Nella finzione narrativa il confine tra vero e inventato è sfumato. Capita così che i lettori prendano sul serio i romanzi. Come se parlassero di cose realmente successe. E che attribuiscano all'autore le idee dei suoi personaggi
di Umberto Eco
I lettori si saranno accorti che in alcune delle ultime bustine mi sono occupato della bugia. E' che stavo preparando un intervento che ho tenuto lunedì scorso alla Milanesiana, dedicata quest'anno a "bugie e verità", dove ho anche parlato della finzione narrativa.
Un romanzo è un caso di menzogna? A prima vista dire che don Abbondio ha incontrato due bravi nei pressi di Lecco sarebbe una bugia perché Manzoni sapeva benissimo di raccontare una cosa che si era inventato. Ma Manzoni non intendeva mentire: "faceva finta" che quello che raccontava fosse accaduto davvero e ci chiedeva di partecipare alla sua finzione, proprio come accettiamo che un bambino, che impugna un bastone, faccia finta che sia una spada.
Naturalmente la finzione narrativa richiede che vengano emessi segnali di finzionalità che vanno dalla parola "romanzo" sulla copertina, a inizi come "c'era una volta". Ma spesso incomincia con un falso segnale di veridicità.
Ecco un esempio: "Il signor Lemuel Gulliver... tre anni fa, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra nei pressi di Newark... Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli... Li ho letti con attenzione tre volte e devo dire che... la verità soffia su ogni pagina ed infatti l'autore stesso era talmente noto come persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l'avesse detta Gulliver".
Nel frontespizio della prima edizione dei "Viaggi di Gulliver" non appare il nome di Jonathan Swift come autore di finzione ma quello di Gulliver come autobiografo veritiero. Forse i lettori non si fanno ingannare perché, dalla "Storia vera" di Luciano in avanti, le esagerate affermazioni di veridicità suonano come segnale di finzione, ma spesso in un romanzo si mescolano in modo così stretto fatti fantastici e riferimenti al mondo reale che molti lettori perdono la bussola.
Così accade che prendano sul serio i romanzi come se parlassero di cose realmente accadute e che attribuiscano all'autore le opinioni dei personaggi. E vi assicuro, come autore di romanzi, che al di là, diciamo, delle 10 mila copie, si passa dal pubblico abituato alla finzione narrativa al pubblico selvaggio per cui il romanzo viene letto come sequenza di affermazioni vere, così come al teatro dei pupi gli spettatori insultavano il fellone Gano di Maganza.
Mi ricordo che nel mio romanzo "Il pendolo di Foucault" il personaggio Diotallevi, per burlarsi dell'amico Belbo che usa ossessivamente il computer, gli dice a pagina 45 "la Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone". Un collega che insegna materie scientifiche mi aveva sarcasticamente osservato che la Silicon Valley si traduce Valle del Silicio.
Gli avevo detto che sapevo benissimo che i computer si fanno col silicio (in inglese "silicon"), tanto è vero che se fosse andato a vedere la pagina 275 avrebbe letto che, quando il signor Garamond dice a Belbo di mettere nella "Storia dei metalli" anche il computer perché fatto col silicio, Belbo gli risponde: "Ma il silicio non è un metallo, è un metalloide". E gli ho detto che a pagina 45 anzitutto non parlavo io bensì Diotallevi, che aveva pur diritto di non sapere né le scienze né l'inglese, ma che in secondo luogo era chiaro che Diotallevi si stava burlando delle cattive traduzioni dall'inglese, come chi parlasse di un "hot dog" come di un cane caldo. Il mio collega (che diffidava degli umanisti) ha sorriso con scetticismo, ritenendo che la mia spiegazione fosse un povero rappezzo.
Ecco il caso di un lettore che, sebbene istruito, anzitutto non sapeva leggere un romanzo come un tutto, collegando le sue varie parti, in secondo luogo era impermeabile all'ironia, e infine non distingueva tra opinioni dell'autore e opinione dei personaggi. A un non-umanista del genere il concetto di "fare finta" era ignoto.
Un romanzo è un caso di menzogna? A prima vista dire che don Abbondio ha incontrato due bravi nei pressi di Lecco sarebbe una bugia perché Manzoni sapeva benissimo di raccontare una cosa che si era inventato. Ma Manzoni non intendeva mentire: "faceva finta" che quello che raccontava fosse accaduto davvero e ci chiedeva di partecipare alla sua finzione, proprio come accettiamo che un bambino, che impugna un bastone, faccia finta che sia una spada.
Naturalmente la finzione narrativa richiede che vengano emessi segnali di finzionalità che vanno dalla parola "romanzo" sulla copertina, a inizi come "c'era una volta". Ma spesso incomincia con un falso segnale di veridicità.
Ecco un esempio: "Il signor Lemuel Gulliver... tre anni fa, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra nei pressi di Newark... Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli... Li ho letti con attenzione tre volte e devo dire che... la verità soffia su ogni pagina ed infatti l'autore stesso era talmente noto come persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l'avesse detta Gulliver".
Nel frontespizio della prima edizione dei "Viaggi di Gulliver" non appare il nome di Jonathan Swift come autore di finzione ma quello di Gulliver come autobiografo veritiero. Forse i lettori non si fanno ingannare perché, dalla "Storia vera" di Luciano in avanti, le esagerate affermazioni di veridicità suonano come segnale di finzione, ma spesso in un romanzo si mescolano in modo così stretto fatti fantastici e riferimenti al mondo reale che molti lettori perdono la bussola.
Così accade che prendano sul serio i romanzi come se parlassero di cose realmente accadute e che attribuiscano all'autore le opinioni dei personaggi. E vi assicuro, come autore di romanzi, che al di là, diciamo, delle 10 mila copie, si passa dal pubblico abituato alla finzione narrativa al pubblico selvaggio per cui il romanzo viene letto come sequenza di affermazioni vere, così come al teatro dei pupi gli spettatori insultavano il fellone Gano di Maganza.
Mi ricordo che nel mio romanzo "Il pendolo di Foucault" il personaggio Diotallevi, per burlarsi dell'amico Belbo che usa ossessivamente il computer, gli dice a pagina 45 "la Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone". Un collega che insegna materie scientifiche mi aveva sarcasticamente osservato che la Silicon Valley si traduce Valle del Silicio.
Gli avevo detto che sapevo benissimo che i computer si fanno col silicio (in inglese "silicon"), tanto è vero che se fosse andato a vedere la pagina 275 avrebbe letto che, quando il signor Garamond dice a Belbo di mettere nella "Storia dei metalli" anche il computer perché fatto col silicio, Belbo gli risponde: "Ma il silicio non è un metallo, è un metalloide". E gli ho detto che a pagina 45 anzitutto non parlavo io bensì Diotallevi, che aveva pur diritto di non sapere né le scienze né l'inglese, ma che in secondo luogo era chiaro che Diotallevi si stava burlando delle cattive traduzioni dall'inglese, come chi parlasse di un "hot dog" come di un cane caldo. Il mio collega (che diffidava degli umanisti) ha sorriso con scetticismo, ritenendo che la mia spiegazione fosse un povero rappezzo.
Ecco il caso di un lettore che, sebbene istruito, anzitutto non sapeva leggere un romanzo come un tutto, collegando le sue varie parti, in secondo luogo era impermeabile all'ironia, e infine non distingueva tra opinioni dell'autore e opinione dei personaggi. A un non-umanista del genere il concetto di "fare finta" era ignoto.
«L'Espresso» dell'8 luglio 2011
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