Ci sono lettori che non sanno distinguere tra finzione e realtà: prendono sul serio la storia, non cercano di trarne insegnamenti e non si identificano nei personaggi. E sono più di quanti pensiamo
di Umberto Eco
Ricordavo nella precedente "bustina di minerva" che moltissimi lettori provano difficoltà a distinguere, in un romanzo, la realtà dalla finzione, e tendono ad attribuire all'autore passioni o pensieri dei suoi personaggi. A conferma, trovo ora in Internet un sito che registra pensieri di vari autori, e tra le "frasi di Umberto Eco" trovo questa: "L'italiano è infido, bugiardo, vile, traditore, si trova più a suo agio col pugnale che con la spada, meglio col veleno che col farmaco, viscido nella trattativa, coerente solo nel cambiar bandiera a ogni vento". Non è che non ci sia qualcosa di vero, ma si tratta di un luogo comune secolare messo in giro da autori stranieri, e nel mio romanzo "Il cimitero di Praga" questa frase la scrive un signore che nelle pagine precedenti ha manifestato pulsioni razziste a 360 gradi usando i cliché più frusti. Cercherò di non mettere mai in scena personaggi banali, altrimenti un giorno mi verranno attribuiti filosofemi come "di mamma ce n'è una sola".
Ora leggo l'ultimo "Vetro soffiato" di Eugenio Scalfari, che riprende la mia Bustina precedente e solleva un nuovo problema. Scalfari consente al fatto che ci siano persone che scambiano la finzione narrativa per la realtà, ma ritiene (e ritiene giustamente che io ritenga) che la finzione narrativa può essere più vera del vero, ispirare identificazioni, percezione di fenomeni storici, creare nuovi modi di sentire, eccetera. E figuriamoci se non si può essere d'accordo con questa opinione.
Non solo, la finzione narrativa consente anche esiti estetici: un lettore può benissimo sapere che madame Bovary non è mai esistita e tuttavia godere del modo con cui Flaubert costruisce il suo personaggio. Ma ecco che proprio la dimensione estetica ci riporta per opposto alla dimensione "aletica" (che cioè ha a che fare con quella nozione di verità condivisa dai logici, dagli scienziati o dai giudici che in tribunale debbono decidere se un testimone ha detto o meno come sono andate le cose). Sono due dimensioni diverse, guai se un giudice si commuovesse perché un colpevole racconta esteticamente bene le sue bugie; e io mi stavo occupando della dimensione aletica, tanto è vero che la mia riflessione era nata all'interno di un discorso sul falso e la bugia. E' falso dire che una lozione di Vanna Marchi fa ricrescere i capelli? E' falso. E' falso dire che don Abbondio incontra due bravi? Dal punto di vista aletico sì, ma il narratore non vuole dirci che quanto racconta sia vero bensì finge che sia vero e chiede anche a noi di far finta. Ci chiede, come raccomandava Coleridge, di "sospendere l'incredulità".
Scalfari cita il "Werther" e noi sappiamo quanti giovani e giovinette romantici si siano uccisi identificandosi col protagonista. Forse credevano che la storia fosse vera? Non è necessario, così come noi sappiamo che Emma Bovary non è mai esistita eppure ci commoviamo sino alle lacrime sulla sua sorte. Si riconosce che una finzione è una finzione eppure ci s'immedesima a fondo nel personaggio.
E' che intuiamo che se madame Bovary non è mai esistita, sono esistite tante donne come lei, e un poco come lei siamo forse anche noi, e si ricava una lezione sulla vita in genere e su noi stessi. I greci antichi credevano che le cose accadute a Edipo fossero vere e ne traevano occasione per riflettere sul fato. Freud sapeva benissimo che Edipo non era mai esistito, ma ne leggeva la vicenda come lezione profonda su come vadano le cose dell'inconscio.
Che cosa accade invece ai lettori di cui parlavo io, quelli che non sanno assolutamente distinguere tra finzione e realtà? La loro situazione non ha valenze estetiche, perché sono talmente preoccupati a prendere sul serio la storia che non si chiedono se sia raccontata bene o male; non cercano di trarne insegnamenti; non si identificano affatto nei personaggi. Semplicemente manifestano quello che definirei un deficit finzionale, sono incapaci di "sospendere la credulità". Siccome questi lettori sono più di quanti pensiamo, vale la pena di occuparsene proprio perché sappiamo che tutte le altre questioni estetiche e morali a loro sfuggono.
Ora leggo l'ultimo "Vetro soffiato" di Eugenio Scalfari, che riprende la mia Bustina precedente e solleva un nuovo problema. Scalfari consente al fatto che ci siano persone che scambiano la finzione narrativa per la realtà, ma ritiene (e ritiene giustamente che io ritenga) che la finzione narrativa può essere più vera del vero, ispirare identificazioni, percezione di fenomeni storici, creare nuovi modi di sentire, eccetera. E figuriamoci se non si può essere d'accordo con questa opinione.
Non solo, la finzione narrativa consente anche esiti estetici: un lettore può benissimo sapere che madame Bovary non è mai esistita e tuttavia godere del modo con cui Flaubert costruisce il suo personaggio. Ma ecco che proprio la dimensione estetica ci riporta per opposto alla dimensione "aletica" (che cioè ha a che fare con quella nozione di verità condivisa dai logici, dagli scienziati o dai giudici che in tribunale debbono decidere se un testimone ha detto o meno come sono andate le cose). Sono due dimensioni diverse, guai se un giudice si commuovesse perché un colpevole racconta esteticamente bene le sue bugie; e io mi stavo occupando della dimensione aletica, tanto è vero che la mia riflessione era nata all'interno di un discorso sul falso e la bugia. E' falso dire che una lozione di Vanna Marchi fa ricrescere i capelli? E' falso. E' falso dire che don Abbondio incontra due bravi? Dal punto di vista aletico sì, ma il narratore non vuole dirci che quanto racconta sia vero bensì finge che sia vero e chiede anche a noi di far finta. Ci chiede, come raccomandava Coleridge, di "sospendere l'incredulità".
Scalfari cita il "Werther" e noi sappiamo quanti giovani e giovinette romantici si siano uccisi identificandosi col protagonista. Forse credevano che la storia fosse vera? Non è necessario, così come noi sappiamo che Emma Bovary non è mai esistita eppure ci commoviamo sino alle lacrime sulla sua sorte. Si riconosce che una finzione è una finzione eppure ci s'immedesima a fondo nel personaggio.
E' che intuiamo che se madame Bovary non è mai esistita, sono esistite tante donne come lei, e un poco come lei siamo forse anche noi, e si ricava una lezione sulla vita in genere e su noi stessi. I greci antichi credevano che le cose accadute a Edipo fossero vere e ne traevano occasione per riflettere sul fato. Freud sapeva benissimo che Edipo non era mai esistito, ma ne leggeva la vicenda come lezione profonda su come vadano le cose dell'inconscio.
Che cosa accade invece ai lettori di cui parlavo io, quelli che non sanno assolutamente distinguere tra finzione e realtà? La loro situazione non ha valenze estetiche, perché sono talmente preoccupati a prendere sul serio la storia che non si chiedono se sia raccontata bene o male; non cercano di trarne insegnamenti; non si identificano affatto nei personaggi. Semplicemente manifestano quello che definirei un deficit finzionale, sono incapaci di "sospendere la credulità". Siccome questi lettori sono più di quanti pensiamo, vale la pena di occuparsene proprio perché sappiamo che tutte le altre questioni estetiche e morali a loro sfuggono.
«L'Espresso» del 21 luglio 2011
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