Vizi capitali (3)
di Vincenzo Paglia
«Perché lui si e io no?» È l’interrogativo che accende l’invidia. Non nasce dall’amore per l’uguaglianza, come a prima vista potrebbe sembrare. Può essere anche vero infatti che una società più giusta offra meno occasioni all’invidia di attecchire nel cuore dell’uomo. Nietzsche, ad esempio, lo suggerisce. A suo parere il livellamento tra gli esseri umani può favorire «quell’inclinazione che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l’invidia» (Umano, troppo umano). A mio avviso, tuttavia, essa, come tutte le passioni, più che da fattori esterni all’uomo, dipende primariamente dal cuore dell’uomo e dove l’uomo pone il suo tesoro. Gesù lo ha detto ai suoi discepoli: «Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adulteri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15,19). Chi pone al centro di tutto il proprio “io” è spinto alla tristezza per il bene degli altri. San Tommaso, che riporta l’affermazione del Damasceno che la qualifica l’invidia come «la tristezza dei beni altrui» (II-II, q.36, a.1), rimarca l’assurdità di questa passione. Mentre è logico che la tristezza sorga per il male proprio, con l’invidia accade in contrario: il bene altrui è creduto un male proprio perché si pensa possa sminuire «la propria gloria o la propria eccellenza» (ivi). Per questo l’aquinate afferma che «è sempre una cosa malvagia». E sostiene che è un peccato mortale perché “si oppone direttamente alla misericordia… e alla carità”.
C’è una generale concordia nella severità di giudizio sull’invidia. La bella sintesi di Elena Pulcini, nel volume Invidia. La passione triste, che spazia dalla cultura greca sino ai nostri giorni, può riassumersi nell’affermazione dello scrittore statunitense Joseph Epstein che considera l’invidia «il più insidioso dei vizi capitali». E, potremmo aggiungere, anche il più meschino, tanto che nessuno se ne vanta come fa rilevare il duca Francois La Rochefoucauld: «Molti sono disposti a esibire i propri vizi, ma nessuno oserebbe vantarsi della propria invidia». L’invidia resta segreta e triste. Ed anche dolorosa, perché è un vero e proprio auto avvelenamento dell’anima: non solo non riesce a sopportare il bene dell’altro, ma trova soddisfazione solo nella disgrazia dell’altro. Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, la raffigura come una vecchia dalle mani rapaci, avvolta dal tormento di un fuoco che ne brucia le vesti e con un serpente che esce dalla sua bocca e gli si rivolta contro iniettandole negli occhi il veleno mortale. Diceva bene Hannah Arendt: l’invidia «è il peggior vizio dell’umanità» (L’umanità nei tempi oscuri).
Dicevo che l’invidia non nasce fuori dell’uomo, ma dal suo cuore. È l’amor sui la molla che la fa scattare, che porta a guardare malevolmente gli altri, soprattutto il loro progresso. E il cuore trova complice l’occhio che porta a stabilire il confronto con l’altro. Dante pone nell’occhio malevolo il centro dell’invidia. Nel canto XIII del Purgatorio impone agli invidiosi un singolare castigo: a loro vengono cuciti gli occhi con il fil di ferro: «E come alli orbi non approda il sole, / così all’ombre quivi, ond’io parlo ora / luce del ciel di se largir non vole; / ch’a tutti un fil di ferro i cigli fora / e cuce sì, come a sparvier selvaggio / si fa però che questo non dimora». E’ una punizione molto dura; si potrebbe dire: nulla da “invidiare” alle pene dell’inferno. Certo, il poeta voleva sottolineare la malvagità di questa passione che si rivolta anzitutto contro se stessi, appunto, non riuscire a godere per il bene degli altri per gioire solo della loro rovina.
Ma come l’invidia s’insedia nel cuore degli uomini? Innumerevoli analisi sono state fatte nel corso dei secoli per scandagliare l’animo umano e cogliere la ragioni di questa passione viziosa. Tutte vanno tenute presenti e considerate con attenzione. Quella che tuttavia mi pare la più profonda è indicata nelle Scritture ebraico-cristiane. E potremmo dire che tutto inizia con Lucifero, l’angelo “portatore di luce” che dopo essersi ribellato a Dio, volendo essere simile a Lui, è stato scaraventato negli inferi, ossia in una condizione di definitiva e incolmabile separazione da Dio. Nella seconda Lettera di Pietro, a proposito di questi angeli ribelli, si scrive: «Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio» (2,4). Lucifero, imprigionato in questa lontananza infernale, non tollera però coloro che sono in comunione con Dio, non sopporta il conversare sereno di Adamo ed Eva con Dio. Ne prova profonda invidia. E decide di rovinarli iniettando nel loro cuore quello stesso veleno dell’orgoglio: se mangiano il frutto dell’albero della vita saranno come Dio. I due si lasciano tentare. E accettano il consiglio. Le conseguenze sono drammatiche: scardinano l’armonia con Dio e quella tra loro e con il creato. È il primo peccato, quello “originale”, prototipo di ogni peccato. Il Libro della Sapienza commenta: «Sì, Dio ha creato l'uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (2, 23-24). È a causa dell’invidia di Lucifero che il male e la morte fanno il loro ingresso nel mondo.
La successiva vicenda umana si snoda nel continuo confronto tra l’hybris luciferina che spinge l’uomo sino al cielo e la realtà della debolezza della creatura. La colpa originaria segna la storia umana. Alcuni racconti biblici sono emblematici. L’invidia, potremmo dire, dopo aver preso possesso dell’animo umano, si mette subito all’opera. Ed ecco Caino che prova invidia per Abele, suo fratello, sino ad ucciderlo. Nella sua forza archetipica, il peccato di Caino è denso di implicazioni simboliche. Egli non era cattivo, ma l’invidia verso il fratello lo acceca. Caino non sopporta che Dio ami Abele in maniera particolare. Abele non era migliore di Caino, ma più debole (abel significa soffio, debolezza), per questo Dio gli era più vicino. Caino è accecato dall’invidia e giunge sino al fratricidio. L’invidia danneggia chi ne è posseduto e colui verso il quale si dirige.
Per questo Gesù svela la crudeltà insita nei vizi e chiama i discepoli all’altezza dell’amore. «Avete inteso che fu detto agli antichi: non ucciderai… ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello dovrà essere posto a giudizio» (Mt 5, 21), dice Gesù ai discepoli. E’ la misura alta della perfezione del cuore e dei suoi sentimenti. Il Nuovo Testamento non può non condannare senza appello l’invidia, appunto perché tradisce il precetto dell’amore, inquina e lede il rapporto con l’altro. Gesù stesso cadde vittima dell’invidia dei sommi sacerdoti quando lo consegnarono a Pilato, preferendogli Barabba, e ne invocarono la crocifissione. L’astio e il risentimento verso Gesù diventarono accecanti e ossessivi. «Crocifiggilo!», gridavano tutti a Pilato. Eppure Pilato «sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia» anche se continuava a chiedere quali fossero le colpe di Gesù (Mc 15,10; Mt 27,18). Ma l’invidia non sente ragioni e “mette in croce” l’unico giusto. L’invidia, infatti, disgrega la convivenza pacifica e uccide l’amore. Essa può nutrirsi solo della distruzione dell’altro e può unire in maniera perversa, come avvenne appunto sotto la croce. Ma l’amore risorge e vince le forze del male e con esse l’invidia. Il Vangelo non lascia dubbi su ciò che può sconfiggere la discordia, il conflitto e la malevolenza: l’amore gratuito di Dio. È questo amore, caritatevole, generoso, appassionato, gratuito, senza limiti, l’unico che ha il potere di rompere la logica delle passioni e la forza dei vizi capitali. A questo fece appello il cristianesimo delle origini, che, attraverso gli Atti degli Apostoli, appare quanto mai consapevole delle minacce di disgregazione che insidiano la neonata comunità cristiana. L’invidia è sempre presente negli elenchi dei vizi da cui Paolo nelle sue Lettere mette ripetutamente in guardia i fratelli, per scongiurarne divisioni e rivalità e proteggere quindi la concordia che è il fondamento stesso della vita della comunità cristiana. Solo l’amore, come canta il celebre inno alla carità nella Prima Lettera ai Corinzi (13, 4), può opporsi alle passioni distruttive e garantire la concordia unendo tutti in un corpo unanime: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si compiace della verità».
La preoccupazione di Paolo permane nei Padri della Chiesa, tanto che, ispirandosi al messaggio paolino, nel III secolo d.C., Cipriano dedica un vero e proprio trattato, De zelo et livore, ai mali dell’invidia, riconducendone l’origine all’opera del diavolo e indicando nell’umiltà («gli ultimi saranno i primi») la risposta all’orgoglio e alla superbia da cui l’invidia scaturisce. Con l’amore si tolgono i pungiglioni ai vizi capitali i quali, essendo appunto capitali, ossia “in capite”, se non bloccati distruggono sia chi li lascia liberi di agire sia chi ne è oggetto. I vizi capitali sono sette – un numero pieno di simbolismo – ed anche coesi e prolifici. Gregorio Magno, tra i primi nella letteratura cristiana a parlarne in maniera sistematica, scrive: «i vizi capitali sono così connessi tra loro che nascono l’uno dall’altro. Infatti, la prima figlia della superbia è la vanagloria, che non appena ha corrotto un’anima, subito partorisce l’invidia: poiché nel desiderare la potenza di un gran nome, si duole al pensiero che un altro possa raggiungerla». Questo grande papa mette subito in guardia dalla superbia, dall’orgoglio, da cui nascono numerosi figli dei quali il primo è l’invidia. Quest’ultima, a sua volta, è molto prolifica. Gregorio ne traccia un elenco: la mormorazione, la detrazione, la distruzione dell’altro, il risentimento, la gioia per la loro rovina, l’odio per loro sino all’omicidio. Come si può dedurre, l’invidia – ed è così anche per gli altri vizi capitali – non è rinchiusa in se stessa e neppure resta circoscritta nel recinto del cuore dell’uomo. Non è un vizio passivo. Al contrario, è una passione che avvelena sé e gli altri. Si potrebbe dire che diventa anche un “vizio sociale” perché con la sua forza avvelenata corrode in profondità i rapporti tra gli uomini sino a scardinare la stessa convivenza.
Gli avvertimenti di Gregorio Magno andrebbero meditati con attenzione anche oggi. E particolare attenzione va posta all’invidia perché è una passione umbratile, segreta, involuta, nascosta. Essa sembra sottrarsi più di tutti gli altri vizi al precetto pastorale di parlare del peccato, di denunciare il male, di far luce sulla colpa. È vero che è un “tarlo dell’anima”, come diceva san Cipriano, che porta l’invidioso a tormentarsi e a soffrire. Ma questo fa parte della banalità e della stupidità del male. L’invidioso in effetti è un superbo frustrato, offuscato nel proprio giudizio da uno smisurato amore di sé che gli fa vedere un bene (quello dell’altro) come un male (per sé), poiché questo lo ferisce nella sua brama di gloria e di riconoscimento. Si può comprendere chi vuole compiere un gesto emulativo teso a conquistare un bene che altri possiedono; e ancor più chi s’indigna di fronte al possesso immeritato di un bene. Ma non può esserci indulgenza per l’invidia che anela solo ad affermare la propria superiorità sull’altro e che per questo mette in atto una sorta di per¬versione del proprio giudizio. È un vizio da combattere con decisione.
Se è vero che tutti i vizi capitali sono anche “sociali”, ossia hanno un riflesso sulla vita associata, l’invidia vanta il primato negativo per lo sgretolamento e la dissoluzione dei rapporti umani. Essa infatti alimenta quel clima di reciproca diffidenza che sfocia nel proliferare di lotte e conflitti tra individui e fazioni, e mina alla radice ogni sentimento di solidarietà. Tutto ciò è rilevabile in ogni epoca della storia, ma in questo tempo, ossia in un contesto sociale ove l’individualismo sembra approfondirsi e allargarsi, l’invidia pone un’accelerazione pericolosissima allo sgretolamento della società. Gli uomini e le donne sono certamente oggi più libere ma tutti comunque più soli. L’io sta soppiantando sempre più il noi. In tale contesto il confronto diventa più facile, ma anche più lacerante e più frustrante. Insomma, l’invidia, oggi, è una passione che ha la strada in discesa. E forse proprio per questo è ancora più triste. Qualcuno, non a caso, parla dei nostri tempi come de L’epoca delle passioni tristi.
Come combattere questa passione triste? Come può sconfiggerla chi ne è schiavo? E come deve fronteggiarla chi è invidiato? Chi ha paura di essere oggetto di sguardi malevoli? Chi teme il “malocchio”? Molti autori si sono dilungati sul modo di sconfiggere i vizi e, in questo caso, l’invidia. Vari intellettuali, nel corso dei secoli, hanno affrontato tale questione. Ci sono coloro che suggeriscono di trasformare l’invidia in un atteggiamento di competizione, oppure in uno sforzo di emulazione o anche nell’impegno a vivere con autenticità la propria esistenza. A mio avviso – pur considerando valido tutto ciò – la via maestra è una sola, quella dell’amore.
Certo, parlo dell’amore evangelico, quello di Gesù, un amore del tutto straordinario. Quello che spinse gli autori del Nuovo Testamento, quando dovettero parlarne, a scegliere un termine nuovo, agape, una parola praticamente non usata dalla cultura greca che preferiva eros e philia. Con il termine agape gli autori del Nuovo Testamento introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philìa), ma un amore, appena concepibile dagli uomini, che trova appunto il suo modello culminante in Gesù: un amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. È solo con questo amore – e ne basta anche una sola goccia – che si può sconfiggere l’invidia. E tutto questo può accadere nel cuore degli uomini. Anzi, è nel cuore degli uomini che si gioca il destino dell’umanità anche in questo inizio di millennio. Un caro amico amava ripetere che per sconfiggere in sé e negli altri l’invidia, la via più efficace è pregare per coloro che ti invidiano. È la via alta dell’amore. E si gioca tutta nel cuore. Aveva ragione quel sapiente ebreo che affermava: «Se vuoi cambiare il mondo, inizia a cambiare il tuo cuore».
Bene hanno fatto gli organizzatori a mettere a tema i “vizi capitali”. Bene facciamo noi a riflettere su di essi. L’augurio è quello di svuotare almeno un poco i cuori – a partire da quello di ciascuno di noi - da queste passioni malvage e, in particolare, dall’invidia che avvelena i cuori e distrugge la convivenza. Ma l’amore è più forte.
C’è una generale concordia nella severità di giudizio sull’invidia. La bella sintesi di Elena Pulcini, nel volume Invidia. La passione triste, che spazia dalla cultura greca sino ai nostri giorni, può riassumersi nell’affermazione dello scrittore statunitense Joseph Epstein che considera l’invidia «il più insidioso dei vizi capitali». E, potremmo aggiungere, anche il più meschino, tanto che nessuno se ne vanta come fa rilevare il duca Francois La Rochefoucauld: «Molti sono disposti a esibire i propri vizi, ma nessuno oserebbe vantarsi della propria invidia». L’invidia resta segreta e triste. Ed anche dolorosa, perché è un vero e proprio auto avvelenamento dell’anima: non solo non riesce a sopportare il bene dell’altro, ma trova soddisfazione solo nella disgrazia dell’altro. Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, la raffigura come una vecchia dalle mani rapaci, avvolta dal tormento di un fuoco che ne brucia le vesti e con un serpente che esce dalla sua bocca e gli si rivolta contro iniettandole negli occhi il veleno mortale. Diceva bene Hannah Arendt: l’invidia «è il peggior vizio dell’umanità» (L’umanità nei tempi oscuri).
Dicevo che l’invidia non nasce fuori dell’uomo, ma dal suo cuore. È l’amor sui la molla che la fa scattare, che porta a guardare malevolmente gli altri, soprattutto il loro progresso. E il cuore trova complice l’occhio che porta a stabilire il confronto con l’altro. Dante pone nell’occhio malevolo il centro dell’invidia. Nel canto XIII del Purgatorio impone agli invidiosi un singolare castigo: a loro vengono cuciti gli occhi con il fil di ferro: «E come alli orbi non approda il sole, / così all’ombre quivi, ond’io parlo ora / luce del ciel di se largir non vole; / ch’a tutti un fil di ferro i cigli fora / e cuce sì, come a sparvier selvaggio / si fa però che questo non dimora». E’ una punizione molto dura; si potrebbe dire: nulla da “invidiare” alle pene dell’inferno. Certo, il poeta voleva sottolineare la malvagità di questa passione che si rivolta anzitutto contro se stessi, appunto, non riuscire a godere per il bene degli altri per gioire solo della loro rovina.
Ma come l’invidia s’insedia nel cuore degli uomini? Innumerevoli analisi sono state fatte nel corso dei secoli per scandagliare l’animo umano e cogliere la ragioni di questa passione viziosa. Tutte vanno tenute presenti e considerate con attenzione. Quella che tuttavia mi pare la più profonda è indicata nelle Scritture ebraico-cristiane. E potremmo dire che tutto inizia con Lucifero, l’angelo “portatore di luce” che dopo essersi ribellato a Dio, volendo essere simile a Lui, è stato scaraventato negli inferi, ossia in una condizione di definitiva e incolmabile separazione da Dio. Nella seconda Lettera di Pietro, a proposito di questi angeli ribelli, si scrive: «Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio» (2,4). Lucifero, imprigionato in questa lontananza infernale, non tollera però coloro che sono in comunione con Dio, non sopporta il conversare sereno di Adamo ed Eva con Dio. Ne prova profonda invidia. E decide di rovinarli iniettando nel loro cuore quello stesso veleno dell’orgoglio: se mangiano il frutto dell’albero della vita saranno come Dio. I due si lasciano tentare. E accettano il consiglio. Le conseguenze sono drammatiche: scardinano l’armonia con Dio e quella tra loro e con il creato. È il primo peccato, quello “originale”, prototipo di ogni peccato. Il Libro della Sapienza commenta: «Sì, Dio ha creato l'uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (2, 23-24). È a causa dell’invidia di Lucifero che il male e la morte fanno il loro ingresso nel mondo.
La successiva vicenda umana si snoda nel continuo confronto tra l’hybris luciferina che spinge l’uomo sino al cielo e la realtà della debolezza della creatura. La colpa originaria segna la storia umana. Alcuni racconti biblici sono emblematici. L’invidia, potremmo dire, dopo aver preso possesso dell’animo umano, si mette subito all’opera. Ed ecco Caino che prova invidia per Abele, suo fratello, sino ad ucciderlo. Nella sua forza archetipica, il peccato di Caino è denso di implicazioni simboliche. Egli non era cattivo, ma l’invidia verso il fratello lo acceca. Caino non sopporta che Dio ami Abele in maniera particolare. Abele non era migliore di Caino, ma più debole (abel significa soffio, debolezza), per questo Dio gli era più vicino. Caino è accecato dall’invidia e giunge sino al fratricidio. L’invidia danneggia chi ne è posseduto e colui verso il quale si dirige.
Per questo Gesù svela la crudeltà insita nei vizi e chiama i discepoli all’altezza dell’amore. «Avete inteso che fu detto agli antichi: non ucciderai… ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello dovrà essere posto a giudizio» (Mt 5, 21), dice Gesù ai discepoli. E’ la misura alta della perfezione del cuore e dei suoi sentimenti. Il Nuovo Testamento non può non condannare senza appello l’invidia, appunto perché tradisce il precetto dell’amore, inquina e lede il rapporto con l’altro. Gesù stesso cadde vittima dell’invidia dei sommi sacerdoti quando lo consegnarono a Pilato, preferendogli Barabba, e ne invocarono la crocifissione. L’astio e il risentimento verso Gesù diventarono accecanti e ossessivi. «Crocifiggilo!», gridavano tutti a Pilato. Eppure Pilato «sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia» anche se continuava a chiedere quali fossero le colpe di Gesù (Mc 15,10; Mt 27,18). Ma l’invidia non sente ragioni e “mette in croce” l’unico giusto. L’invidia, infatti, disgrega la convivenza pacifica e uccide l’amore. Essa può nutrirsi solo della distruzione dell’altro e può unire in maniera perversa, come avvenne appunto sotto la croce. Ma l’amore risorge e vince le forze del male e con esse l’invidia. Il Vangelo non lascia dubbi su ciò che può sconfiggere la discordia, il conflitto e la malevolenza: l’amore gratuito di Dio. È questo amore, caritatevole, generoso, appassionato, gratuito, senza limiti, l’unico che ha il potere di rompere la logica delle passioni e la forza dei vizi capitali. A questo fece appello il cristianesimo delle origini, che, attraverso gli Atti degli Apostoli, appare quanto mai consapevole delle minacce di disgregazione che insidiano la neonata comunità cristiana. L’invidia è sempre presente negli elenchi dei vizi da cui Paolo nelle sue Lettere mette ripetutamente in guardia i fratelli, per scongiurarne divisioni e rivalità e proteggere quindi la concordia che è il fondamento stesso della vita della comunità cristiana. Solo l’amore, come canta il celebre inno alla carità nella Prima Lettera ai Corinzi (13, 4), può opporsi alle passioni distruttive e garantire la concordia unendo tutti in un corpo unanime: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si compiace della verità».
La preoccupazione di Paolo permane nei Padri della Chiesa, tanto che, ispirandosi al messaggio paolino, nel III secolo d.C., Cipriano dedica un vero e proprio trattato, De zelo et livore, ai mali dell’invidia, riconducendone l’origine all’opera del diavolo e indicando nell’umiltà («gli ultimi saranno i primi») la risposta all’orgoglio e alla superbia da cui l’invidia scaturisce. Con l’amore si tolgono i pungiglioni ai vizi capitali i quali, essendo appunto capitali, ossia “in capite”, se non bloccati distruggono sia chi li lascia liberi di agire sia chi ne è oggetto. I vizi capitali sono sette – un numero pieno di simbolismo – ed anche coesi e prolifici. Gregorio Magno, tra i primi nella letteratura cristiana a parlarne in maniera sistematica, scrive: «i vizi capitali sono così connessi tra loro che nascono l’uno dall’altro. Infatti, la prima figlia della superbia è la vanagloria, che non appena ha corrotto un’anima, subito partorisce l’invidia: poiché nel desiderare la potenza di un gran nome, si duole al pensiero che un altro possa raggiungerla». Questo grande papa mette subito in guardia dalla superbia, dall’orgoglio, da cui nascono numerosi figli dei quali il primo è l’invidia. Quest’ultima, a sua volta, è molto prolifica. Gregorio ne traccia un elenco: la mormorazione, la detrazione, la distruzione dell’altro, il risentimento, la gioia per la loro rovina, l’odio per loro sino all’omicidio. Come si può dedurre, l’invidia – ed è così anche per gli altri vizi capitali – non è rinchiusa in se stessa e neppure resta circoscritta nel recinto del cuore dell’uomo. Non è un vizio passivo. Al contrario, è una passione che avvelena sé e gli altri. Si potrebbe dire che diventa anche un “vizio sociale” perché con la sua forza avvelenata corrode in profondità i rapporti tra gli uomini sino a scardinare la stessa convivenza.
Gli avvertimenti di Gregorio Magno andrebbero meditati con attenzione anche oggi. E particolare attenzione va posta all’invidia perché è una passione umbratile, segreta, involuta, nascosta. Essa sembra sottrarsi più di tutti gli altri vizi al precetto pastorale di parlare del peccato, di denunciare il male, di far luce sulla colpa. È vero che è un “tarlo dell’anima”, come diceva san Cipriano, che porta l’invidioso a tormentarsi e a soffrire. Ma questo fa parte della banalità e della stupidità del male. L’invidioso in effetti è un superbo frustrato, offuscato nel proprio giudizio da uno smisurato amore di sé che gli fa vedere un bene (quello dell’altro) come un male (per sé), poiché questo lo ferisce nella sua brama di gloria e di riconoscimento. Si può comprendere chi vuole compiere un gesto emulativo teso a conquistare un bene che altri possiedono; e ancor più chi s’indigna di fronte al possesso immeritato di un bene. Ma non può esserci indulgenza per l’invidia che anela solo ad affermare la propria superiorità sull’altro e che per questo mette in atto una sorta di per¬versione del proprio giudizio. È un vizio da combattere con decisione.
Se è vero che tutti i vizi capitali sono anche “sociali”, ossia hanno un riflesso sulla vita associata, l’invidia vanta il primato negativo per lo sgretolamento e la dissoluzione dei rapporti umani. Essa infatti alimenta quel clima di reciproca diffidenza che sfocia nel proliferare di lotte e conflitti tra individui e fazioni, e mina alla radice ogni sentimento di solidarietà. Tutto ciò è rilevabile in ogni epoca della storia, ma in questo tempo, ossia in un contesto sociale ove l’individualismo sembra approfondirsi e allargarsi, l’invidia pone un’accelerazione pericolosissima allo sgretolamento della società. Gli uomini e le donne sono certamente oggi più libere ma tutti comunque più soli. L’io sta soppiantando sempre più il noi. In tale contesto il confronto diventa più facile, ma anche più lacerante e più frustrante. Insomma, l’invidia, oggi, è una passione che ha la strada in discesa. E forse proprio per questo è ancora più triste. Qualcuno, non a caso, parla dei nostri tempi come de L’epoca delle passioni tristi.
Come combattere questa passione triste? Come può sconfiggerla chi ne è schiavo? E come deve fronteggiarla chi è invidiato? Chi ha paura di essere oggetto di sguardi malevoli? Chi teme il “malocchio”? Molti autori si sono dilungati sul modo di sconfiggere i vizi e, in questo caso, l’invidia. Vari intellettuali, nel corso dei secoli, hanno affrontato tale questione. Ci sono coloro che suggeriscono di trasformare l’invidia in un atteggiamento di competizione, oppure in uno sforzo di emulazione o anche nell’impegno a vivere con autenticità la propria esistenza. A mio avviso – pur considerando valido tutto ciò – la via maestra è una sola, quella dell’amore.
Certo, parlo dell’amore evangelico, quello di Gesù, un amore del tutto straordinario. Quello che spinse gli autori del Nuovo Testamento, quando dovettero parlarne, a scegliere un termine nuovo, agape, una parola praticamente non usata dalla cultura greca che preferiva eros e philia. Con il termine agape gli autori del Nuovo Testamento introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philìa), ma un amore, appena concepibile dagli uomini, che trova appunto il suo modello culminante in Gesù: un amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. È solo con questo amore – e ne basta anche una sola goccia – che si può sconfiggere l’invidia. E tutto questo può accadere nel cuore degli uomini. Anzi, è nel cuore degli uomini che si gioca il destino dell’umanità anche in questo inizio di millennio. Un caro amico amava ripetere che per sconfiggere in sé e negli altri l’invidia, la via più efficace è pregare per coloro che ti invidiano. È la via alta dell’amore. E si gioca tutta nel cuore. Aveva ragione quel sapiente ebreo che affermava: «Se vuoi cambiare il mondo, inizia a cambiare il tuo cuore».
Bene hanno fatto gli organizzatori a mettere a tema i “vizi capitali”. Bene facciamo noi a riflettere su di essi. L’augurio è quello di svuotare almeno un poco i cuori – a partire da quello di ciascuno di noi - da queste passioni malvage e, in particolare, dall’invidia che avvelena i cuori e distrugge la convivenza. Ma l’amore è più forte.
«Avvenire» del 1 luglio 2012
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