Siamo nell'era in cui la reputazione ha ceduto il passo alla notorietà. Vale a dire che tutti vogliono essere visti e conosciuti, a qualsiasi costo: anche per ragioni poco nobili. Ecco perché in treno il vicino urla al telefonino ...
di di Umberto Eco
Durante le serate organizzate da "la Repubblica" a Bologna, venerdì scorso, in un dialogo con Stefano Bartezzaghi mi è accaduto di intrattenermi sul concetto di reputazione. Un tempo la reputazione era soltanto o buona o cattiva, e quando si rischiava una cattiva reputazione (perché si faceva fallimento o perché ci dicevano cornuto) si arrivava a riscattarla col suicidio o col delitto d'onore. Naturalmente tutti aspiravano ad avere una buona reputazione. Ma da tempo il concetto di reputazione ha ceduto il posto a quello di notorietà. Conta essere "riconosciuto" dai propri simili, ma non nel senso del riconoscimento come stima o premio, bensì in quello più banale per cui, vedendoti per strada, gli altri possano dire "guarda, è proprio lui". Il valore predominante è diventato l'apparire, e il modo più sicuro è apparire in televisione. E non è necessario essere Rita Levi Montalcini o Mario Monti, basta confessare in una trasmissione strappalacrime che il coniuge ti ha tradito.
Il primo eroe dell'apparire è stato l'imbecille che andava a mettersi dietro agli intervistati e agitava la manina. Ciò gli consentiva di essere riconosciuto la sera dopo al bar ("Lo sai che ti ho visto in tv?"), ma certamente queste apparizioni duravano lo spazio di un mattino. Quindi gradatamente si è accettata l'idea che per apparire in modo costante ed evidente occorresse fare cose che un giorno avrebbero fruttato la cattiva reputazione. Non che non si aspiri anche alla buona reputazione, ma è faticoso conquistarla, dovresti aver compiuto un atto eroico, aver vinto se non il Nobel almeno lo Strega, aver passato la vita a curare i lebbrosi, e non sono cose alla portata di ogni mezza calzetta. Più facile diventare soggetto di interesse, meglio se morboso, se si è andati a letto per denaro con una persona famosa, o se si è stati accusati di peculato.
Non scherzo, e basta guardare l'aria fiera del concussore o del furbetto del quartierino quando appare nel telegiornale, magari il giorno dell'arresto: quei minuti di notorietà valgono il carcere, meglio se la prescrizione, ed ecco perché l'accusato sorride. Sono passati decenni da quando qualcuno ha avuto la vita distrutta perché lo hanno ripreso in manette. Insomma il principio è: "Se appare la Madonna perché non anch'io?". E si sorvola sul fatto di non essere una vergine.
Questo cose si stavano dicendo il venerdì 15 scorso, ed ecco che proprio il giorno dopo appariva su "Repubblica" un lungo articolo di Roberto Esposito ("La vergogna perduta"), dove si rifletteva anche sui libri di Gabriella Turnaturi ("Vergogna. Metamorfosi di un'emozione", Feltrinelli) e di Marco Belpoliti ("Senza vergogna, Guanda). Insomma il tema della perdita della vergogna è presente in varie riflessioni sul costume contemporaneo.
Ora, questa frenesia dell'apparire (e la notorietà a ogni costo, anche a prezzo di quello che un tempo era il marchio della vergogna) nasce dalla perdita della vergogna o si perde il senso della vergogna perché il valore dominante è l'apparire, anche a costo di svergognarsi? Propendo per la seconda tesi. L'essere visto, l'essere oggetto di discorso è valore talmente dominante che si è pronti a rinunciare a quello che un tempo si chiamava il pudore (o il sentimento geloso della propria privatezza). Esposito notava che è segno di mancanza di vergogna anche il parlare ad alta voce al telefonino sul treno, facendo sapere a tutti i propri fatti privati, quelli che un tempo si sussurravano all'orecchio. Non è che uno non si renda conto che gli altri lo sentono (sarebbe solo un maleducato), è che inconsciamente vuole farsi sentire, anche se i suoi fatti privati sono irrilevanti. Ma ahimé non tutti possono aver fatti privati rilevanti, come Amleto o Anna Karenina, e quindi basta essere riconosciuti come escort o come debitore moroso.
Leggo che non so quale movimento ecclesiale vuole ritornare alla confessione pubblica. Eh già, che gusto c'è a depositare le proprie vergogne solo nell'orecchio del confessore?
Il primo eroe dell'apparire è stato l'imbecille che andava a mettersi dietro agli intervistati e agitava la manina. Ciò gli consentiva di essere riconosciuto la sera dopo al bar ("Lo sai che ti ho visto in tv?"), ma certamente queste apparizioni duravano lo spazio di un mattino. Quindi gradatamente si è accettata l'idea che per apparire in modo costante ed evidente occorresse fare cose che un giorno avrebbero fruttato la cattiva reputazione. Non che non si aspiri anche alla buona reputazione, ma è faticoso conquistarla, dovresti aver compiuto un atto eroico, aver vinto se non il Nobel almeno lo Strega, aver passato la vita a curare i lebbrosi, e non sono cose alla portata di ogni mezza calzetta. Più facile diventare soggetto di interesse, meglio se morboso, se si è andati a letto per denaro con una persona famosa, o se si è stati accusati di peculato.
Non scherzo, e basta guardare l'aria fiera del concussore o del furbetto del quartierino quando appare nel telegiornale, magari il giorno dell'arresto: quei minuti di notorietà valgono il carcere, meglio se la prescrizione, ed ecco perché l'accusato sorride. Sono passati decenni da quando qualcuno ha avuto la vita distrutta perché lo hanno ripreso in manette. Insomma il principio è: "Se appare la Madonna perché non anch'io?". E si sorvola sul fatto di non essere una vergine.
Questo cose si stavano dicendo il venerdì 15 scorso, ed ecco che proprio il giorno dopo appariva su "Repubblica" un lungo articolo di Roberto Esposito ("La vergogna perduta"), dove si rifletteva anche sui libri di Gabriella Turnaturi ("Vergogna. Metamorfosi di un'emozione", Feltrinelli) e di Marco Belpoliti ("Senza vergogna, Guanda). Insomma il tema della perdita della vergogna è presente in varie riflessioni sul costume contemporaneo.
Ora, questa frenesia dell'apparire (e la notorietà a ogni costo, anche a prezzo di quello che un tempo era il marchio della vergogna) nasce dalla perdita della vergogna o si perde il senso della vergogna perché il valore dominante è l'apparire, anche a costo di svergognarsi? Propendo per la seconda tesi. L'essere visto, l'essere oggetto di discorso è valore talmente dominante che si è pronti a rinunciare a quello che un tempo si chiamava il pudore (o il sentimento geloso della propria privatezza). Esposito notava che è segno di mancanza di vergogna anche il parlare ad alta voce al telefonino sul treno, facendo sapere a tutti i propri fatti privati, quelli che un tempo si sussurravano all'orecchio. Non è che uno non si renda conto che gli altri lo sentono (sarebbe solo un maleducato), è che inconsciamente vuole farsi sentire, anche se i suoi fatti privati sono irrilevanti. Ma ahimé non tutti possono aver fatti privati rilevanti, come Amleto o Anna Karenina, e quindi basta essere riconosciuti come escort o come debitore moroso.
Leggo che non so quale movimento ecclesiale vuole ritornare alla confessione pubblica. Eh già, che gusto c'è a depositare le proprie vergogne solo nell'orecchio del confessore?
«L'Espresso» del 26 giugno 2012
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