La teoria era colpevole quanto la pratica Anche se gli storici stentano ad ammetterlo
di Giampietro Berti
La storia del comunismo ha segnato in modo indelebile il XX secolo, fondendosi con il suo svolgimento generale. Tuttavia le sue vicende costituiscono anche un universo a parte, che può essere studiato qualora si parta dalla premessa che non esiste alcuna discontinuità effettiva fra i suoi presupposti dottrinari e i suoi sviluppi reali. La capacità di leggere la continuità fra la teoria e i suoi esiti pratici rappresenta il vero banco di prova della comprensione autentica del comunismo. Ed è su questo arduo terreno interpretativo, volto a una ricostruzione storiografica complessiva, che si cimenta ora uno dei massimi studiosi italiani ed europei della dottrina e della storia comunista, Vittorio Strada, in Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo (Rubbettino, pagg. 410, euro 20).
Strada ripercorre il cammino tragico che va dalla Rivoluzione d’Ottobre alla nascita della Russia odierna. La sua attenzione, però, non è rivolta alla storia generale dell’Unione Sovietica, ma alle due maggiori figure che l’hanno determinata: Lenin e Stalin. Esse vengono esaminate con lo scopo di capire in quale modo, attraverso la loro azione, il comunismo si è storicamente determinato. Segue lo studio del loro culto da parte del movimento comunista internazionale, poi lo sguardo si allarga ai rapporti tra il potere sovietico e il comunismo europeo e italiano. Lo studioso parla giustamente di stalinismo ed eurostalinismo, e a questo proposito inserisce anche pensatori e militanti come Lukács e Gramsci, dato che essi altro non sono stati che varianti particolari del totalitarismo rosso, come, del resto, lo è stato anche il maggior avversario di Stalin, Trotskij. Il passaggio dalla Russia sovietica alla Russia nazionale di Putin, rappresentato dal tentativo tutt’ora in corso di dar vita a una nuova identità politica e culturale, risente di tutto il passato, con la conseguenza che questa ricerca è gravata dal retaggio ideologico precedente. L’opera si conclude con una disamina sul carattere «teologico» del marxismo, dato che questo non è né vera scienza, né vera fede (acute pagine sono dedicate a Zdanov e alla bufala della «scienza proletaria»).
Lo studioso ci dimostra che Stalin rimanda a Lenin e Lenin rimanda a Marx, per cui, per converso, il marxismo spiega il leninismo, il leninismo spiega lo stalinismo. Non solo. La stessa destalinizzazione attuata da Chrušcëv fu posta in essere con metodi stalinisti, anche se ciò avvenne senza spargimenti di sangue. Con largo spargimento di sangue, invece, si verificò un altro momento stalinista del processo di destalinizzazione: la rivolta ungherese del 1956. Strada delinea un’interpretazione del comunismo che è l’esatto opposto del truffaldino paradigma della degenerazione storica messo in atto dai «furbetti del quartierino» della storiografia comunista, per i quali l’input originario avrebbe subito la metamorfosi deteriorante del Gulag. Stiamo alludendo, naturalmente, alla curiale, bizantinissima e incredibile teoria dello scarto fra teoria e pratica, escamotage ermeneutico utilizzato per decenni dalla cultura marxista, e più in generale di sinistra, che ha sempre espunto la spiegazione razionale del rapporto consequenziario tra mezzi e fini. Vien da chiedersi: se si pone in atto la dittatura - come è stato fatto ovunque dal comunismo - come sarà mai possibile ottenere la democrazia?
Sempre con il metodo di un’interpretazione complessiva della storia comunista, Strada documenta l’inconsistenza teorica del diverso trattamento che il «politicamente corretto» ha riservato ai totalitarismi del Novecento. Anche qui vien da domandarsi: per quale misterioso motivo quando si tratta di valutare il comunismo, ci troviamo di fronte alla distinzione tra comunismo e stalinismo, per cui si ha la triplice definizione-comparazione di fascismo, nazismo e stalinismo? Perché il fascismo e il nazismo vengono presi e giudicati «in blocco», mentre il comunismo viene distinto dalla sua esperienza dittatoriale? Perché si parla di socialismo ideale e di socialismo reale? È ovvio: si vuole dire che il comunismo è una cosa e lo stalinismo un’altra, che il comunismo è buono, mentre lo stalinismo è cattivo, onde giungere a un risultato speculativo in grado di spostare il giudizio di valore dalla natura del comunismo all’effettività espressa dal suo concreto operare.
Strada sembra far propria l’osservazione di Hegel, secondo cui il vero «è il divenire di se stesso»: il futuro è l’insieme continuo del presente. Ciò vale, naturalmente, anche per l’idea comunista e tutto ciò che da essa ne è seguito. Il che vuol dire, aggiungiamo noi, che il suo fallimento era già inscritto nel Dna della dottrina: il comunismo è, in sé, fallimentare (ricordiamo che in Russia, e in tutto l’Est europeo, la sua dissoluzione non è avvenuta per qualche azione esterna). Il comunismo è imploso, autodistruggendosi, per cause endogene.
Strada ripercorre il cammino tragico che va dalla Rivoluzione d’Ottobre alla nascita della Russia odierna. La sua attenzione, però, non è rivolta alla storia generale dell’Unione Sovietica, ma alle due maggiori figure che l’hanno determinata: Lenin e Stalin. Esse vengono esaminate con lo scopo di capire in quale modo, attraverso la loro azione, il comunismo si è storicamente determinato. Segue lo studio del loro culto da parte del movimento comunista internazionale, poi lo sguardo si allarga ai rapporti tra il potere sovietico e il comunismo europeo e italiano. Lo studioso parla giustamente di stalinismo ed eurostalinismo, e a questo proposito inserisce anche pensatori e militanti come Lukács e Gramsci, dato che essi altro non sono stati che varianti particolari del totalitarismo rosso, come, del resto, lo è stato anche il maggior avversario di Stalin, Trotskij. Il passaggio dalla Russia sovietica alla Russia nazionale di Putin, rappresentato dal tentativo tutt’ora in corso di dar vita a una nuova identità politica e culturale, risente di tutto il passato, con la conseguenza che questa ricerca è gravata dal retaggio ideologico precedente. L’opera si conclude con una disamina sul carattere «teologico» del marxismo, dato che questo non è né vera scienza, né vera fede (acute pagine sono dedicate a Zdanov e alla bufala della «scienza proletaria»).
Lo studioso ci dimostra che Stalin rimanda a Lenin e Lenin rimanda a Marx, per cui, per converso, il marxismo spiega il leninismo, il leninismo spiega lo stalinismo. Non solo. La stessa destalinizzazione attuata da Chrušcëv fu posta in essere con metodi stalinisti, anche se ciò avvenne senza spargimenti di sangue. Con largo spargimento di sangue, invece, si verificò un altro momento stalinista del processo di destalinizzazione: la rivolta ungherese del 1956. Strada delinea un’interpretazione del comunismo che è l’esatto opposto del truffaldino paradigma della degenerazione storica messo in atto dai «furbetti del quartierino» della storiografia comunista, per i quali l’input originario avrebbe subito la metamorfosi deteriorante del Gulag. Stiamo alludendo, naturalmente, alla curiale, bizantinissima e incredibile teoria dello scarto fra teoria e pratica, escamotage ermeneutico utilizzato per decenni dalla cultura marxista, e più in generale di sinistra, che ha sempre espunto la spiegazione razionale del rapporto consequenziario tra mezzi e fini. Vien da chiedersi: se si pone in atto la dittatura - come è stato fatto ovunque dal comunismo - come sarà mai possibile ottenere la democrazia?
Sempre con il metodo di un’interpretazione complessiva della storia comunista, Strada documenta l’inconsistenza teorica del diverso trattamento che il «politicamente corretto» ha riservato ai totalitarismi del Novecento. Anche qui vien da domandarsi: per quale misterioso motivo quando si tratta di valutare il comunismo, ci troviamo di fronte alla distinzione tra comunismo e stalinismo, per cui si ha la triplice definizione-comparazione di fascismo, nazismo e stalinismo? Perché il fascismo e il nazismo vengono presi e giudicati «in blocco», mentre il comunismo viene distinto dalla sua esperienza dittatoriale? Perché si parla di socialismo ideale e di socialismo reale? È ovvio: si vuole dire che il comunismo è una cosa e lo stalinismo un’altra, che il comunismo è buono, mentre lo stalinismo è cattivo, onde giungere a un risultato speculativo in grado di spostare il giudizio di valore dalla natura del comunismo all’effettività espressa dal suo concreto operare.
Strada sembra far propria l’osservazione di Hegel, secondo cui il vero «è il divenire di se stesso»: il futuro è l’insieme continuo del presente. Ciò vale, naturalmente, anche per l’idea comunista e tutto ciò che da essa ne è seguito. Il che vuol dire, aggiungiamo noi, che il suo fallimento era già inscritto nel Dna della dottrina: il comunismo è, in sé, fallimentare (ricordiamo che in Russia, e in tutto l’Est europeo, la sua dissoluzione non è avvenuta per qualche azione esterna). Il comunismo è imploso, autodistruggendosi, per cause endogene.
«Il Giornale» del 29 agosto 2011
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