27 agosto 2011

Il problema del tempo e Agostino (Le Monnier)

Brano tratto dal volume Autori latini, Il sentimento del tempo, Le Monnier Scuola, 2007
di L. Azzoni – B. Nanni – E. Seghetti

Che cos'è il tempo? Le risposte degli antichi

Il tempo del mito
I dio greco che porta il nome del tempo, Chronos, è l'autore di un inaudito atto di violenza: egli evira infatti il proprio padre, Ouranos, il Cielo. Secondo il mito, dalla Voragine primordiale, Chaos, nasce Gaia, la Terra, che genera spontaneamente il suo doppio e contrario, perfettamente simmetrico, il Cielo, che, maschio, si stende su di lei e «non cessa mai di disseminarsi nel seno di Gaia», senza interruzione. «La povera Terra si trova allora incinta di una prole numerosa che non può neppure uscire dal suo grembo, che deve restare là dove Urano l'ha concepita. Visto che Cielo non si alza mai da Terra, non si crea mai fra loro uno spazio che permetta ai figli, i Titani, di uscire alla luce» (J.-P. Vernant). Per sgravarsi della propria prole e per far cessare l'infinito abbraccio di Urano, Gaia istruisce il più giovane dei suoi figli, Crono, affinché, mentre è dentro di lei, eviri il padre con un falcetto. Crono obbedisce e riesce nell'impresa. Urano, gridando, si stacca allora da Gaia e occupa lo spazio della volta celeste, dal quale non si muoverà più. Prosegue suggestivamente Vernant: «Con la castrazione di Urano, avvenuta su consiglio e grazie all'astuzia della madre, Crono segna una tappa fondamentale nella nascita del cosmo. Separa il cielo e la terra. Crea fra terra e cielo uno spazio libero: da allora in poi tutto ciò che la terra produrrà, tutto ciò che verrà generato dagli esseri viventi, avrà un luogo per respirare e per vivere. Da un Iato, lo spazio si è aperto, ma anche il tempo si è trasformato. Finché Urano pesava su Gaia, non c'erano generazioni successive, restavano tutte nascoste all'interno di chi le aveva generate».
II fatto che sia Crono, il Tempo, a creare lo spazio della possibilità della vita e del succedersi delle generazioni risulta assai significativo per avviare la riflessione che ci proponiamo di compiere in questo volume: la percezione che gli antichi avevano del tempo.
In forma embrionale è già leggibile nel mito che il tempo si percepisce nel cambiamento delle cose, di cui esso è misura. Senza il succedersi delle generazioni, senza i movimenti nello spazio, Crono è chiuso nel ventre della Terra che, evidentemente, vive in una dimensione extratemporale l'incessante e immutevole atto d'amore con Urano. Il Tempo nasce (secondo il mito «viene partorito») nel momento in cui si crea uno spazio che permette agli eventi di accadere (ancora in termini di mito, ai figli di Gaia di «uscire alla luce»).

Il tempo ciclico
I cambiamenti più evidenti di cui l'uomo ha percezione sono quelli legati ai cicli naturali: l'avvicendarsi del giorno e della notte, delle stagioni, delle fasi lunari, delle traiettorie astrali. La costante di questi mutamenti è la loro ciclicità: alla notte succede un nuovo giorno, la luna cresce e cala per ritornare a crescere, e così via. Nelle società arcaiche, prevalentemente agricole e legate ai cicli della terra e del cielo, l'immagine del tempo è pertanto quella di un cerchio, o di una ruota: come scrive lo studioso delle religioni M. Eliade, si tratta di un orientamento «tradizionale, presentito (senza mai essere formulato con chiarezza) in tutte le culture `primitive': quello del tempo ciclico che si rigenera periodicamente ad infinitum».
Questa concezione ricorsiva del tempo è stata poi sistematizzata dapprima in ambito religioso, attraverso due momenti fondamentali. In primo luogo, la scansione del tempo in base a rituali anch'essi ricorsivi, legati a determinati periodi dell'anno e costantemente ripetuti nella stessa forma, con lo scopo di armonizzare I'attività dell'uomo alla natura e di agire sulla natura in modo da renderla favorevole all'uomo.
In secondo luogo, la nascita di miti. Il nucleo più arcaico dei miti primitivi è legato a una divinità mediterranea preariana, femminile, identificata con la luna: la Gran Dea, la Dea Madre, la Dea Bianca, venerata con molti nomi, che variano a seconda delle regioni e dell'epoca storica (Astarte, Ishtar, Iside, Cibele, Afrodite, Artemide, Leucotea, Persefone, e molti altri). E una dea ciclica, in quanto in essa convivono gli aspetti della vita e della morte, nella triplice forma di vergine, di ninfa, e di vegliarda. La forma trinitaria appare anche nell'estensione del suo dominio, in quanto è divinità celeste, sotto forma di luna, terrestre in quanto madre della vegetazione e signora della fecondità, e ipogea, in quanto signora della morte e degli inferi. La dea è rappresentata sulla terra da una sacerdotessa che si accompagna a un re sacro, il quale viene scelto in un momento significativo dell'anno (il solstizio d'estate o l'equinozio di primavera), e viene poi ucciso e sostituito in inverno, a simboleggiare la morte della vegetazione e a propiziarne la rinascita. In molti miti a noi noti è possibile leggere questo schema primitivo. Oltre alla più nota vicenda di Demetra, può risultare interessante il mito di Adone.
Adone (il cui nome rende probabilmente il titolo semitico adon, «signore») corrisponde al semidio babilonese Tammuz, lo spirito della vegetazione, compagno di Ishtar, l'Afrodite mesopotamica. La somiglianza del mito e dei rituali in area semitica e in area greca (ma anche la vicenda di Osiride e Iside, in area egizia, è riconducibile allo stesso nucleo) è significativa della sua vitalità ed estensione.
Adone è il figlio di Smirna, trasformata in albero di mirra da Afrodite mentre era gravida. AI compimento del tempo, dalla corteccia uscì un bambino bellissimo: Adone. Afrodite lo consegnò alla regina degli inferi, Persefone, perché lo tenesse nascosto, ma essa, affascinata dalla sua bellezza, lo scelse, una volta cresciuto, come amante. Afrodite però, lei pure innamoratasi del giovane, lo reclamò, e ne nacque una contesa. La lite venne superata grazie all'intervento della Musa Calliope, la quale stabilì che l'anno fosse diviso in tre parti: una destinata a Persefone, una ad Afrodite, e una in cui Adone poteva stare libero. Tuttavia Afrodite, sfruttando il cinto magico per cui diveniva irresistibile, tratteneva il giovane con sé anche durante questo terzo periodo. Suscitò in questo modo l'ira di Persefone e la gelosia di Ares, amante divino di Afrodite, il quale, sotto forma di cinghiale, uccise Adone durante una battuta di caccia. Dal sangue del giovane nacque un fiore, l'anemone scarlatto. Afrodite ottenne però da Zeus che il giovane passasse solo metà dell'anno tra i morti, in compagnia di Persefone, e di averlo con sé durante il tempo rimanente.
La divisione in tre parti dell'anno simboleggia le tre stagioni (della capra, del leone, del serpente) in cui era diviso il calendario lunare; la permanenza di Adone nell'Ade simboleggia la morte della natura durante la stagione invernale. I rituali legati a questo mito, diffusi in tutta l'area europea e dell'Asia occidentale con varianti poco significative, comprendevano la celebrazione delle nozze dei due amanti divini, la rappresentazione della morte di Adone, il suo funerale, accompagnato da lamentazioni compiute principalmente da donne, e infine l'allestimento dei «giardini di Adone», cesti, vasi o vassoi su cui venivano piantati fiori e grano, che in breve, per mancanza di terra, appassivano e venivano poi gettati in acqua corrente insieme al simulacro della salma del giovane. II giorno seguente, egli risorgeva e saliva al cielo. «La cerimonia della morte e resurrezione di Adone deve essere stata una rappresentazione scenica del declino e della rinascita della vita vegetale», conclude J.G. Frazer, il noto antropologo autore del Ramo d'oro. Essa testimonia la visione ciclica del tempo, nel suo aspetto più evidente, quello della vegetazione: «l'universalità di questo ciclo ricorrente di declino e rinascita, unita al fatto che da esso dipende totalmente l'uomo per la sua sopravvivenza, contribuiscono a renderlo l'evento naturale più importante e solenne dell'anno» (Frazer).
Ad altri miti più esplicitamente legati alla scansione del tempo è comune l'idea di un inizio paradisiaco - «concezione arcaica (e probabilmente universale)», scrive Eliade -, cui segue una serie di cicli successivi di creazione-distruzione-nuova creazione. Le palingenesi (i nuovi inizi) di ciascun ciclo riportano le medesime condizioni di partenza, in una ripetizione eterna di ciò che è stato (il mito «dell'eterno ritorno»).
Questa modalità ciclica è comunque scandita al suo interno da cicli intermedi, in cui il tratto comune in molti sistemi mitico-religiosi è l'innesco di un processo degenerativo, per cui la nuova nascita porta a condizioni peggiori rispetto alla precedente. Raggiunto il punto più basso del deterioramento, si assiste a una nuova rinascita nelle condizioni originarie.
Un esempio di questo sistema si trova nella religione induista e, in ambiente greco, nel mito delle età, narrato da Esiodo, secondo il quale a un inizio paradisiaco, l'età dell'oro, succede una serie di cicli degenerativi fino ad arrivare all'attualità, segnata da vecchiaia, morte, malattie e ingiustizia, l'età del ferro.

Il tempo lineare
L'altro modello nella visualizzazione del tempo è quello, più moderno, di tipo lineare. Gli studiosi sono concordi nell'attribuire alla cultura ebraica questa nuova concezione, che sarebbe derivata dal diverso rapporto che il popolo ebraico instaura con la divinità: «messi da parte i cicli del tempo che si susseguivano uno dopo l'altro [...] la storia del mondo divenne, invece, un processo di liberazione politica.
Durante il IX secolo a.C. uno scrittore di genio descrisse le provvidenziali azioni di Yahweh dalla creazione del mondo alla nascita di Abramo, progenitore di Israele, poi da quel punto alla schiavitù in Egitto, e infine alla liberazione degli Ebrei e alla conquista di Canaan, la terra promessa.
La storia smise di essere semplicemente un susseguirsi di fatti e divenne, invece, un complicato intreccio di eventi che progredivano da un inizio ben preciso a un fine stabilito. La storia venne concepita come storia della salvazione, e con essa nacque l'idea di tempo lineare»: così sintetizza J.T. Fraser, il fondatore della International Society for the Study of Time.
Da osservare due elementi: il tempo lineare discende dalla percezione degli eventi come momenti di una storia; la storia procede verso un fine provvidenzialmente stabilito. La presenza di un'escatologia (cioè la riflessione sul fine degli eventi) spezza il ciclo in un segmento con un inizio e un termine.
La riflessione cristiana porterà a compimento questo processo, per cui il tempo avrà una fine, e si risolverà nella dimensione extra-temporale dell'eternità, dalla quale il tempo è nato al momento della creazione, per volontà divina.
È adombrata una concezione analoga anche nella riflessione finalistica sulla storia avviata in età augustea, di cui I'Eneide, il poema di Virgilio, è l'esempio più illustre: la vicenda di Roma è concepita come progressiva e fatale espansione fino a un punto di perfetto equilibrio, garante della prosperità universale, rappresentato dal principato.
Risulta evidente come in questo tipo di concezione la storia umana e la vita individuale, nella loro unicità e irripetibilità, vengono avvalorate rispetto alla concezione ciclica.
Va detto che tali modelli non sono necessariamente alternativi, e restano largamente operanti parallelamente, anche se a livelli diversi: nel continuum del ciclo si può isolare l'hic et nunc del tempo individuale (questo tema sarà particolarmente presente nella riflessione oraziana).

Il tempo della natura
Anche la riflessione filosofica nella considerazione del tempo parte dalla relazione col mutamento: in termini filosofici il divenire, contrapposto all'essere, che, per sua natura, non muta.
È Pitagora il primo a occuparsi esplicitamente della questione del tempo, che lui concepisce, secondo la testimonianza di Porfirio (Vita di Pitagora), come ciclico: entro un dato termine di tempo tutto si ricrea come era stato, e quindi nulla è nuovo di quanto vive sulla terra.
Parmenide, fondando la filosofia dell'essere, svaluta il tempo, connesso esclusivamente al divenire, fino a considerarlo un «non ente»: soltanto l'essere, nella sua immutabilità e unicità, è; conseguentemente, tutto ciò di cui possiamo dire «era» o «sarà» non è essere, ma apparenza, oggetto della fallace conoscenza sensibile: «Da questo conseguiva che il tempo non può essere reale, perché impone di parlare di cose ed eventi che sono stati e che saranno. Lo stesso cambiamento non può essere che illusione. Il mondo vero è un mondo di permanenza. La realtà ultima, scrisse [Parmenide] in uno dei frammenti rimastici, è "immobile nei limiti di potenti legami, senza principio né fine"» (Fraser).
E Platone, nel Timeo, a fornire la prima definizione del tempo. Timeo sta raccontando l'origine del cosmo, tratto dal caos dal divino artefice, il Demiurgo, che opera sulla materia preesistente prendendo a paradigma, per plasmare il mondo, le Idee, i modelli eterni e perfetti. Creando il tempo, prende a modello l'eternità, di cui esso è «immagine mobile»:

Allora egli pensò di creare un'immagine mobile dell'eternità e, organizzando il cielo, produsse, mentre l'eternità restava nell'unità, un'immagine che si muoveva secondo una misura, e questa noi la chiamiamo «tempo»: infatti i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che non esistevano prima della nascita del cielo, li fece nascere nel momento in cui quello sorgeva [...]. Dunque secondo tale provvidente ragione a proposito della nascita del tempo, affinché il tempo nascesse, sono sorti il sole e la luna e gli altri cinque pianeti, in vista della suddivisione e del mantenimento della misura del tempo. (37a-38c)

Per Platone dunque il tempo esiste, ed è quanto di più prossimo all'eternità la materia del mondo consenta di creare. Gli astri celesti quindi sono nati in vista della misurazione del tempo, e del mantenimento di un ritmo costante e perfetto, garantito dalla circolarità delle loro orbite: il movimento circolare, infatti, che non ha una partenza e un arrivo, è il moto perfetto.
Aristotele inverte i termini della questione: riportandosi all'esperienza, riconosce nel tempo la misura del mutamento. Noi percepiamo il tempo nel momento in cui si verificano dei mutamenti (che il filosofo chiama «movimenti») rispetto ai quali si possano determinare un «prima» e un «poi», cioè uno sviluppo temporale. Ecco la riflessione che troviamo nella Fisica:

Il tempo noi lo conosciamo quando determiniamo il movimento, individuando in esso ciò che è prima e ciò che è dopo. E noi affermiamo che è trascorso del tempo allorché abbiamo percezione di «ciò che è prima» e di «ciò che è dopo» nel movimento. (4,11,219a 22-25)



Da qui la definizione del tempo: «Tempo è il numero del movimento secondo il prima e il dopo» (4,11,219b 1-2).
Sulla stessa linea procede anche la riflessione stoica, che considera il tempo come intervallo del movimento (SVF, 1, fr. 93). Commenta il filosofo G. Reale: «esso è effetto dell'esserci, del vivere e del muoversi dei corpi e in genere dei cosmo».
Punto comune sia alla prospettiva platonica che a quella aristotelica è il fatto che il tempo (a prescindere dalla priorità che viene assegnata) viene misurato secondo il movimento del cielo, cui viene attribuito un moto circolare uniforme, garante dell'arythmon, il «numero», la misura regolare, il ritmo. E il tempo della natura, il tempo fisico.
Ma mentre per Platone il tempo è un ente creato dal Demiurgo, e quindi ha una sua esistenza autonoma, per Aristotele esso è esclusivamente l'unità di misura dei mutamento.

Il tempo esiste in sé?
Se, secondo la prospettiva aristotelica e stoica, il tempo è una unità di misura, è lecito domandarsi se esso abbia una sua esistenza autonoma, in assenza di un ente che possa misurarlo attraverso la percezione del mutamento delle cose. Scrive infatti Aristotele:

Qualcuno potrebbe sollevare questa difficoltà: il tempo esisterebbe o meno, se non esistesse l'anima? Se non esiste infatti ciò che può numerare, è impossibile che vi sia qualcosa che può essere numerato. [...] Ma se null'altro per sua natura numera eccetto l'anima, e nell'anima l'intelletto, allora è impossibile che esista il tempo, se non esiste l'anima. (Fisica, 4,14,223a 21-29)

Come dire: esiste il «litro» in sé, se non esiste un intelletto in grado di misurare dei liquidi? Ma anche sotto un altro aspetto il concetto di tempo solleva dubbi sulla sua natura ontologica (cioè di «ente»): la puntualità infinitesimale del presente (che «è»), rispetto ai due tempi che «non sono» mai, il passato, che non è più, e il futuro, che non è ancora. Scrive a questo proposito Seneca:
Praesens tempus brevissimum est, adeo quidem ut quibusdam nullum videatur; in cursu enim semper est, fluit et praecipitatur; ante desinit esse quam venit, nec magis moram patítur quam mundus aut sidera, quorum inrequieta semper agitatio numquam in eodem vestigio manet. (Dialogi, 10,10,6)
Il presente è brevissimo, tanto che a taluni sembra che non esista; è sempre in corsa, scorre e precipita, smette di esistere prima di esser giunto, e non può indugiare più di quanto possano fermarsi il cosmo o le stelle, la cui corsa inquieta non si ferma mai sulla propria traccia.
Tre secoli dopo, Agostino, dopo aver reso esplicito il suo disagio di fronte a una nozione tanto comune quanto indefinibile («Dunque cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se lo volessi spiegare a uno che ne domandasse, non lo so»), rende ulteriormente esplicito questo problema scrivendo, in un passo su cui avremo modo di tornare:

Duo ergo illa tempora, praeteritum et futurum, quomodo sunt, quando praeteritum iam non est et futurum nondum est? Praesens autem si semper esset praesens nec in praeteritum transiret, non iam esset tempus, sed aeternitas. (Confessiones 11,14)
Dunque quei due tempi, passato e futuro, in che modo esistono, dal momento che il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora? II presente poi, se fosse sempre presente non sarebbe più tempo, ma eternità.

Il tempo umano
Spostiamo ora l'attenzione dal tempo fisico al soggetto consapevole del trascorrere del tempo: l'uomo. L'uomo, fra tutte le creature viventi, è l'unica che percepisce il tempo in modo progettuale. Gli animali reagiscono al trascorrere del tempo in modo istintivo: migrano, vanno in letargo, ma non potrebbero non farlo. Non hanno progetti autonomi sul futuro. Non si scambiano informazioni sul passato. Possono solo, nelle specie più avanzate, creare delle abitudini, ma il loro orizzonte temporale è estremamente limitato. Solo l'uomo ha il privilegio di estendere i suoi orizzonti temporali oltre l'immediatezza dello stimolo del presente. In base a una certa immagine del futuro, e in relazione a esperienze passate, personali o acquisite attraverso la comunicazione con altri uomini (che possono anche essere vissuti in un altro tempo), l'uomo opera delle scelte e organizza il proprio presente: ad esempio, possiamo scegliere di studiare oggi l'anatomia del corpo umano in vista di un pensato futuro di medico.
Ma è soprattutto una, fra le proiezioni nel futuro, che determina in maniera sostanziale la nostra percezione del tempo: la morte. Scrive Fraser: «Fra le molte immagini del futuro che influenzano le azioni presenti, la consapevolezza della morte è la più potente e universale. E un ingrediente essenziale del senso del tempo dell'uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato. Questo tipo di tempo, che è proprio della mente umana, viene chiamato tempo noetico o nootemporalità [...]. La nootemporalità è il tempo dell'essere umano pensante».
La morte costituisce dunque il momento che in qualche modo dà senso alla vita, costringendo l'uomo alle scelte, e rendendo indispensabile una valutazione e una gestione del tempo. In un suggestivo racconto di J. L. Borges, Gli immortali, lo scrittore argentino immagina una comunità di persone che hanno trovato l'elisir dell'immortalità. Orbene, questi uomini passano la loro vita, resa eterna, dormendo: laddove si sia perso il confine del tempo, ogni azione diviene priva di senso, in quanto può essere indefinitamente rimandata. La vita, in assenza dell'assillo della morte, scivola nell'oblio.
D'altra parte, la continua percezione della propria mortalità, e quindi dell'inarrestabile fluire del tempo verso la propria fine, affianca al privilegio della coscienza una inquietudine esistenziale cui è necessario trovare un rimedio. Da sempre ogni sistema filosofico o religioso ha avuto come centro questo ineludibile problema: liberare dal timore e dall'angoscia della morte, ultima linea rerum, come la definisce Orazio (Epistulae 1,16,79).
«Il mondo umano comprende, oltre al presente, anche il passato e il futuro. Vivere in questo universo non è impresa facile, perché il passato racchiude i piaceri ormai perduti e i rimpianti che permangono, mentre il futuro comprende speranze e paure. Scoprendo il tempo umano, ci siamo ritrovati malati cronici di conflitti interiori. Per allentare almeno in parte la tensione generata da questi conflitti, la nostra specie ha creato le civiltà con le loro droghe [cioè gli artificiali correttivi dell'angoscia, le azioni che l'uomo compie per esorcizzare la paura della morte, n.d.r.]. Gli uomini, dotati di cuore e anima, sentendosi oppressi, se non per altri motivi, per la finitezza della vita sulla terra, ne hanno bisogno in misura illimitata. Ed è per questo che li fabbricano incessantemente: la matematica e l'astronomia, la tecnologia e l'architettura, le scienze, le arti e le lettere, la musica e la danza, [...] le guerre e la gestione della pace. Siamo una razza inquieta» (Fraser).

Il percorso
Nel percorso che presentiamo, incontrerai i testi dì tre autori che sul problema del tempo e della finitezza umana si sono interrogati profondamente.
Orazio, che vive nella costante angoscia (l'atra cura, «l'angoscia nera») della labilità della vita e della presenza onnipervasiva della morte, cui cerca di trovare scampo chiudendo l'orizzonte del futuro per vivere il presente. Per lui il solo spiraglio che consente una speranza di eternità è la poesia.
Seneca, che, attraverso la meditazione costante sulla morte, insegna a possedere per intero la propria vita, nella sua dimensione passata, presente e futura, nella ricerca e nell'esercizio costante della virtù: è in questo caso la filosofia a dare significato al tempo.
Agostino, che, dopo aver dimostrato che il tempo è una delle espressioni più drammatiche della finitezza e incessante mutabilità delle cose, condizione fondamentale del mondo terreno, vede nella contemplazione di Dio, eterno e immutabile, l'unica forma di superamento e di raggiungimento, da parte dell'uomo, della sua insopprimibile aspirazione all'immortalità.




Agostino e la nostalgia del tempo

Dio, l'eternità e il tempoPer comprendere correttamente la teoria agostiniana del tempo, che esercitò un'influenza decisiva nella cultura occidentale (basti pensare che tutti i principali filosofi del Novecento che hanno trattato il problema del tempo, tra cui Bergson, Wittgenstein, Russell, Heidegger, partiranno proprio da un'analisi o una confutazione di Agostino come condizione preliminare per presentare le proprie posizioni), è necessario ricordare che anch'essa si iscrive nella prospettiva volta a fornire una giustificazione razionale delle verità rivelate.
La sua trattazione più sistematica si colloca nella sezione conclusiva delle Confessiones, in cui, dopo aver tracciato il suo percorso esistenziale dal peccato alla conversione, Agostino si pone l'obiettivo di dare una giustificazione filosofica alla sua scelta di fede, discutendo uno dei dogmi più controversi del cristianesimo, la creazione ex nihilo, cioè dal nulla, del mondo da parte di Dio. Tale dogma infatti si distingue nettamente dalle teorie cosmologiche della filosofia classica, che, pur differenziandosi tra loro anche notevolmente, avevano legato l'origine dell'universo all'ordinamento di una materia caotica eternamente preesistente, negando quindi la possibilità di qualunque tipo di creazione dal nulla (anche il Demiurgo platonico, ad esempio, plasma il mondo conformando la materia ai modelli delle Idee).
Nell'XI libro, Agostino affronta una questione che riguarda espressamente il tempo: quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram? La risposta, che esamineremo dettagliatamente, è semplice: antequam faceret Deus caelum et terram, non faciebat aliquid, «prima di fare il cielo e la terra, Dio non faceva qualcosa», cioè non operava nell'ambito delle cose create. In altre parole, Dio è il creatore di tutto l'universo, naturale e soprannaturale, e il tempo è compreso nell'ordine delle cose create. In quanto creatura, il tempo appartiene a un ordine di realtà radicalmente diverso da Dio, cui compete unicamente la dimensione dell'eternità caratterizzata da immutabilità, immobilità e pienezza. L’alterità radicale tra Dio e il tempo che così viene posta vanifica dunque la questione in sé: prima della creazione il tempo non esisteva e pertanto non ha senso nemmeno parlare di un `prima', che è una categoria estranea alla divinità.

La natura problematica del tempo
Muovendo da queste premesse di carattere teologico, Agostino si pone comunque l'obiettivo di tentare un'indagine filosofica del concetto di tempo.
Essa prende le mosse dalla consapevolezza della natura intrinsecamente contraddittoria della nozione di tempo, notissima e misteriosa insieme: quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio, si quaerenti esplicare velim, nescio, «che cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so, se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». L'analisi di conseguenza avrà un'impostazione problematica, volta a mettere in discussione posizioni ritenute superficiali e inefficaci piuttosto che a proporre affermazioni univoche; frequentemente Agostino si interrompe a precisare: quaero, non adfirmo, «cerco, non affermo», oppure: exarsit animus meus nosse istuc implicatissimum aenigma, «il mio animo arde di conoscere questo complicatissimo mistero».
Il punto di partenza obbligato è anche per lui la definizione aristotelica del tempo come misura del movimento, che non viene confutata, anche perché, ponendo una relazione inscindibile tra il tempo e l'universo naturale, non è in contrasto con il principio agostiniano del tempo come conseguenza della creazione. Agostino dice espressamente, seppure come suo solito in forma di domanda, cur enim non omnium corporum motus sint tempora?, «perché infatti i movimenti di tutti i corpi non dovrebbero essere considerati tempi?».
Ma, quando si tratta di indagare sulla misura del tempo, cioè sulla sua natura fondamentale, nasce un problema insormontabile: il tempo è infatti un'entità inafferrabile: delle tre dimensioni di cui è costituito, futuro, passato e presente, il futuro e il passato non hanno una realtà effettiva, perché praeteritum iam non est et futurum nondum est, «il passato non è più e il futuro non è ancora»; il presente, a sua volta, si riduce a istanti puntiformi che scorrono incessantemente; risulta dunque impossibile delimitare nel tempo dei confini, condizione necessaria per qualsiasi misurazione.
Ne consegue una definizione negativa del concetto di tempo: non scilicet dicamus tempus esse, visi quia tendit non esse?, «non potremmo dunque dire che il tempo è solo in quanto tende a non essere?».

Distentio animi
Dopo aver constatato che la natura oggettiva del tempo è tale da renderne impossibile la misura, Agostino si dedica a sviluppare l'ulteriore passaggio dell'analisi aristotelica: la funzione dell'intelletto umano nella misurazione del tempo; scrive K. Flasch: «Aristotele pensava che la misura del tempo fosse presente nello stesso processo naturale, ma contemporaneamente affermava che se non ci fosse l'anima, non ci sarebbe neppure il tempo. Il tempo sarebbe dunque presente nell'anima e al di fuori di essa. Come ciò possa darsi, rimaneva una questione aperta; proprio su di essa si concentrò l'attenzione di Agostino; [...] il risultato conseguito non era più aristotelico».
Vedremo come Agostino giunga a questa definizione:

mihi visum est nihil esse aliud tempus quam distentionem: sed cuius rei nescio, et mirum, visi ipsius animi.
mi pare che il tempo non sia nient'altro che una distentio, ma non so di che cosa, e sarebbe strano se non si trattasse proprio dell'intelletto.

L'espressione distentio animi è tanto icastica quanto problematica. Etimologicamente distentio è un derivato del verbo distendo (dis + tendo), «tendere in direzioni opposte»: il tempo è dunque una forma di «tensione» o «estensione» dell'intelletto che si protende nelle direzioni opposte del passato e del futuro. Infatti mediante le facoltà della memoria, dell'attentio, «attenzione», e dell'expectatio, «aspettativa», le tre dimensioni del tempo divengono presenti nell'intelletto. Esso ha dunque la funzione di contenere la natura inafferrabile del tempo, unificando la successione degli istanti e riducendola a un insieme omogeneo e quindi misurabile.
Ma immediatamente dopo aver illustrato l'accezione tecnica di distentio Agostino ne introduce un'altra, che egli trae dalla connotazione fortemente negativa attribuita in latino al prefisso dis- (vedi discordia, dissensus, dissolutio ecc.): ecce distentio est vita mea, «ecco, la mia vita è dispersione».
Sul piano esistenziale, l'esperienza della temporalità è letta alla luce di un criterio morale: il divenire temporale diviene un'espressione emblematica delle lacerazioni che caratterizzano la realtà terrena, soggetta al peccato e alla morte. Solo in una dimensione mistico-escatologica tali lacerazioni potranno essere superate:

at ego in tempora dissilui, quorum ordineni nescio, et tumultuosis varietatibus dilaniantur cogitationes meae, intima viscera animae meae, donec in te confluam purgatus et liquidus igne amoris tui.
ma io sono lacerato nei tempi, dei quali ignoro l'ordinamento, e i miei pensieri, intimo recesso della mia anima, sono dilaniati dai tumultuosi mutamenti, fino a che approderò a te, purgato e purificato dal fuoco del tuo amore.

L'analisi agostiniana sul tempo approda in definitiva a una sua profonda svalutazione, giocata tutta a favore dell'eternità. Commenta un insigne studioso di Agostino, H. I. Marrou: «Agostino è un pensatore di tradizione platonica: la sua filosofia è una filosofia dell'Essere, o meglio dell'Essenza. [...] In una filosofia dell'Essenza, il tempo appare sempre un po' come uno scandalo. Il tempo è una cosa fluida, inafferrabile. [...] Per Essere veramente e pienamente bisogna affrancarsi dal tempo, o almeno dalla durata come la sperimenta l'attuale natura dell'uomo peccatore: tutto ciò che è inserito nel tempo storico non È, nel senso pieno della parola».

Postato il 27 agosto 2011

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