicembre, le famiglie italiane ci avevano speso 740 milioni di euro (una famiglia su tre possiede una console), e c'è da scommettere che alla fine di quest'anno la cifra sarà più alta. Ragioni di sano pragmatismo, se non altre, fanno intuire che l'interesse dei produttori dovrebbe coincidere con quello dei consumatori: acquistare una console implica decidere che da quel momento in poi si compreranno giochi in quel formato e non in altri.
Non è interesse di chi produce giochi ingannare chi deve comprarli. E allora com'è possibile che accadano 'infortuni' inaccettabili?
Che genitori sconvolti scoprano i figli alle prese con scene ripugnanti (ma coinvolgenti)? La risposta chiama in causa gli altri due tasselli del puzzle. Sarebbe banale addossare tutte le colpe ai commercianti: ma, d'altra parte, se papà e mamma sotto le feste entrano in un negozio e chiedono qual è il videogame che va per la maggiore, non è detto che trovino una consulenza pedagogicamente azzeccata. Tuttavia, se è vero che un commerciante può legittimamente essere animato dal desiderio di 'piazzare' un prodotto, i genitori dovrebbero a loro volta riflettere sul fatto che forse non si fiderebbero ciecamente al momento di regalare al figlio un libro o un film: dunque, in parte la 'colpa' è anche loro. Esaltata dalla constatazione che mai come in questo momento la gerarchia educativa è apparsa compromessa: non è più vero, non sempre, che gli adulti 'ne sanno di più' dei giovani. Anzi, è acclarato che la perizia e la competenza di un bambino decenne al computer possono essere assai superiori a quelle dei genitori che dovrebbero consigliarlo. Per tutte queste ragioni la recente istituzione della normativa definita 'Pegi' (Pan European Games Information) è significativa.
Essa è tesa anzitutto a mettere i produttori di videogiochi al riparo dalle critiche. E per questa via dovrebbe garantire gli acquirenti rispetto alla qualità e alle caratteristiche di ciò che comprano, più di quanto non lo siano mai state le classificazioni adottate finora. La classificazione Pegi - che viene illustrata sui siti www.pegi.info/it e www.pegionline.eu/it, dove si trova anche una guida per individuare giochi con le caratteristiche desiderate - suddivide i videogame per fasce di età (cinque: dai tre anni in su, dai sei, dai dodici, dai sedici e dai diciotto) e per tipologie di contenuti, raffigurate tramite immagini (linguaggio scurrile, discriminazione, droghe, paura, gioco d'azzardo, sesso, violenza). Sono i medesimi produttori a proporre la classificazione, inviando informazioni e dettagli a un organismo centralizzato di valutazione con potere d'interdizione, di divieto, di sanzione. La proposta viene analizzata e approvata, o modificata. In questo modo l'acquirente dovrebbe avere una certa garanzia di non incontrare sorprese: anche perché, in caso di denunce di cui sia accertata la ragione, i provvedimenti possono arrivare all'obbligo di ritirare il videogioco dal commercio.
Tutti i principali editori di videogame hanno aderito, in parecchie nazioni Ue (solo la Germania è rimasta fuori perché le sue leggi già obbligano i produttori a particolari classificazioni), tra cui l'Italia dove se n'è fatta promotrice Aesvi, associazione nazionale di categoria, che ha agito in sintonia col governo.
Tutto a posto da ora in poi? Almeno, c'è qualche chiarezza in più. Purché i genitori ricordino che nessuno conosce i loro figli meglio di loro.
«Avvenire» dell’8 gennaio 2008
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