Il sindaco Pisapia si è adeguato a una consuetudine di subalternità ai diktat di Pechino
di Pierluigi Battista
Il sindaco Pisapia è stato molto criticato per aver ceduto al ricatto cinese facendo marcia indietro sulla cittadinanza onoraria milanese al Dalai Lama. Ma lui non ha colpe specifiche: si è semplicemente adeguato a una consuetudine di subalternità ai diktat di Pechino. L'economia e la real-Politik hanno logiche inesorabili. E le istituzioni non possono sopperire con gesti esemplari alla sordità e alla sciatta indifferenza con cui l'opinione pubblica internazionale accoglie la tragedia del Tibet. Non solo oggi, ma sin dai tempi dell'invasione con cui la Cina maoista ha annesso con una violenza smisurata Lhasa e tutto il meraviglioso territorio tibetano. Cosa possono fare le istituzioni se nei libri di storia viene semplicemente ignorata la spaventosa cifra di almeno un milione di tibetani morti ammazzati dal 1950 ad oggi? E la distruzione sistematica di migliaia di templi buddisti, attuata con puntigliosa severità dalle truppe cinesi che, infervorate dal culto fanatico di una religione che ha fatto del leader Mao una divinità intoccabile, hanno voluto sradicare ogni forma di devozione tradizionale per rendere culturalmente omogeneo il Tibet ai suoi nuovi dominatori? Forse Pisapia deve risarcire decenni di silenzio sui monaci torturati, sui villaggi devastati e rasi al suolo, sulle cerimonie di umiliazione cui sottoporre chiunque osasse sfidare l'occupazione militare dei maoisti ma semplicemente conservare tracce di un'identità religiosa e nazionale che doveva essere cancellata? Per quanto tempo l'opinione pubblica ha fatto finta di niente. In Occidente è capitato anche che si attivasse una corrente di simpatia nei confronti di Mao mentre gli anni della Rivoluzione culturale furono per il Tibet un periodo di massacri, di soprusi, di oppressione, di morte di un numero incalcolabile di dissidenti. Gli interessi sovrani dell'economia ora esigono il silenzio della paura e della reticenza sul Dalai Lama. Il realismo politico impone che tutte le delegazioni occidentali in visita a Pechino (comprese quelle italiane, ovviamente, di destra e di sinistra) tacciano con consapevole e teorizzata codardia sui valori fondamentali che altrimenti vengono pudicamente definiti «non negoziabili». L'affinità ideologica con la rivoluzione cinese ha invece spento per anni ogni protesta sulla sorte del Tibet, dei tibetani, dei monasteri, dei tribunali speciali, dei plotoni d'esecuzione, delle galere imbottite di dissidenti. Nessun gesto clamoroso da parte delle istituzioni potrebbe compensare un silenzio così prolungato così corale e così ipocrita. Anche da parte del sindaco di Milano, che si era esposto in una promessa imprudente e che, dopo questa clamorosa e imbarazzante marcia indietro, non potrà più accusare gli avversari di scarsa sensibilità sui diritti umani conculcati. Conculcati in Tibet con particolare ferocia.
«Corriere della Sera» del 25 giugno 2012
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