di Pierluigi Battista
È possibile essere insieme contro l’aborto in linea di principio e a favore di una legge che ne consenta, sulla base di regole ragionevoli, il ricorso? Gli integralisti dicono di no. Dicono di no gli integralisti laici, secondo i quali persino i più elementari interrogativi della coscienza altro non sarebbero che munizioni per demolire crudelmente la legge 194. Dicono di no gli integralisti religiosi, secondo i quali è intollerabile che una legge rinunci a reprimere e sanzionare una pratica abominevole. Dicono di no gli integralisti della logica, secondo i quali, «more geometrico», una legge non può che essere il frutto di un metodo rigorosamente deduttivo e che dunque come tale non sopporta il peso di contraddizioni, sfumature, mediazioni. E invece, distinguere tra cultura e legge è l’unica salvezza. È l’unico modo per continuare a pensare. È l’unica arma per tener desta una sensibilità intorpidita senza venir meno a un punto di riferimento ispirato dalla saggezza e dal buon senso: che peggio dell’aborto c’è solo l’aborto clandestino. Se non si dà ascolto alla variopinta schiera degli integralisti e ci si libera da questa tenaglia asfissiante, forse allora si può ricominciare a parlare. Giuliano Ferrara non vuole rimettere in discussione una legge (salvo ritocchi e aggiornamenti condivisi, così pare da un’intervista apparsa su l’Unità, anche da strenui alfieri del laicismo come Silvio Viale) ma sfidare il senso comune sulla base di un argomento culturale. Come facciamo noi laici, noi non credenti, noi così ferventi fautori dell’estensione di ogni diritto, noi che consideriamo imprescindibili le virtuose dichiarazioni sancite dalle Nazioni Unite, noi che sobbalziamo sgomenti e compassionevoli di fronte a ogni violazione (purtroppo frequentissima e quasi sempre impunita) dei fondamentali diritti di libertà in ogni angolo del globo terrestre, noi che vogliamo la pace perché ci fanno orrore i lutti e le devastazioni della guerra, noi che rigettiamo ogni genere di discriminazione, noi che siamo sensibili alle conquiste che incrementano la libertà di ogni individuo, come facciamo noi a non capire qual è il prezzo dell’aborto? Come facciamo noi laici (lo diceva con ammirevole e straordinaria lucidità il laico Norberto Bobbio in un’intervista rilasciata nel 1981 a Giulio Nascimbeni per il Corriere della Sera) a non capire che la soppressione di una vita, specie se piccola e muta e indifesa, non è materia da lasciare al monopolio morale dei credenti ma, come usa dire di questi tempi, «interpella» primi fra tutti noi stessi, la nostra coscienza, il nostro modo di comprendere culturalmente le cose, di dare «laicamente» voce ai temi rimossi della vita e della morte? La 194 non si tocca. Punto. Ma da quando in qua anche la cultura deve aspirare a uno statuto di sacrale intoccabilità, pretendere per sé un pregiudizio di immutabilità che rende letteralmente impossibile il dialogare civile tra argomenti contrapposti e articolati, si deve presumere, in perfetta buona fede e senza innominabili secondi fini? Non è poco, pochissimo «laico» sottrarsi alle domande o eluderle parlando d’altro, magari destreggiandosi tra poco onorevoli processi alle intenzioni? La 194 non si tocca. Ma l’orrore dell’aborto deve toccarci, oppure no?
«Corriere della Sera» del 7 gennaio 2008
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