di Carlo Cardia
In un pacato e argomentato articolo di Giancarlo Bosetti su «Repubblica» sul tema della laicità si fanno delle affermazioni assai utili per un dibattito che si disincagli dalle secche della facile polemica e faziosità. Si dice, in primo luogo, che la laicità è il terreno comune nel quale tutte le posizioni in materia di religione devono essere rispettate, e riflette «la disponibilità a condividere un terreno comune di valori condivisi necessari per convivere». Altra cosa è l’ateismo, quando assume la forma di una metafisica asseverativa, o quando pretende che la inesistenza di Dio sia sostenuta dalle risultanze della scienza. E’ poi molto positivo l’accenno al fatto che la realtà multiculturale, nella quale ormai siamo immersi, presenta un caleidoscopio ricco di fedi ed orientamenti religiosi, che esaltano il valore della laicità. Anche se si aggiunge che in Europa i musulmani sono diventati venti milioni (mentre) i cattolici praticanti sono una minoranza sovrastimata». In realtà il confronto dovrebbe farsi con parametri omogenei: musulmani praticanti (che sono il 6-7 % di venti milioni) e cattolici praticanti. Ovvero, meglio ancora, tenendo conto che l’appartenenza religiosa oggi non si esprime soltanto nella pratica religiosa costante. Infine, l’articolo coglie nel segno quando ricorda che il principio dell’eguale rispetto comporta che le religioni non vengano equiparate a oroscopi o altri intrattenimenti. Con ciò riferendosi probabilmente a quella pubblicistica che, in Italia e altrove, ha ripreso una polemica antireligiosa fondata sull’irrisione o su grottesche forzature. Bisogna dire che un confronto basato su questi presupposti può essere fecondo, di alto livello culturale, come c’è stato in tante fasi della modernità, e come si è sviluppato in Italia portando a risultati storici, primo fra tutti la Costituzione democratica.
Rimanendo, quindi, in questo orizzonte di dibattito rispettoso, si possono fare delle obiezioni ad altre affermazioni. Ad esempio quando si parla delle vaste preferenze di cui beneficia in Italia la Chiesa cattolica, e si auspica l’estensione delle pratiche concordatarie in modo bilanciato ad altre confessioni.
Bisognerebbe considerare che le vere preferenze di cui beneficia la Chiesa cattolica in Italia sono quelle che derivano dal consenso popolare.
Questo è un punto su cui si discute poco, che meriterebbe seri approfondimenti, anche perché è uno degli elementi distintivi del nostro paese. Inoltre, già oggi lo Stato (con le Intese) estende a diverse confessioni molti sostanziali diritti che il Concordato riconosce alla Chiesa cattolica, ed è pronto ad estenderle presto ad altri culti. L’altro punto di discussione emerge quando si afferma che «se i cattolici diventeranno un fattore di divisione e disordine, uno Stato giusto sarà inevitabilmente più severo, esigente, ed esattore, con le loro organizzazioni». Questo è un tasto molto delicato. Cosa vuol dire che i cattolici possono diventare fattore di divisione? Non sono stati sino ad oggi una delle grandi forze stabilizzatrici e di progresso del Paese? O forse divengono fattori di divisione quando sostengono determinati valori? Se così fosse si tornerebbe indietro, ad una visione giacobina di volte in volta prevalsa laddove si è affermato uno Stato ostile alla religione: lo Stato concede di più ad una Chiesa se è più remissiva, ma diventa severo, esigente ed esattore, se la Chiesa è più autonoma. Ma il nostro deve essere uno Stato giusto ed imparziale con tutti. Questo, probabilmente, è il punto che deve ancora maturare nell’attuale dibattito culturale e politico. Nel gioco della democrazia lo Stato deve farsi sempre guidare dal principio di imparzialità lasciando liberi i cittadini e i soggetti sociali di far sentire la loro voce e le loro opinioni per concorrere (senza per ciò temere ripercussioni negative) alla formazione della volontà generale; la quale poi non è mai data una volta per tutte, ma può modificarsi secondo i mutamenti che si manifestano nel corpo sociale.
Resta, in ogni caso, un dato non trascurabile. La discussione può andare molto più avanti proprio se recupera quella pacatezza, e quella serietà, di impostazione che caratterizza l’intervento cui ci siamo riferiti.
Rimanendo, quindi, in questo orizzonte di dibattito rispettoso, si possono fare delle obiezioni ad altre affermazioni. Ad esempio quando si parla delle vaste preferenze di cui beneficia in Italia la Chiesa cattolica, e si auspica l’estensione delle pratiche concordatarie in modo bilanciato ad altre confessioni.
Bisognerebbe considerare che le vere preferenze di cui beneficia la Chiesa cattolica in Italia sono quelle che derivano dal consenso popolare.
Questo è un punto su cui si discute poco, che meriterebbe seri approfondimenti, anche perché è uno degli elementi distintivi del nostro paese. Inoltre, già oggi lo Stato (con le Intese) estende a diverse confessioni molti sostanziali diritti che il Concordato riconosce alla Chiesa cattolica, ed è pronto ad estenderle presto ad altri culti. L’altro punto di discussione emerge quando si afferma che «se i cattolici diventeranno un fattore di divisione e disordine, uno Stato giusto sarà inevitabilmente più severo, esigente, ed esattore, con le loro organizzazioni». Questo è un tasto molto delicato. Cosa vuol dire che i cattolici possono diventare fattore di divisione? Non sono stati sino ad oggi una delle grandi forze stabilizzatrici e di progresso del Paese? O forse divengono fattori di divisione quando sostengono determinati valori? Se così fosse si tornerebbe indietro, ad una visione giacobina di volte in volta prevalsa laddove si è affermato uno Stato ostile alla religione: lo Stato concede di più ad una Chiesa se è più remissiva, ma diventa severo, esigente ed esattore, se la Chiesa è più autonoma. Ma il nostro deve essere uno Stato giusto ed imparziale con tutti. Questo, probabilmente, è il punto che deve ancora maturare nell’attuale dibattito culturale e politico. Nel gioco della democrazia lo Stato deve farsi sempre guidare dal principio di imparzialità lasciando liberi i cittadini e i soggetti sociali di far sentire la loro voce e le loro opinioni per concorrere (senza per ciò temere ripercussioni negative) alla formazione della volontà generale; la quale poi non è mai data una volta per tutte, ma può modificarsi secondo i mutamenti che si manifestano nel corpo sociale.
Resta, in ogni caso, un dato non trascurabile. La discussione può andare molto più avanti proprio se recupera quella pacatezza, e quella serietà, di impostazione che caratterizza l’intervento cui ci siamo riferiti.
«Avvenire» dell’8 gennaio 2008
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