Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007
di Erri De Luca
Già pubblicato sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1992
Quando trovai la fogna fui felice, ma non potei sorridere. Il rischio di troppi giorni mi aveva indurito i nervi. Con il piccone aprii una breccia sulla parte superiore del collettore che avevo raggiunto e respirai quel tanfo come un profumo di vittoria. Non ero impazzito, ero invece in salvo.
Da molti giorni era cominciato lo scavo. Partiva dalla villetta, attraversava un giardino e arrivava sulla strada, intralciandone metà. Là sotto, a una profondità che ignoravamo, avremmo trovato la fogna. Cominciammo in molti, poi, quando lo scavo divenne più profondo di un uomo in piedi, restammo solo in due. Era largo un metro, il minimo per rigirarsi, e nel punto in cui trovai la fogna fu profondo sei. Bisognava collegare un condotto dalla villetta al collettore.
Scavammo in due in quella fossa stretta per diversi giorni, ognuno dei quali era più buio del precedente. Mettevamo lo sterro in recipienti che issavano dall'alto con una carrucola. Entravamo all'alba, uscivamo, salvo la pausa di mezzogiorno, alle cinque. Anche chi non è del mestiere sa che una fossa del genere va rinforzata alle due pareti con travi verticali bloccate da puntelli a contrasto. Altrimenti è possibile che crolli. Il capomastro non volle provvedere. Perciò scavammo in due, faccia a faccia, sapendo in che diavolo di trappola eravamo finiti. Chi eravamo e perché accettavamo quel rischio?
Uno era un algerino di quarant'anni, uomo sobrio di poche parole. Era l'ultimo assunto in cantiere e non poteva rifiutarsi, lo sapeva: lo avrebbero messo alla porta. Che avesse bisogno di quel lavoro non occorre dirlo: era arrivato da poco a Parigi, parlava poche parole di francese, era il suo primo lavoro in terra di Francia. L'altro ero io, trentaduenne manovale italiano, assunto già da diversi mesi e mal tollerato dal capomastro francese. Al mattino ero tra i primi, ma anche a sera: ero il primo a staccare alle cinque. Non suonava una sirena, ognuno doveva regolarsi da sé e questo faceva in modo che nessun operaio smettesse in orario, temendo di mostrarsi poco attaccato al lavoro. Perciò ognuno di loro finiva per regalare del tempo non retribuito a un datore di lavoro esperto in vari trucchi del genere. Io staccavo alle cinque in punto e poi non volevo fare gli straordinari nei giorni non lavorativi. Questo andava di traverso alla comodità di disporre con elasticità della manodopera. Non ero elastico, anzi ero piuttosto rigido, indurito nei muscoli e nel sonno. Mi erano perciò volentieri assegnati i lavori più faticosi, i più sporchi. Ero l'unico di pelle bianca a farli.
All'ora di mensa tra brodaglie assortite con spezie violente si chiacchierava nel rozzo francese comune, poi ognuno tornava ai suoi pensieri in linguamadre. Mi chiamavano Italia, ma non mi sentivo membro di una nazione, non difendevo i colori di una maglia o di una pelle, nemmeno la mia. Accettavo il soprannome, l'Italia lavorava sodo e non toglieva il posto a nessuno, pérché nessuno voleva il suo posto. Avevo bisogno di quel lavoro, lo avevo trovato a stento dopo aver battuto per settimane la periferia di Parigi. Lo avevo ottenuto, volevo tenermelo, malgrado tutti i dannati capimastri. Se voleva un pretesto per sbattermi fuori non glielo avrei dato, sarei sceso in gola all'inferno, ma non mi sarei tirato indietro.
Ecco perché in quei giorni due uomini che non si conoscevano e nemmeno sapevano chiamarsi per nome, stettero faccia a faccia in una fossa rischiando la pelle in cerca di una fogna. Ogni metro di quel buco stringeva il cielo a una striscia larga quanto il cunicolo in cui stavamo. Ogni metro di quel buco poteva crollarci addosso e tenerci sotto il tempo utile a essere sepolti vivi.
Gli altri operai al mattino non ci dicevano più niente, tiravano via zitti al loro lavoro. A mezzogiorno qualcuno ci offriva da bere. Rifiutavo, mi era cresciuta in quei giorni una collera sorda contro tutti, una furia sottopelle che mi faceva sopportare le ore là sotto. Quanto durò? Nemmeno molto, una dozzina di giorni. Alla fine della prima settimana l'uomo che avevo di fronte cominciò a non poterne più. Nel buio rischiarato dalla lampada, là sotto era nero anche a mezzogiorno, c'erano quegli occhi scuri tondi, spalancati, la faccia che grondava, l'invocazione ormai automatica che riesco ancora a sentire se mi tappo le orecchie: "Trouvé? Tu l'as trouvé?" voce rauca di uomo che si sente perduto, fiato comune delle trincee di questo secolo. No, non l'ho trovata ancora, ma dev'essere vicina. Fatti sostituire, amico, il capo non ce l'ha con te, tu hai fatto la tua parte. Gli dicevo così, lui allora stava zitto, non parlava più. Aveva chiesto agli altri operai algerini, nessuno voleva scendere lì sotto. Allora gli dicevo che sarebbe crollata di notte quella fossa, mai di giorno che era bene asciutta, di notte invece, con l'umidità. Inventavo spiegazioni, un poco mi credeva, ero istruito. Non sarebbe crollata quella fossa, non aveva varcato il mare per finire sepolto con un napoletano, saremmo invece morti in mare, sui monti, ma non lì. Questo non glielo dicevo, non si deve parlare di morte coi piedi nella fossa. Cercavo di calmargli la paura, ma lo facevo per me perché avevo bisogno di lui, in due avremmo fatto prima. Se fosse scoppiato, se si fosse fatto licenziare avrei dovuto finirlo da solo quello scavo, ci avrei messo di più, avrei rischiato di più. Ma perché un uomo doveva patire in quel modo, perché al mondo un essere umano doveva guadagnarsi il pane per i suoi figli con una corda al collo? Per me era una questione di orgoglio inferocito, ma per lui quello era solo pane e doveva invece bagnarlo di quell'acqua nostra salata che al gusto così tanto somiglia alle lacrime. Allora pensai che non mi era di nessun aiuto, me la sarei cavata meglio da solo là sotto. Così durante l'ora di mensa andai dal capomastro che mi guardò bellicoso, pronto com'era a dirmi che quello era il lavoro e se non lo volevo fare quella era la porta. Glielo avevo già sentito dire ad altri. Davanti agli operai gli dissi che là sotto non ci si rigirava più,, che in due era impossibile continuare e che la fogna era ormai vicina. Gli chiesi di lasciarmi terminare il lavoro da solo. Mise gli occhi nel piatto e fece di sì con la testa.
Così dopo l'ora di mensa entrai da solo nella fossa. Per la prima volta in quei giorni fui calmo, senza quell'uomo là sotto mi sentii sollevato. Non lavoravo più solo di piccone, avevo anche da spalare. Ci avrei messo di più, m non avrei avuto addosso quegli occhi, quel fiato ("Trouvé? Tu l'as trouvé?") e tutta la materia umana che sotto l'infamia gronda di sudore e senza volerlo implora dall'ultimo sconosciuto la salvezza. Ma questo lo intendo adesso che per la prima volta ricordo quei giorni. Allora pensavo soltanto che non avevo. bisogno di lui, che non avevo bisogno di nessuno per trovare quella dannata fogna. Senza la sua pena mi sentivo leggero. Però quel collettore non lo trovavo. Passarono così altri giorni, il cielo dei mattini d'agosto in terra di Francia era splendente. Dal fondo del fosso sembrava un canale. Sudavo poco, faceva fresco là sotto. Qualcuno dall'orlo dello scavo si affacciava ogni tanto chiedendo: "a va?" Rispondevo invariabilmente: "C'est la villégiature". Se in alto sulla strada passava un camion veniva giù terra dai fianchi dello scavo. Era il suo modo di sudare, di tendere i muscoli per non crollare: grondava terra. Sta dalla mia parte, pensavo. A volte un lavoro anche duro non basta a tenere quieta la testa, perciò uno da solo per otto ore al giorno in un fosso finisce per avere un sacco di tempo per inventarsi frottole e favole. Pensavo, lo ammetto, che quel budello avesse un corpo e un'intenzione, per esempio quella affettuosa di non finirmi addosso.
Uno di quei giorni qualcuno per scherzo buttò néllo scavo una rozza croce, due pezzi di legno legati ad angolo retto da una corda. Cadde vicino al piccone. Mi arredano l'ambiente: provai l'impulso di risalire di corsa e dar la caccia a chi voleva giocare con me al becchino. Un morto che risorge croce in pugno e si mette a inseguire il corteo funebre: sicché sorrisi.
Quando affondai il piccone nella terra e il ferro rimbalzò contro la volta del collettore fognario con suono di rimbombo, fui felice. Ma non potei sorridere, i nervi mi legavano stretto i muscoli del viso come lo spago dell'arrosto al forno. Volevo gridare, neanche quello uscì. Con la pala liberai bene il passaggio e con un colpo secco di piccone sfondai la volta sulla quale finalmente poggiavo i piedi. Chissà se qualcuno è stato mai felice di odorare la merda. Io lo fui e anche gonfio di orgoglio feroce di avercela fatta, mischiando così a quell'odore naturale quello innaturale della spazzatura di sentimenti che avevo provato dentro di me in quei giorni. Merda su merda, lì sotto devo essermi sentito in quel momento in pace, anche se non riesco a ricordarlo. Ci dev'essere stato un pareggio tra me e quella fogna, alla prova di chi di noi due fosse più pieno. Non voglio dir male di me: quando si è in un vicolo stretto della propria vita, per cavarsela si bussa a risorse alle quali in quel momento non si chiede da dove provengano. Quei pensieri di orgoglio servivano a tenermi lì sotto senza chiedere scampo. Mi hanno reso un buon servizio, ma erano pensieri di merda. Fui felice di avercela fatta contro quel bestione di capomastro che non avrebbe pagato niente per la morte di un manovale sepolto sotto una galleria crollata.
Venni fuori prima del tempo quel giorno e ognuno mi chiese se l'avevo trovata, temendo che avessi deciso di mollare. Rispondevo portando al naso due dita per tapparlo. È finita la villeggiatura? Erano lieti che ce l'avessi fatta. Ognuno di loro sapeva di aver tollerato la morte possibile di uno di loro senza aver fatto niente per impedirlo. Ma fare qualcosa per me potevano solo rischiando il loro precario posto di lavoro oppure mettendosi al posto mio: non si può chiedere a nessuno di uscire dai ranghi e alzare la voce o la croce. Però gli uomini che apprezzano in un altro uno scatto che essi hanno dovuto reprimere, poi sono amici. Quel giorno alle cinque di sera gli operai staccarono tutti insieme. Alle cinque in punto nessuno era più sul posto di lavoro. Sorrido per simpatia adesso, allora ci badai appena.
Fu necessaria una settimana per l'allaccio. Gli operai specializzati pretesero che tutta la fossa venisse puntellata a regola d'arte. Il capomastro era fuori di sé per la perdita di tempo, mi additava loro per dimostrare che non c'erano rischi, s'azzardò perfino, affannato com'era, a chiedermi in loro presenza se veniva giù terra dalle pareti, sperando in una mia complicità. "Come grandine," fu il mio contributo.
Forse nella vita di ognuno capita un giorno in cui si è felici di odorare la merda. So di essermi comportato male contro la mia vita, di averla giocata per orgoglio, collera e chissà cos'altro sta nel cuore di uno. Anche se poi alla tavola delle molte lingue il mio posto venne tenuto in conto e molti mi invitavano a sedere accanto a loro, vorrei che nessuno più andasse con un piccone a bussare alla propria fossa sperando che non sia ancora pronta.
Da molti giorni era cominciato lo scavo. Partiva dalla villetta, attraversava un giardino e arrivava sulla strada, intralciandone metà. Là sotto, a una profondità che ignoravamo, avremmo trovato la fogna. Cominciammo in molti, poi, quando lo scavo divenne più profondo di un uomo in piedi, restammo solo in due. Era largo un metro, il minimo per rigirarsi, e nel punto in cui trovai la fogna fu profondo sei. Bisognava collegare un condotto dalla villetta al collettore.
Scavammo in due in quella fossa stretta per diversi giorni, ognuno dei quali era più buio del precedente. Mettevamo lo sterro in recipienti che issavano dall'alto con una carrucola. Entravamo all'alba, uscivamo, salvo la pausa di mezzogiorno, alle cinque. Anche chi non è del mestiere sa che una fossa del genere va rinforzata alle due pareti con travi verticali bloccate da puntelli a contrasto. Altrimenti è possibile che crolli. Il capomastro non volle provvedere. Perciò scavammo in due, faccia a faccia, sapendo in che diavolo di trappola eravamo finiti. Chi eravamo e perché accettavamo quel rischio?
Uno era un algerino di quarant'anni, uomo sobrio di poche parole. Era l'ultimo assunto in cantiere e non poteva rifiutarsi, lo sapeva: lo avrebbero messo alla porta. Che avesse bisogno di quel lavoro non occorre dirlo: era arrivato da poco a Parigi, parlava poche parole di francese, era il suo primo lavoro in terra di Francia. L'altro ero io, trentaduenne manovale italiano, assunto già da diversi mesi e mal tollerato dal capomastro francese. Al mattino ero tra i primi, ma anche a sera: ero il primo a staccare alle cinque. Non suonava una sirena, ognuno doveva regolarsi da sé e questo faceva in modo che nessun operaio smettesse in orario, temendo di mostrarsi poco attaccato al lavoro. Perciò ognuno di loro finiva per regalare del tempo non retribuito a un datore di lavoro esperto in vari trucchi del genere. Io staccavo alle cinque in punto e poi non volevo fare gli straordinari nei giorni non lavorativi. Questo andava di traverso alla comodità di disporre con elasticità della manodopera. Non ero elastico, anzi ero piuttosto rigido, indurito nei muscoli e nel sonno. Mi erano perciò volentieri assegnati i lavori più faticosi, i più sporchi. Ero l'unico di pelle bianca a farli.
All'ora di mensa tra brodaglie assortite con spezie violente si chiacchierava nel rozzo francese comune, poi ognuno tornava ai suoi pensieri in linguamadre. Mi chiamavano Italia, ma non mi sentivo membro di una nazione, non difendevo i colori di una maglia o di una pelle, nemmeno la mia. Accettavo il soprannome, l'Italia lavorava sodo e non toglieva il posto a nessuno, pérché nessuno voleva il suo posto. Avevo bisogno di quel lavoro, lo avevo trovato a stento dopo aver battuto per settimane la periferia di Parigi. Lo avevo ottenuto, volevo tenermelo, malgrado tutti i dannati capimastri. Se voleva un pretesto per sbattermi fuori non glielo avrei dato, sarei sceso in gola all'inferno, ma non mi sarei tirato indietro.
Ecco perché in quei giorni due uomini che non si conoscevano e nemmeno sapevano chiamarsi per nome, stettero faccia a faccia in una fossa rischiando la pelle in cerca di una fogna. Ogni metro di quel buco stringeva il cielo a una striscia larga quanto il cunicolo in cui stavamo. Ogni metro di quel buco poteva crollarci addosso e tenerci sotto il tempo utile a essere sepolti vivi.
Gli altri operai al mattino non ci dicevano più niente, tiravano via zitti al loro lavoro. A mezzogiorno qualcuno ci offriva da bere. Rifiutavo, mi era cresciuta in quei giorni una collera sorda contro tutti, una furia sottopelle che mi faceva sopportare le ore là sotto. Quanto durò? Nemmeno molto, una dozzina di giorni. Alla fine della prima settimana l'uomo che avevo di fronte cominciò a non poterne più. Nel buio rischiarato dalla lampada, là sotto era nero anche a mezzogiorno, c'erano quegli occhi scuri tondi, spalancati, la faccia che grondava, l'invocazione ormai automatica che riesco ancora a sentire se mi tappo le orecchie: "Trouvé? Tu l'as trouvé?" voce rauca di uomo che si sente perduto, fiato comune delle trincee di questo secolo. No, non l'ho trovata ancora, ma dev'essere vicina. Fatti sostituire, amico, il capo non ce l'ha con te, tu hai fatto la tua parte. Gli dicevo così, lui allora stava zitto, non parlava più. Aveva chiesto agli altri operai algerini, nessuno voleva scendere lì sotto. Allora gli dicevo che sarebbe crollata di notte quella fossa, mai di giorno che era bene asciutta, di notte invece, con l'umidità. Inventavo spiegazioni, un poco mi credeva, ero istruito. Non sarebbe crollata quella fossa, non aveva varcato il mare per finire sepolto con un napoletano, saremmo invece morti in mare, sui monti, ma non lì. Questo non glielo dicevo, non si deve parlare di morte coi piedi nella fossa. Cercavo di calmargli la paura, ma lo facevo per me perché avevo bisogno di lui, in due avremmo fatto prima. Se fosse scoppiato, se si fosse fatto licenziare avrei dovuto finirlo da solo quello scavo, ci avrei messo di più, avrei rischiato di più. Ma perché un uomo doveva patire in quel modo, perché al mondo un essere umano doveva guadagnarsi il pane per i suoi figli con una corda al collo? Per me era una questione di orgoglio inferocito, ma per lui quello era solo pane e doveva invece bagnarlo di quell'acqua nostra salata che al gusto così tanto somiglia alle lacrime. Allora pensai che non mi era di nessun aiuto, me la sarei cavata meglio da solo là sotto. Così durante l'ora di mensa andai dal capomastro che mi guardò bellicoso, pronto com'era a dirmi che quello era il lavoro e se non lo volevo fare quella era la porta. Glielo avevo già sentito dire ad altri. Davanti agli operai gli dissi che là sotto non ci si rigirava più,, che in due era impossibile continuare e che la fogna era ormai vicina. Gli chiesi di lasciarmi terminare il lavoro da solo. Mise gli occhi nel piatto e fece di sì con la testa.
Così dopo l'ora di mensa entrai da solo nella fossa. Per la prima volta in quei giorni fui calmo, senza quell'uomo là sotto mi sentii sollevato. Non lavoravo più solo di piccone, avevo anche da spalare. Ci avrei messo di più, m non avrei avuto addosso quegli occhi, quel fiato ("Trouvé? Tu l'as trouvé?") e tutta la materia umana che sotto l'infamia gronda di sudore e senza volerlo implora dall'ultimo sconosciuto la salvezza. Ma questo lo intendo adesso che per la prima volta ricordo quei giorni. Allora pensavo soltanto che non avevo. bisogno di lui, che non avevo bisogno di nessuno per trovare quella dannata fogna. Senza la sua pena mi sentivo leggero. Però quel collettore non lo trovavo. Passarono così altri giorni, il cielo dei mattini d'agosto in terra di Francia era splendente. Dal fondo del fosso sembrava un canale. Sudavo poco, faceva fresco là sotto. Qualcuno dall'orlo dello scavo si affacciava ogni tanto chiedendo: "a va?" Rispondevo invariabilmente: "C'est la villégiature". Se in alto sulla strada passava un camion veniva giù terra dai fianchi dello scavo. Era il suo modo di sudare, di tendere i muscoli per non crollare: grondava terra. Sta dalla mia parte, pensavo. A volte un lavoro anche duro non basta a tenere quieta la testa, perciò uno da solo per otto ore al giorno in un fosso finisce per avere un sacco di tempo per inventarsi frottole e favole. Pensavo, lo ammetto, che quel budello avesse un corpo e un'intenzione, per esempio quella affettuosa di non finirmi addosso.
Uno di quei giorni qualcuno per scherzo buttò néllo scavo una rozza croce, due pezzi di legno legati ad angolo retto da una corda. Cadde vicino al piccone. Mi arredano l'ambiente: provai l'impulso di risalire di corsa e dar la caccia a chi voleva giocare con me al becchino. Un morto che risorge croce in pugno e si mette a inseguire il corteo funebre: sicché sorrisi.
Quando affondai il piccone nella terra e il ferro rimbalzò contro la volta del collettore fognario con suono di rimbombo, fui felice. Ma non potei sorridere, i nervi mi legavano stretto i muscoli del viso come lo spago dell'arrosto al forno. Volevo gridare, neanche quello uscì. Con la pala liberai bene il passaggio e con un colpo secco di piccone sfondai la volta sulla quale finalmente poggiavo i piedi. Chissà se qualcuno è stato mai felice di odorare la merda. Io lo fui e anche gonfio di orgoglio feroce di avercela fatta, mischiando così a quell'odore naturale quello innaturale della spazzatura di sentimenti che avevo provato dentro di me in quei giorni. Merda su merda, lì sotto devo essermi sentito in quel momento in pace, anche se non riesco a ricordarlo. Ci dev'essere stato un pareggio tra me e quella fogna, alla prova di chi di noi due fosse più pieno. Non voglio dir male di me: quando si è in un vicolo stretto della propria vita, per cavarsela si bussa a risorse alle quali in quel momento non si chiede da dove provengano. Quei pensieri di orgoglio servivano a tenermi lì sotto senza chiedere scampo. Mi hanno reso un buon servizio, ma erano pensieri di merda. Fui felice di avercela fatta contro quel bestione di capomastro che non avrebbe pagato niente per la morte di un manovale sepolto sotto una galleria crollata.
Venni fuori prima del tempo quel giorno e ognuno mi chiese se l'avevo trovata, temendo che avessi deciso di mollare. Rispondevo portando al naso due dita per tapparlo. È finita la villeggiatura? Erano lieti che ce l'avessi fatta. Ognuno di loro sapeva di aver tollerato la morte possibile di uno di loro senza aver fatto niente per impedirlo. Ma fare qualcosa per me potevano solo rischiando il loro precario posto di lavoro oppure mettendosi al posto mio: non si può chiedere a nessuno di uscire dai ranghi e alzare la voce o la croce. Però gli uomini che apprezzano in un altro uno scatto che essi hanno dovuto reprimere, poi sono amici. Quel giorno alle cinque di sera gli operai staccarono tutti insieme. Alle cinque in punto nessuno era più sul posto di lavoro. Sorrido per simpatia adesso, allora ci badai appena.
Fu necessaria una settimana per l'allaccio. Gli operai specializzati pretesero che tutta la fossa venisse puntellata a regola d'arte. Il capomastro era fuori di sé per la perdita di tempo, mi additava loro per dimostrare che non c'erano rischi, s'azzardò perfino, affannato com'era, a chiedermi in loro presenza se veniva giù terra dalle pareti, sperando in una mia complicità. "Come grandine," fu il mio contributo.
Forse nella vita di ognuno capita un giorno in cui si è felici di odorare la merda. So di essermi comportato male contro la mia vita, di averla giocata per orgoglio, collera e chissà cos'altro sta nel cuore di uno. Anche se poi alla tavola delle molte lingue il mio posto venne tenuto in conto e molti mi invitavano a sedere accanto a loro, vorrei che nessuno più andasse con un piccone a bussare alla propria fossa sperando che non sia ancora pronta.
Postato il 27 agosto 2011
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