01 agosto 2011

Ma i grandi autori sono sempre innovatori

A proposito dell'articolo di Cesare Segre sulla linea critica che accomuna Bachtin e Gianfranco Contini
di Angelo Guglielmi
Caro Segre, ho letto con interesse il suo articolo di lunedì sulle due linee che il romanzo europeo avrebbe nel corso della sua storia seguito: la linea del romanzo d'intreccio e monolinguistico e l'altra «che punta sulla pluralità di voci e di lingue dei personaggi (plurilinguistico)» e «sull'accostamento di prospettive diverse». Campioni della teorizzazione delle due linee sono in Italia Gianfranco Contini e nella Russia degli anni trenta Bachtin. Come non essere d'accordo. Rimane che se è facile dare nomi (fornire esempi per) la linea plurilinguistica (da Rabelais a Cervantes a Gadda - giusto il titolo del suo articolo) più difficile è fare la stessa cosa per la linea monolinguistica. È che il monolinguismo (o qualcosa che ad esso si riferisce) nella storia del romanzo europeo è stato la scelta vincente facendo prevalere per tutti i secoli passati l'opera «concentrata - come lei scrive - sulla narrazione e i personaggi». Fielding, Dickens, Stevenson, Stendhal, Manzoni, Balzac, Tolstoj appartengono alla linea monolinguistica? Certamente sì, ma forse no giacché nelle loro opere in cui domina e fa da padrone l'intreccio vi sono una infinità di elementi disturbanti, diciamo sporchi propri del romanzo plurilinguistico. E allora perché soltanto da qualche decennio o più precisamente a partire dalla seconda metà del Novecento (secolo al quale ancora apparteniamo) due straordinari critici e analisti letterari hanno sentito il bisogno di distinguere le due linee impegnandosi soprattutto nel definire con lucida ricchezza di notazioni la seconda delle due opzioni marcata dal plurilinguismo? La sua risposta è che i due studiosi sedotti dalla loro intuizione o comunque piegati dai loro gusti personali hanno voluto affermare una idea di continuità nel senso di attribuire al plurilinguismo un percorso più coerente e costante tale da meglio riconoscere anche in termini di valore il tragitto secolare della narrativa europea. E a riprova di questa interpretazione ci ricorda che Contini parla di una funzione Gadda che opererebbe non solo «sui testi successivi (alla Cognizione del dolore), ma anche precedenti, risalendo fino al duecento». Ma non è forse più vero azzardare che piuttosto che una continuità Contini abbia voluto sottolineare una necessità? Cioè abbia voluto affermare che oggi e oramai da più di un secolo in un tempo in cui come scriveva Benjamin si è smarrita l'esperienza (abbiamo perduto il contatto con la realtà) il narratore se vuole garantire un senso non scontato alla sua opera è costretto a farsi innovatore avventurandosi in esperimenti tra strutturali e linguistici che spingono il suo prodotto verso il plurilinguismo e comunque l'ambito espressionistico? E si può contestare che gli unici grandi o comunque autentici narratori moderni (e ancora contemporanei) sono Joyce e Céline, Pirandello e Svevo, Longhi e Gadda, Musil e Broch, Beckett e Arbasino, Grass e Calvino? I seguaci del romanzo ben fatto e povero di lingua (dunque monolinguistico) pur non escludendo risultati rispettabili hanno rinunciato alla possibilità di poter dare un sapore (se pur aspro) di realtà alle loro opere.

Cesare Segre risponde a quest'articolo.
«Corriere della Sera» del 6 luglio 2011

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