Il decreto toglierà le agevolazioni fiscali alle cooperative che per anni hanno fatto cartello contro il libero mercato. A lungo ha fronteggiato i numerosi colpi bassi delle "sorelle rosse"
di Stefano Filippi
È un giorno come qualsiasi altro per Bernardo Caprotti: mattinata nel quartier generale di Pioltello, alle porte di Milano; pranzo con i collaboratori più stretti; pomeriggio di nuovo al lavoro, nel riserbo, secondo il leggendario stile di vita del «Dottore». Potrebbe essere il giorno della rivincita per l’ottantaseienne patron di Esselunga, uno degli imprenditori più schivi - e di maggiore successo - d’Italia. È il giorno in cui il governo ha annunciato che eliminerà i privilegi fiscali alle cooperative. E proprio Caprotti, nel settembre di quattro anni fa, pubblicò il bestseller Falce e carrello (Marsilio editore) nel quale raccontava i colpi bassi subìti dal gioco di sponda tra la Legacoop, gigante economico legato al Pci-Pds-Ds, e le amministrazioni locali di sinistra.
Caprotti non ha mai indossato i panni del fustigatore. Il suo non era un libro-denuncia, ma una esposizione di fatti, scritta con un linguaggio sobrio e accompagnata da una mole di documentazione pubblicata on-line. Il racconto di una serie di vicende imprenditoriali che sembravano iniziative sfortunate, mentre in realtà erano state affossate dalla strategia delle «coop sorelle» per tenere lontana la concorrenza dal mercato della grande distribuzione in larghe zone del Paese.
Licenze commerciali lasciate scadere, ma prontamente girate dalle amministrazioni di sinistra alle coop «amiche». Ritrovamenti archeologici etruschi usati per dissuadere Esselunga dall’insediarsi nel cuore di Bologna. Terreni pagati all’asta sei volte il loro valore di mercato pur di impedire che l’imprenditore brianzolo aprisse un supermercato a Modena. Operazioni preparate con meticolosità e con l’impiego di ingenti capitali erano state mandate in fumo in un batter d’occhi.
Non si trattava di episodi riconducibili alla normale dialettica della concorrenza, ma tappe di un preciso disegno per bloccare l’espansione di Esselunga e tentarne la scalata.
Tuttavia le coop non avrebbero potuto mettere in campo la loro manovra se non potessero contare su un trattamento normativo e fiscale che le pone in situazione di vantaggio. Gli stretti rapporti con gli enti locali governati dalla sinistra non spiegano tutto. Ed è questo livello, quello dei privilegi, che viene colpito dal provvedimento del governo Berlusconi.
Le coop sono scalabili perché nessun socio può avere la maggioranza delle quote, quindi in qualche modo si sottraggono alle leggi del mercato. Hanno manager con poteri quasi illimitati, nel bene e nel male. Sono prive del fine di lucro e dovrebbero destinare parte degli utili (non tassati) a scopi mutualistici. Gran parte delle imposte sono deducibili dal reddito: in questo modo, per esempio, l’Ires (Imposta sul reddito delle società) incide sull’utile lordo delle coop per il 17 per cento, contro il 43 che abbatte l’utile di una società non cooperativa.
E poi le coop possono evitare di rivolgersi alle banche per ottenere capitali, perché incamerano ingenti somme in prestito dai soci ai quali garantiscono un doppio vantaggio.
I soci infatti godono di tassi di assoluto favore (Unicoop Firenze rende l’1,65 per cento, molto più di qualsiasi banca), sul quali si applica l’aliquota fiscale del 12,5 per cento contro il 27 per cento dei depositi bancari. E in un buon numero di casi, i bilanci delle coop vengono controllati e certificati da società riconducibili alle grandi centrali mutualistiche.
Questa massa di esenzioni fiscali doveva garantire la vita della miriade di piccole e piccolissime realtà cooperative che operano prevalentemente nel sociale. Ma nei mercati più vasti si trasformano in meccanismi distorsivi.
Le grandi coop sono presenti nella grande distribuzione e nell’agroalimentare, nel credito e nelle assicurazioni, nelle costruzioni e nell’impiantistica, nel settore immobiliare e dei servizi ospedalieri, perfino nella telefonia mobile e addirittura nel mercato dei farmaci.
Esse operano sul mercato dei capitali, raccolgono risparmio, emettono azioni e obbligazioni, si quotano in Borsa pur conservando franchigie (come le agevolazioni tributarie e la non contendibilità grazie al voto capitario nelle assemblee) di cui i concorrenti non godono.
«Le cooperative hanno perso l’anima», disse una volta l’ex segretario della Cgil Bruno Trentin all’Unità. Forse, togliendo un po’ di privilegi, gliela restituirà un governo di centrodestra.
Caprotti non ha mai indossato i panni del fustigatore. Il suo non era un libro-denuncia, ma una esposizione di fatti, scritta con un linguaggio sobrio e accompagnata da una mole di documentazione pubblicata on-line. Il racconto di una serie di vicende imprenditoriali che sembravano iniziative sfortunate, mentre in realtà erano state affossate dalla strategia delle «coop sorelle» per tenere lontana la concorrenza dal mercato della grande distribuzione in larghe zone del Paese.
Licenze commerciali lasciate scadere, ma prontamente girate dalle amministrazioni di sinistra alle coop «amiche». Ritrovamenti archeologici etruschi usati per dissuadere Esselunga dall’insediarsi nel cuore di Bologna. Terreni pagati all’asta sei volte il loro valore di mercato pur di impedire che l’imprenditore brianzolo aprisse un supermercato a Modena. Operazioni preparate con meticolosità e con l’impiego di ingenti capitali erano state mandate in fumo in un batter d’occhi.
Non si trattava di episodi riconducibili alla normale dialettica della concorrenza, ma tappe di un preciso disegno per bloccare l’espansione di Esselunga e tentarne la scalata.
Tuttavia le coop non avrebbero potuto mettere in campo la loro manovra se non potessero contare su un trattamento normativo e fiscale che le pone in situazione di vantaggio. Gli stretti rapporti con gli enti locali governati dalla sinistra non spiegano tutto. Ed è questo livello, quello dei privilegi, che viene colpito dal provvedimento del governo Berlusconi.
Le coop sono scalabili perché nessun socio può avere la maggioranza delle quote, quindi in qualche modo si sottraggono alle leggi del mercato. Hanno manager con poteri quasi illimitati, nel bene e nel male. Sono prive del fine di lucro e dovrebbero destinare parte degli utili (non tassati) a scopi mutualistici. Gran parte delle imposte sono deducibili dal reddito: in questo modo, per esempio, l’Ires (Imposta sul reddito delle società) incide sull’utile lordo delle coop per il 17 per cento, contro il 43 che abbatte l’utile di una società non cooperativa.
E poi le coop possono evitare di rivolgersi alle banche per ottenere capitali, perché incamerano ingenti somme in prestito dai soci ai quali garantiscono un doppio vantaggio.
I soci infatti godono di tassi di assoluto favore (Unicoop Firenze rende l’1,65 per cento, molto più di qualsiasi banca), sul quali si applica l’aliquota fiscale del 12,5 per cento contro il 27 per cento dei depositi bancari. E in un buon numero di casi, i bilanci delle coop vengono controllati e certificati da società riconducibili alle grandi centrali mutualistiche.
Questa massa di esenzioni fiscali doveva garantire la vita della miriade di piccole e piccolissime realtà cooperative che operano prevalentemente nel sociale. Ma nei mercati più vasti si trasformano in meccanismi distorsivi.
Le grandi coop sono presenti nella grande distribuzione e nell’agroalimentare, nel credito e nelle assicurazioni, nelle costruzioni e nell’impiantistica, nel settore immobiliare e dei servizi ospedalieri, perfino nella telefonia mobile e addirittura nel mercato dei farmaci.
Esse operano sul mercato dei capitali, raccolgono risparmio, emettono azioni e obbligazioni, si quotano in Borsa pur conservando franchigie (come le agevolazioni tributarie e la non contendibilità grazie al voto capitario nelle assemblee) di cui i concorrenti non godono.
«Le cooperative hanno perso l’anima», disse una volta l’ex segretario della Cgil Bruno Trentin all’Unità. Forse, togliendo un po’ di privilegi, gliela restituirà un governo di centrodestra.
«Il Giornale» del 31 agosto 2011
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