Zero Ici e libertà di licenziare. Le organizzazioni dei lavoratori godono di una vasta protezione all'interno del Parlamento. E lo stato non può chiedergli un euro
di Stefano Zurlo
Le tre grandi sigle Cgil, Cisl e Uil operano in regime di oligopolio nel business Non vogliono fare sacrifici e incrociano persino le braccia contro la manovra. Nel 2011 il ministero ha stanziato 287,5 milioni a favore dei patronati. Alla rivoluzione. il sindacato dei metalmeccanici si mette in luce per le posizioni oltranziste nella contrattazione, come è avvenuto sulla vicenda Fiat. E la Cgil teme sempre di essere scavalcata a sinistra
Con leggi e leggine si sono ritagliati privilegi su privilegi. Una norma qui, un articolo là e tutto s’incastra al punto giusto. I sindacati dovrebbero tutelare i lavoratori, ma in realtà sono, come ha intitolato un suo libro il giornalista dell’ Espresso Stefano Livadiotti, l’altra casta. Una nomenklatura che spesso si sovrappone e si confonde con quella ospitata sui banchi di Palazzo Madama e Montecitorio. Nella scorsa legislatura 53 deputati e 27 senatori, per un totale di 80 parlamentari, provenivano dalla Triplice. Secondo Livadiotti costituiscono il terzo gruppo parlamentare, insomma formano una lobby agguerrita quanto se non più di quella degli avvocati. E nel tempo hanno strutturato un sistema di potere studiato fin nei dettagli.Non che non abbiano meriti storici importantissimi nell’affrancamento di milioni di italiani, ma col tempo i sindacati hanno cambiato pelle. E anima. Basti dire che i rappresentanti dei lavoratori hanno un patrimonio immobiliare immenso, ma non pagano un euro di Ici. Si fa un gran parlare di questi tempi delle sanzioni di cui gode la Chiesa cattolica ma i sindacati non versano un centesimo. Altro che santa evasione. Il lucchetto è stato fabbricato col decreto legislativo numero 504 del 30 dicembre 1992, in pieno governo Amato. Con quella trovata, i beni sono stati messi in sicurezza: lo Stato non può chiedere un centesimo. Peccato, perché non si tratterebbe di spiccioli. Per capirci la Cgil dice di avere 3mila sedi in giro per l’Italia. È una sorta di autocertificazione perché, altra prerogativa ad personam , i sindacati non sono tenuti a presentare i loro bilanci consolidati. Sfuggono ad un’accurata radiografia e non offrono trasparenza, una merce che invece richiedono puntigliosamente agli imprenditori. Dunque, la Cgil dispone di un albero con 3mila foglie ma la Cisl fa anche meglio: 5mila sedi. Uno sproposito. E la Uil, per quel che se ne sa, ha concentrato le sue proprietà nella pancia di una spa, la Labour Uil, che possiede immobili per 35 milioni di euro. Lo Stato che passa al pettine le ricchezze dei contribuenti non osa avvicinarsi a questi beni. Il motivo? La legge equipara i sindacati, e in verità pure i partiti, alle Onlus, le organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Dunque la Triplice sta sullo stesso piano degli enti che raccolgono fondi contro questa o quella malattia e s’impegnano per qualche nobile causa sociale. Insomma, niente tasse e mappe sfuocate perché in questa materia gli obblighi non esistono. E però lo Stato ha alzato un altro ponte levatoio collegando il passato al presente con un balzo vertiginoso. Risultato: le principali sigle hanno ereditato le sedi dei sindacati di epoca fascista. Gli immobili del Ventennio sono stati assegnati a Cgil, Cisl Uil, Cisnal (l’attuale Ugl) e Cida (Confederazione dei dirigenti d’azienda). Senza tasse, va da sé, come indica un’altra norma: la 902 del 1977. Leggi e leggine. Così un testo ad hoc , questa volta del 1991, permette alle associazioni riconosciute dal Cnel di poter creare i centri di assistenza fiscale. I mitici Caf. Qui i lavoratori ricevono assistenza prima di compilare la dichiarazione dei redditi. Attenzione: la consulenza è gratuita perché, ancora una volta, è lo Stato a metterci la faccia e ad allungare la mano. Per ogni pratica compilata lo Stato versa un compenso. È un business che vale (secondo dati del 2007) 330 milioni di euro. Soldi e un trattamento di lusso. Altro capitolo, altro scivolo, altro privilegio: quello dei patronati. Ogni sindacato ha il suo. Il motivo? Tutelare i cittadini nel rapporto con gli enti previdenziali. Come i Caf, ma sul versante pensionati. Questa volta la legge è la 152 del 2001. Lo Stato assegna ai patronati lo 0,226 dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, dall’Inpdap e dall’Inail. Altri trecento e passa milioni che servono per far cassa. E per tenere in piedi la baracca. Le stime, in assenza di bilanci, sono approssimative ma i sindacati mantengono un apparato di prima grandezza e hanno circa 20mila dipendenti. Sono i numeri di una multinazionale che però si comporta come un’aziendina con meno di 15 dipendenti. Altrove, vedi lo Statuto dei lavoratori, le tute blu sono tutelate tant’è che Berlusconi a suo tempo aveva provato, invano, ad aprire una breccia proponendo la cancellazione dell’articolo 18. Ma dalle parti della Triplice valgono altre regole, diciamo così, più liberal o, se si vuole, meno restrittive. Un’altra leggina, questa volta del 1990, offre a Cgil, Cisl, Uil la possibilità di mandare a casa i dipendenti senza tante questioni. Insomma, è la libertà di licenziamento. Una bestemmia per generazioni di «difensori» degli operai, dei contadini e degli impiegati. Ma non nel sancta sanctorum dei diritti. Due pesi e due misure. Come sempre. O almeno spesso. Per non smarrire le ragioni degli ultimi si sono trasformati nei primi. Creando appunto un’altra casta. Ora, la Cgil di Susanna Camusso proclama lo sciopero generale per il 6 settembre e chiama a raccolta milioni di uomini e donne. Un appello, legittimo, ci mancherebbe. Ma per una volta i sindacati farebbero bene a guardarsi allo specchio. Forse, qualcuno non si riconoscerebbe più.
«Il Giornale» del 27 agosto 2011
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