Fa discutere l’America il libro di uno storico della medicina sulle cattive abitudini giovanili dello scienziato dell’inconscio
di Paolo Mastrolilli
“Ho bisogno di un sacco di cocaina. Il tormento, la maggior parte delle volte, è superiore alle forze umane». Così scriveva il tossicodipendente Sigmund Freud nel 1895, cioè un anno prima di abbandonare la droga. Quella polverina bianca, però, potrebbe essere all’origine della psicoanalisi. La pensa in questo modo Howard Markel, professore di Storia della medicina alla University of Michigan, che col libro An Anatomy of Addiction sta attirando l’attenzione delle prime pagine degli inserti letterari americani.
La cattiva abitudine di Freud era nota, anche perché lui stesso ne aveva scritto nel saggio Über Coca. Poi però aveva passato il resto della vita a smentirla o sminuirla, liquidandola come una distrazione giovanile. È vero, come tanti giovani colleghi dell’epoca si era lasciato infatuare dalla sperimentazione di nuove sostanze, e l’aveva praticata su se stesso. Aveva esaltato le doti della cocaina nella cura di piccoli episodi di ansia e depressione, e aveva finito col raccomandarla anche come terapia contro la dipendenza da altre sostanze stupefacenti. A un certo punto, però, era ritornato in sé. Si era reso conto di quanto la droga danneggiasse la chiarezza del pensiero e si era dedicato alla missione della propria vita: creare la psicoanalisi.
Markel beve questa pozione fino a un certo punto. Riconosce che Freud riuscì davvero a interrompere l’uso, o l’abuso, della cocaina nel 1896. Tutto il resto, però, è da rivedere.
Come prima cosa, Markel fa risalire la dipendenza alla gioventù del medico viennese: già a 28 anni aveva parlato del suo interesse per la coca in una lettera spedita alla fidanzata Martha Bernays, e meno di un mese dopo le aveva annunciato che aveva cominciato esperimenti su se stesso. Poco alla volta l’uso scientifico era diventato un’abitudine ludica, al punto che Sigmund confidava di mettere sotto la lingua piccoli quantitativi di droga prima di andare alle cene dei colleghi, «per sciogliere la mia lingua».
Anche gli esperimenti professionali erano andati parecchio oltre il limite. Freud aveva intuito l’efficacia della coca come anestetico, senza arrivare a rivendicarne la paternità. L’aveva comunque usata come cura per la dipendenza dalla morfina del suo amico Ernst von Fleischl-Marxow, con risultati devastanti: Ernst non aveva rinunciato alla droga e poco dopo era morto. Aveva appoggiato anche gli esperimenti di un altro collega, Wilhelm Fliess, che operava i pazienti al naso per risolvere certe neurosi, aiutandosi con la cocaina. Di questa fesseria fece le spese Emma Eckstein, una giovane che rischiò la vita.
Nonostante questi errori, Markel è convinto che la coca finì con lo svolgere un ruolo molto più importante di quanto riconosciuto nella nascita della psicanalisi. Per due motivi. Il primo è che questi esperimenti anticiparono il metodo usato poi dal medico viennese nella sua disciplina, mettendo se stesso al centro dell’osservazione. Il «personaggio» Freud compare per la prima volta negli scritti sugli effetti della cocaina, aprendo la strada a quello che poi sarebbe seguito. Il secondo motivo è che il bisogno di liberarsi dalla dipendenza potrebbe aver spinto Sigmund a adottare la rigida routine che impose a se stesso proprio intorno al 1896, alzandosi sempre prima delle 7 del mattino e lavorando tutta la giornata, tra le molte visite con i pazienti, la scrittura e i convegni.
Dunque non sarebbe stata la passione per lo studio della psicoanalisi a fargli abbandonare la cocaina, ma piuttosto la necessità di liberarsi dalla dipendenza lo avrebbe spinto ai ritmi di impegno che si sarebbero rivelati fondamentali per raggiungere i suoi risultati professionali.
Markel sostiene tutto questo confrontando la vita di Freud con quella di William Halsted, forse il più grande chirurgo della storia americana. Anche lui aveva cominciato a sperimentare le droghe per ragioni professionali, come possibili anestetici, ma poi era finito a ruota con la coca e la morfina. Aveva completamente cambiato carattere, si era chiuso in se stesso, e quando esagerava spariva dalla circolazione. Però aveva continuato a esercitare la professione con grande successo, con tecniche più meticolose di quelle adottate prima della dipendenza.
Era un’epoca diversa dagli anni Sessanta, quando Timothy Leary sperimentava l’acido Lsd tra gli studenti di Harvard per motivi intellettuali. Questi giovani medici cercavano nuove strade per curare i pazienti, e capitava che certe volte imboccassero quelle sbagliate. Markel però non li assolve, qualunque siano stati i risultati, perché il suo libro resta l’anatomia di una «addiction».
La cattiva abitudine di Freud era nota, anche perché lui stesso ne aveva scritto nel saggio Über Coca. Poi però aveva passato il resto della vita a smentirla o sminuirla, liquidandola come una distrazione giovanile. È vero, come tanti giovani colleghi dell’epoca si era lasciato infatuare dalla sperimentazione di nuove sostanze, e l’aveva praticata su se stesso. Aveva esaltato le doti della cocaina nella cura di piccoli episodi di ansia e depressione, e aveva finito col raccomandarla anche come terapia contro la dipendenza da altre sostanze stupefacenti. A un certo punto, però, era ritornato in sé. Si era reso conto di quanto la droga danneggiasse la chiarezza del pensiero e si era dedicato alla missione della propria vita: creare la psicoanalisi.
Markel beve questa pozione fino a un certo punto. Riconosce che Freud riuscì davvero a interrompere l’uso, o l’abuso, della cocaina nel 1896. Tutto il resto, però, è da rivedere.
Come prima cosa, Markel fa risalire la dipendenza alla gioventù del medico viennese: già a 28 anni aveva parlato del suo interesse per la coca in una lettera spedita alla fidanzata Martha Bernays, e meno di un mese dopo le aveva annunciato che aveva cominciato esperimenti su se stesso. Poco alla volta l’uso scientifico era diventato un’abitudine ludica, al punto che Sigmund confidava di mettere sotto la lingua piccoli quantitativi di droga prima di andare alle cene dei colleghi, «per sciogliere la mia lingua».
Anche gli esperimenti professionali erano andati parecchio oltre il limite. Freud aveva intuito l’efficacia della coca come anestetico, senza arrivare a rivendicarne la paternità. L’aveva comunque usata come cura per la dipendenza dalla morfina del suo amico Ernst von Fleischl-Marxow, con risultati devastanti: Ernst non aveva rinunciato alla droga e poco dopo era morto. Aveva appoggiato anche gli esperimenti di un altro collega, Wilhelm Fliess, che operava i pazienti al naso per risolvere certe neurosi, aiutandosi con la cocaina. Di questa fesseria fece le spese Emma Eckstein, una giovane che rischiò la vita.
Nonostante questi errori, Markel è convinto che la coca finì con lo svolgere un ruolo molto più importante di quanto riconosciuto nella nascita della psicanalisi. Per due motivi. Il primo è che questi esperimenti anticiparono il metodo usato poi dal medico viennese nella sua disciplina, mettendo se stesso al centro dell’osservazione. Il «personaggio» Freud compare per la prima volta negli scritti sugli effetti della cocaina, aprendo la strada a quello che poi sarebbe seguito. Il secondo motivo è che il bisogno di liberarsi dalla dipendenza potrebbe aver spinto Sigmund a adottare la rigida routine che impose a se stesso proprio intorno al 1896, alzandosi sempre prima delle 7 del mattino e lavorando tutta la giornata, tra le molte visite con i pazienti, la scrittura e i convegni.
Dunque non sarebbe stata la passione per lo studio della psicoanalisi a fargli abbandonare la cocaina, ma piuttosto la necessità di liberarsi dalla dipendenza lo avrebbe spinto ai ritmi di impegno che si sarebbero rivelati fondamentali per raggiungere i suoi risultati professionali.
Markel sostiene tutto questo confrontando la vita di Freud con quella di William Halsted, forse il più grande chirurgo della storia americana. Anche lui aveva cominciato a sperimentare le droghe per ragioni professionali, come possibili anestetici, ma poi era finito a ruota con la coca e la morfina. Aveva completamente cambiato carattere, si era chiuso in se stesso, e quando esagerava spariva dalla circolazione. Però aveva continuato a esercitare la professione con grande successo, con tecniche più meticolose di quelle adottate prima della dipendenza.
Era un’epoca diversa dagli anni Sessanta, quando Timothy Leary sperimentava l’acido Lsd tra gli studenti di Harvard per motivi intellettuali. Questi giovani medici cercavano nuove strade per curare i pazienti, e capitava che certe volte imboccassero quelle sbagliate. Markel però non li assolve, qualunque siano stati i risultati, perché il suo libro resta l’anatomia di una «addiction».
«Il Giornale» del 24 luglio 2011
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