di Davide Gianluca Bianchi
Vi è un paradosso tragico nella vicenda degli attentatori suicidi che la cronaca di questi ultimi anni ci ha regalato con insistente ricorrenza: questi giovani – quasi sempre fra i 25 e 30 anni – annientano se stessi e altri innocenti in nome di valori religiosi e ideali di giustizia, che sono destinati a rimanere una chimera nella loro esperienza personale. Non solo: proprio in conseguenza dei loro metodi di lotta, questi stessi valori rischiano di essere screditati agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, anche per gli aspetti più meritevoli d’attenzione.
Questo paradosso ci allontana, quasi ci respinge dalla loro realtà, e ci impedisce di studiarla. L’ansia di anteporre un giudizio di condanna fa premio sul desiderio di capire, che fatalmente rimane inappagato. Senza cedere a questa inerzia, Domenico Tosini, docente di Sociologia all’Università di Trento, in Martiri che uccidono. Il terrorismo suicida nelle nuove guerre (Il Mulino) ne ha studiato la fenomenologia seguendo il metodo delle scienze sociali: sono attentatori suicidi coloro che sanno – anzi scelgono – di morire nell’azione violenta di cui sono autori; per loro, la morte non è solo un rischio implicito, come sempre avviene nella lotta armata; è una certezza perché il corpo dell’attentatore è esso stesso un’arma d’offesa, è il veicolo essenziale dell’iniziativa assassina.
Professor Tosini, il terrorismo suicida è d’origine esclusivamente religiosa, o si conoscono altre matrici dello stesso fenomeno?
«La religione non è una condizione necessaria: Il PKK turco e le Tigri Tamil dello Sri Lanka, per esempio, applicano questi metodi pur avendo una cultura secolare. Ciò detto non si può non riconoscere che negli ultimi trent’anni – arco di tempo che prendo in analisi nel libro – la maggior parte dei terroristi suicidi erano ispirati da un credo. Erano quasi sempre islamisti estremisti, vale a dire jihadisti di confessione sunnita o sciita».
Perché nella sua analisi si è limitato agli ultimi trent’anni: in fondo si sarebbero potuti includere anche i kamikaze giapponesi della Seconda guerra mondiale. Non trova?
«Senza dubbio. E volendo si potrebbe arrivare fino all’età antica, citando due esempi famosi: in Giudea, ai tempi della dominazione romana, vi erano dei guerriglieri – come si direbbe nel linguaggio moderno – denominati “sicarii” che erano attentatori suicidi. In Persia nell’XI e XII secolo una setta sciita, nota con il nome di “assassini”, praticava questa forma di lotta armata, così come i guerriglieri vietnamiti del recente conflitto. Tuttavia, all’inizio degli anni ’80 è iniziata una stagione nuova con la lotta del partito sciita di Hezbollah, che nel Sud del Libano si opponeva all’invasione israeliana. Hezbollah è il frutto maturo di una radicalizzazione che negli ultimi decenni ha attraversato tutto l’Islam politico: per quanto riguarda i sunniti, in buona misura grazie alla riflessione di Sayyid Qutb (1906-1966), un autore egiziano degli anni ’60 che veniva dai “Fratelli musulmani” (a lui si ispirava al-Jihad, la formazione paramilitare che nel 1981 assassinò Sadat: in questa stessa organizzazione ha militato Ayman al-Zawahiri, che ha assunto la leadership di al-Qaeda dopo la morte di Bin Laden). In riferimento agli sciiti, l’estremismo ha tratto spinta naturalmente dalla rivoluzione vittoriosa dello ayatollah Khomeini in Iran».
Cos’ha di nuovo questa forma di terrorismo?
«Una complessa identificazione del fronte nemico: quest’ultimo viene ripartito in “nemico interno”, che coincide con i regimi corrotti e autocratici che l’Islam radicale cerca di spodestare (si pensi a Reza Pahlavi, lo Scia persiano al potere fino al 1979, oppure ai regimi sconfitti dalla “Primavera araba”) e “nemico esterno” che a questi regimi si appoggia. Quest’ultimo è rappresentato dall’Occidente, e in particolare dagli Stati Uniti che attraverso i loro addentellati politici ed economici tenterebbero di continuare una sorta di dominazione coloniale. Al-Qaeda ha condiviso questa analisi, aggiungendovi una tattica di lotta del tutto inedita: se prima il nemico veniva combattuto sul suolo arabo, per spingerlo ad abbandonarlo, al-Qaeda l’ha inseguito a casa propria raggiungendo un livello d’aggressività senza precedenti (si pensi non solo all’11 settembre ma anche alle bombe sui treni spagnoli del 2004 e agli attentati nella metropolitana di Londra nel 2005). È quello che nel libro chiamo “jihadismo pan-islamico globale”».
Cosa può fare l’Occidente per evitare l’insorgere del terrorismo suicida?
«È un quesito a cui ho cercato di rispondere nel mio libro, perché è evidente che il fenomeno, in ampia misura, è una risposta violenta alla pessima percezione che si ha di noi – e in particolare degli Americani – in quei Paesi: dal loro punto di vista è una lotta contro l’Occidente, per l’interferenza che questi esercita nelle loro comunità. In primis direi quindi che gli occidentali dovrebbero evitare di occupare militarmente i Paesi musulmani (solo in Afghanistan e Iraq, dopo l’invasione americana, si sono avuti il 68% del totale degli attentati suicidi verificatisi dagli anni ’80 fino ai giorni nostri). In aggiunta dovremmo togliere il nostro sostegno ai regimi autoritari e corrotti, favorendo l’autonoma democratizzazione delle popolazioni musulmane».
Questo paradosso ci allontana, quasi ci respinge dalla loro realtà, e ci impedisce di studiarla. L’ansia di anteporre un giudizio di condanna fa premio sul desiderio di capire, che fatalmente rimane inappagato. Senza cedere a questa inerzia, Domenico Tosini, docente di Sociologia all’Università di Trento, in Martiri che uccidono. Il terrorismo suicida nelle nuove guerre (Il Mulino) ne ha studiato la fenomenologia seguendo il metodo delle scienze sociali: sono attentatori suicidi coloro che sanno – anzi scelgono – di morire nell’azione violenta di cui sono autori; per loro, la morte non è solo un rischio implicito, come sempre avviene nella lotta armata; è una certezza perché il corpo dell’attentatore è esso stesso un’arma d’offesa, è il veicolo essenziale dell’iniziativa assassina.
Professor Tosini, il terrorismo suicida è d’origine esclusivamente religiosa, o si conoscono altre matrici dello stesso fenomeno?
«La religione non è una condizione necessaria: Il PKK turco e le Tigri Tamil dello Sri Lanka, per esempio, applicano questi metodi pur avendo una cultura secolare. Ciò detto non si può non riconoscere che negli ultimi trent’anni – arco di tempo che prendo in analisi nel libro – la maggior parte dei terroristi suicidi erano ispirati da un credo. Erano quasi sempre islamisti estremisti, vale a dire jihadisti di confessione sunnita o sciita».
Perché nella sua analisi si è limitato agli ultimi trent’anni: in fondo si sarebbero potuti includere anche i kamikaze giapponesi della Seconda guerra mondiale. Non trova?
«Senza dubbio. E volendo si potrebbe arrivare fino all’età antica, citando due esempi famosi: in Giudea, ai tempi della dominazione romana, vi erano dei guerriglieri – come si direbbe nel linguaggio moderno – denominati “sicarii” che erano attentatori suicidi. In Persia nell’XI e XII secolo una setta sciita, nota con il nome di “assassini”, praticava questa forma di lotta armata, così come i guerriglieri vietnamiti del recente conflitto. Tuttavia, all’inizio degli anni ’80 è iniziata una stagione nuova con la lotta del partito sciita di Hezbollah, che nel Sud del Libano si opponeva all’invasione israeliana. Hezbollah è il frutto maturo di una radicalizzazione che negli ultimi decenni ha attraversato tutto l’Islam politico: per quanto riguarda i sunniti, in buona misura grazie alla riflessione di Sayyid Qutb (1906-1966), un autore egiziano degli anni ’60 che veniva dai “Fratelli musulmani” (a lui si ispirava al-Jihad, la formazione paramilitare che nel 1981 assassinò Sadat: in questa stessa organizzazione ha militato Ayman al-Zawahiri, che ha assunto la leadership di al-Qaeda dopo la morte di Bin Laden). In riferimento agli sciiti, l’estremismo ha tratto spinta naturalmente dalla rivoluzione vittoriosa dello ayatollah Khomeini in Iran».
Cos’ha di nuovo questa forma di terrorismo?
«Una complessa identificazione del fronte nemico: quest’ultimo viene ripartito in “nemico interno”, che coincide con i regimi corrotti e autocratici che l’Islam radicale cerca di spodestare (si pensi a Reza Pahlavi, lo Scia persiano al potere fino al 1979, oppure ai regimi sconfitti dalla “Primavera araba”) e “nemico esterno” che a questi regimi si appoggia. Quest’ultimo è rappresentato dall’Occidente, e in particolare dagli Stati Uniti che attraverso i loro addentellati politici ed economici tenterebbero di continuare una sorta di dominazione coloniale. Al-Qaeda ha condiviso questa analisi, aggiungendovi una tattica di lotta del tutto inedita: se prima il nemico veniva combattuto sul suolo arabo, per spingerlo ad abbandonarlo, al-Qaeda l’ha inseguito a casa propria raggiungendo un livello d’aggressività senza precedenti (si pensi non solo all’11 settembre ma anche alle bombe sui treni spagnoli del 2004 e agli attentati nella metropolitana di Londra nel 2005). È quello che nel libro chiamo “jihadismo pan-islamico globale”».
Cosa può fare l’Occidente per evitare l’insorgere del terrorismo suicida?
«È un quesito a cui ho cercato di rispondere nel mio libro, perché è evidente che il fenomeno, in ampia misura, è una risposta violenta alla pessima percezione che si ha di noi – e in particolare degli Americani – in quei Paesi: dal loro punto di vista è una lotta contro l’Occidente, per l’interferenza che questi esercita nelle loro comunità. In primis direi quindi che gli occidentali dovrebbero evitare di occupare militarmente i Paesi musulmani (solo in Afghanistan e Iraq, dopo l’invasione americana, si sono avuti il 68% del totale degli attentati suicidi verificatisi dagli anni ’80 fino ai giorni nostri). In aggiunta dovremmo togliere il nostro sostegno ai regimi autoritari e corrotti, favorendo l’autonoma democratizzazione delle popolazioni musulmane».
«Avvenire» del 12 luglio 2012
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