Quell’arma impropria
di Alessandro Giuli
Riproponiamo un articolo di Alessandro Giuli pubblicato sul Foglio del 10 agosto 2005 su un tema tornato di grande attualità in questi giorni
La questione morale è una cosa serissima e a volte pericolosa da maneggiare. I francesi lo sanno bene, avendo loro una tradizione nobile e rispettata di pensatori moralisti (“les moralistes”); e perché hanno conosciuto per primi nell’età moderna la forza rivoluzionaria della morale che tracima nel moralismo della volontà generale (“très moralisante” e giacobina). Hanno avuto il Terrore con i suoi Robespierre e Marat e Saint Just che scriveva furibondo “provate la vostra virtù o entrate nelle prigioni”; Saint Just che intimava: “I prìncipi devono essere moderati, le leggi implacabili”, i princìpi senza appello”. “E’ lo stile ghigliottina”, commenterà Albert Camus nel suo “Uomo in rivolta”. E c’è sempre qualcosa di puro, aspro e ghigliottinante dietro la parola “morale” quando la s’intreccia alla parola “giustizia” per contrapporla al presunto nulla-morale di un nemico del momento. Quando insomma, come dice Geminello Alvi interpretando la frase evangelica “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati” (Matteo 5,6), si dimentica che la giustizia è tale se “evolve a un risanare nell’armonia. E cambia nome, diviene quel più di bontà e prudenza che è la misericordia”. Perché “chi giudica è sempre e solo il demonio” (“L’anima e l’economia”, Mondadori 2005).
In Italia la questione morale è storicamente come uno sciame di cattivi pensieri in una mente troppo piccola per trattenerli tutti e metterli in ordine. Ma è pure un palpabilissimo romanzo d’appendice in cui giocano a rincorrersi scandali innegabili, tecnocrazie giudiziarie, sovietismi inconsci, e non da ultimo certi familismi finanziari che si proteggono con piglio calvinista dall’aggressione di altre famiglie ricche più basse (che poi magari vincono e diventano calviniste e chiuse). Il meccanismo si affaccia a cadenza ciclica, crea scompiglio e svapora. Di volta in volta la questione morale viene evocata come un’urgenza imperativa e negletta. In tempi non lontani, è stato così all’alba degli anni Ottanta quando Enrico Berlinguer evocò, appunto, la questione morale in un’intervista a Eugenio Scalfari. Era il 28 luglio 1981 e il segretario del Partito comunista italiano disse al fondatore (e allora direttore) di Repubblica: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti”.
E poi: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo, il risultato è drammatico”. “Essi hanno degenerato recando così danni gravissimi”. Di qui l’orgoglio della diversità comunista (“Il Pci non li ha seguiti in questa degenerazione, ecco la prima ragione della nostra diversità”), e la nuova bandiera da issare: “La questione morale è il centro del problema italiano”. E siccome si era allora in piena turbolenza da infiltrazioni massoniche piduiste, Berlinguer aggiunse: “Oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare o spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le operazioni che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela”. Lo sciame sarebbe tornato dopo il crollo del muro di Berlino, nei primi anni Novanta, con Mani pulite. Con la frana della così detta Prima repubblica, indebolita dalla corruzione e sgretolata dalle procure. Fu la stagione del dipietrismo tonante, quando perfino Achille Occhetto si convinceva che “per fortuna siamo alla fine del regime”.
Mentre l’anima giustizialista del Pci-Pds gonfiava il petto e, come ha scritto il senatore Giovanni Pellegrino nel suo “La guerra civile” (Bur-Rizzoli 2005), accadeva che le inchieste di mafia e corruzione aperte dalla magistratura venissero “doppiate” dalla nomenklatura post-comunista (“i pentiti prima venivano sentiti da Caselli, poi da Violante”, all’epoca presidente della commissione Antimafia). Adesso, nuovamente, l’eterno ritorno del sospetto si spande sulla quotidianità italiana. Sul groviglio politico-finanziario che avvolge, come fosse nato dalle radici di un unico rampicante, la scalata in Rcs e le offerte d’acquisto per la banca Antonveneta e la Bnl (con o senza l’aiuto del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio); le nomine dei vertici Rai e la sopraggiunta e presto decaduta collaborazione finanziaria tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi (isolato a sinistra, soltanto il senatore ds Franco Debenedetti ha disapprovato pubblicamente il contegno del fratello Carlo). Un patto inedito, conveniente e chiacchieratissimo. Un patto unilateralmente sciolto da CdB per ragioni, appunto, di opportunità morale e dopo ch’era insorta, sconfessandolo con dimissioni e brontolii, la crema militante (o anche solo simpatizzante) della sua associazione Libertà e Giustizia. Sylos Labini, Giovanni Sartori, Enzo Biagi.
Ma perfino il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha voluto sigillare la protesta con un fondo contro “il diavolo” Cav. Ricavandone nell’ordine: la palinodia di CdB; una risposta tra il vittimista e lo spazientito del Cav. e l’opportunità di replicargli, a brutto muso per una volta ancora. E’ stato invece, come tutti sanno, il prodiano Arturo Parisi a disseppellire la questione morale facendone il lamento dei giusti (per autoproclama) contro il risorgente malaffare che coinvolgerebbe anche i Ds, con quel loro presunto baratto per portare Claudio Petruccioli alla presidenza della Rai e con quel loro atteggiamento per lo meno tollerante verso Chicco Gnutti, Stefano Ricucci e altri “scalatori” (il prediletto è Giovanni Consorte di Unipol). Si sa come l’hanno presa i Ds, e fra loro sopra tutto quelli che non hanno mai aderito al “partito delle procure”. Tipo Emanuele Macaluso, figura storica del socialismo riformista. Macaluso ha scritto che Parisi avrebbe “vomitato” quanto Prodi teneva in pancia. Chissà se è vero. In ogni caso l’accusa dei prodiani ha trovato il suo vento e si è levata. Sostenuta dagli editoriali della domenica di Eugenio Scalfari su Repubblica (“La morale perduta”; svolgimento: “Quest’intenso discutere di morale mi allarma. Sono infatti convinto che quando la morale diventa argomento di vivace discussione, essa stia scomparendo dai comportamenti degli individui e dei gruppi sociali”. Segue predica morale con citazione berlingueriana, tocco antiberlusconiano, polemica su Bankitalia e sulla timidezza dell’opposizione. Coda d’insoddisfazione per il contegno dalemiano) e di Barbara Spinelli su La Stampa. Spinelli se possibile è quasi definitiva e le rincresce molto “la grande illusione che Mani pulite fosse servita a qualcosa” perché “il malaffare permane” e “ha ragione Arturo Parisi quando parla di questione morale”. Così, mentre l’Unità si fida poco finanche del passo indietro di De Benedetti, faccende di dimensione e consistenza vaga, imprecisa, vengono trattate con tetraggine d’altri tempi.
Emanuele Macaluso si è arrabbiato, dicevamo. Secondo lui “non è così semplice la cosa e la questione morale va inquadrata nella storia politica d’Italia”. Perché “c’è sempre stata la questione morale, in uno Stato come il nostro sostanzialmente immorale, mai di diritto perché ha convissuto con mafia e scandali. A cominciare dalla fine dell’Ottocento con quello della Banca Romana”. Di fondo “c’è una storia tipica fatta di moralismi e trasgressioni le più incredibili. In cui lo Stato italiano ha sempre oscillato tra le leggi eccezionali e le tolleranze. Ed emergenza e tolleranza non fanno uno Stato di diritto. Proprio il contrario. Eppoi basta pensare alle inchieste parlamentari sulla mafia condotte mentre lo Stato trattava con la mafia. Idem con il terrorismo: abbiamo questa doppiezza su cui bisogna riflettere preliminarmente”. Detto questo, è vero che dalla fine dei Settanta qualcosa cambia nel Pci che si propone come forza di rottura non solo ideologica ma adesso prevalentemente morale. L’intervista di Berlinguer – è sempre Macaluso – coincide con l’emergenza P2. L’impasto di una loggia massonica dove figuravano iscritti di tutti i tipi. Dai capi dei carabinieri a finanzieri, politici, poliziotti, servizi eccetera. Una specie di raduno di uomini che rappresentavano lo Stato ma in un recinto parallelo. Berlinguer aveva la preoccupazione fondamentale di una crisi dei partiti, del sistema politico. Partiti che decidevano su tutto. La sua idea era di fare un passo indietro. Eravamo dentro una crisi del sistema cominciata con la morte di Aldo Moro. Non c’era ricambio politico. Ma ci siamo ancora dentro, in questa crisi endemica”. Forse perché “Berlinguer commise l’errore di non capire che il problema non era solo di far fare un passo indietro ai partiti, ma di rendere agibile il sistema con le alternative di governo, cioè con un Pci che non si limitasse allo strappo con i partiti comunisti dell’Est. Berlinguer ebbe la remora di non dire chiaramente che il partito poteva essere forza di governo, con una piena adesione alla socialdemocrazia europea.
Ebbe l’idea di poter superare la crisi di sistema sollevando la questione morale e cercando l’acquisizione, nella coscienza storica, della diversità comunista”. Ma se ci fu inadeguatezza allora, esiste oggi ed è esistita fino a ieri l’altro una coazione a ripetere secondo la quale Mani pulite è stata la prosecuzione (incompiuta) con mezzi giudiziari della battaglia morale che ancora agita i girotondi e i Sylos Labini. “Mani pulite è dentro quella logica. Arriva quando il sistema è già in coma e nel pieno della crisi totale dei partiti. Non è vero che la crisi arriva da Mani Pulite, già nel 1992 il fenomeno era visibile nella Lega che portava a Roma 80 parlamentari. Tangentopoli arriva veramente nel 1993, ed è l’epilogo di quella crisi. Una rinuncia della politica che fu evidente in occasione del famoso discorso di Bettino Craxi, quando il leader socialista pose alla Camera la questione su quanti sapevano del sistema di finanziamenti illeciti. Craxi disse quello che disse e nessuno si alzò, allora fu chiaro cos’era la rinuncia della politica. Qualcuno ha pensato che il braccio della magistratura potesse aiutare la riconversione del sistema politico. Io non ho mai creduto all’asse Pds-Ds-Magistratura. C’è stato qualcosa, vabbè, con Violante. Ma era il convincimento che, siccome la magistratura in assenza della politica aveva preso il suo ruolo, tutto sommato quel ruolo avrebbe favorito il ricambio. Neanche per sogno, invece”.
Oggi è diverso ma in fondo, dice Macaluso, “siamo ancora lì. Non c’è stata la ricostruzione di un sistema di partiti, che si sono frantumati come si è frantumato il progetto berlusconiano del 1994. Come la società civile che doveva surrogare quella politica in crisi. Tutte balle. Oggi ancora una volta si è rinunciato a una battaglia per ricostruire le grandi forze politiche e collegarle al mondo. La questione di cui più si parla, il comportamento di Bankitalia, suggerisce che è inutile pigliarsela con i giudici quando è la politica a mancare. In America quando hanno dovuto colpire certi fenomeni hanno colpito approntando una legge adeguata. Una risposta della politica. Da noi la politica non è stata in grado di concludere nulla dopo lo scandalo Parmalat”. Pure il sottofondo moralistico è rimasto uguale? Il caso di De Benedetti fa scuotere la testa a Macaluso. “La sinistra pensa che De Benedetti possa essere il proprio oracolo. Invece lui, nella pratica di intrecciare affari e politica, è come Berlusconi. Lo ha sempre fatto, ha sempre avuto le mani in pasta nella costruzione di governi attraverso associazioni e giornali. Sempre con l’obiettivo di influenzare la politica, sempre tenendo fermi i suoi affari. Questa la logica. Oggi la cosa è venuta un po’ più allo scoperto per il legame tra i due. Ecco cosa rimprovero alla sinistra: di avere pensato che l’Ingegnere potesse essere un patriarca della sinistra”. Quanto alle insinuazioni sui Ds, “non sono iniziative d’occasione. Coloro che attaccano sono gli epigoni di una storia. Usano metodi che in passato furono usati da esponenti del Pci contro i loro stessi compagni. Cosa è l’intervista al Corriere di Parisi? Il tentativo di solleticare il girotondismo, da una parte, e dall’altra certe forze della borghesia per dire loro: badate non vi fidate di questi ex comunisti. Il discorso è indirizzato alle fasce plebee (anche se in mezzo c’è qualche professore universitario), perché di plebeismo si tratta nel caso dei girotondi. Ma anche però alla Confindustria e ad altri poteri per dire: state attenti che questi qui, i Ds, poi si mettono d’accordo con gli uomini che sono arrivati all’ultimo momento. I Ricucci i Fiorani i Consorte. E siccome Parisi sapeva certamente che i vari Della Valle avevano fatto le loro polemiche contro i lanzichenecchi, ha pensato bene di dire: noi siamo un’altra cosa. Il professore vi può garantire anche questo.
E’ stato tutto un gioco per fottere i Ds. I quali Ds sono un po’ coglioni, non si accorgono delle cose, anche se ora reagiscono”.
Altro ex Pci disincantato, Duccio Trombadori, altro uomo di sinistra estraneo alle prefetture di polizia morale. Esplicito. Secondo Trombadori “Berlinguer tentò di far uscire il Pci dalla osservanza ad Est e dalle sue proprie contraddizioni, invece che per la strada maestra della socialdemocrazia, accentuando una linea tradizionale di stampo radical-azionista: dunque virtuista, ideologicamente antifascista e tendenzialmente forcaiola. Il rinnovamento socialista-democratico dell’Italia, e la vocazione nazionale popolare del Pci, veniva subordinata al pregiudizio della bonifica dei partiti come se questi ultimi fossero i veri e i soli responsabili della nota corruttela istituzionale. Il singolare connubio di azionismo laicista e massonico e radicalismo comunisteggiante segnò anche la politica “europea” di Berlinguer per svincolare il suo partito dal confronto con la alternativa socialista e liberale che in Italia gli indicava Craxi”. Questo “grande peccato d’origine” ha fatto da battistrada ai successivi sviluppi storico-politici “di cui il Pci è stato oggetto e soggetto per varie circostanze fino ad oggi facendo dell’Italia quel ‘paese anormale’ che è, con buona pace di Massimo D’Alema che, sia pure con qualche variante, è stato seguace diretto della linea berlingueriana. O almeno lo fu senza mai rompere”. Anche per Trombadori “nei primi anni Ottanta, le accuse di Berlinguer avevano una consistenza. Ma tutto fu estremizzato al punto tale da far precipitare gli equilibri politici fino allo sfascio della Prima repubblica”.
Quel messaggio antipolitico “non poteva poi non piacere a certi esponenti del managerialismo di Stato, vissuti all’ombra ma non del tutto compromessi con le logiche di partito. Come per esempio quei tecnocrati democristiani per lo più ‘di sinistra’ che ritrovavano nella linea berlingueriana una specie di verginità per un capitalismo di Stato che intendeva mantenere il suo potere attraverso l’appoggio del partito comunista”. Antonio Socci, giornalista Rai, editorialista del Giornale, ha toccato questo capitolo in un’inchiesta scritta nel 1987, insieme con Roberto Fontolan, per il settimanale “Il Sabato”. Titolo, “Tredici anni della nostra storia”. Un lavoro che ha procurato a Socci notorietà e un sacco di antipatie. Nella puntata numero 14 Socci incrocia la questione morale. Ci arriva un poco di striscio ma ci arriva, e lo fa partendo dai “grandi potentati contro le formazioni politiche”. Siamo alla metà dei Settanta e nel mondo della finanza azionista (“tecnocrazia e grande industria”, all’epoca nome e cognome della Fiat) prende forma il progetto di laico-illuminista (così nella definizione di Giorgio Galli che Socci riporta) di “colonizzare il Pci portandolo su posizioni liberal (per questo nasce nel ’76 la Repubblica di Scalfari e Caracciolo, cognato di Agnelli). E comprarsi la Dc (come fosse in svendita) per farne un partito repubblicano di massa: i due poli. Così matura la candidatura di Umberto Agnelli nella Dc. I risultati del 20 giugno 1976 portano il Pci al 33,8 per cento (la Dc è al 38,9). Ci sono dunque le condizioni per realizzare quel patto fra produttori che assesterebbe un brutto colpo al sistema dei partiti. E la sua forma non può essere che quella di un accordo tra una Dc ‘agnelliana’ e un Pci scalfarizzato. I giochi sembrano ormai fatti. A far saltare il piano saranno Moro e Andreotti”.
Da qui muove una ricognizione su “Andreotti il guastafeste” scelto da Aldo Moro per reggere il governo che, con l’astensione del Pci, procederà al risanamento di conti pubblici voraginosi e all’abbattimento di una spaventosa inflazione. Eppure, scrive Socci che fino al 1980 le varie “aree tecnocratiche” si trovano “coalizzate” contro la segreteria Dc. Nel 1980, dopo la sconfitta di Andreotti, l’Italia è in mano ai potentati economici e finanziari (i partiti sono impotenti e sconfitti): si prepara il grande scontro interno al Palazzo”. Molto in breve: l’inchiesta ripercorre l’incredibile vicenda di Moro (anno 1978), rapito nel giorno in cui il governo Andreotti (il Pci nella maggioranza) doveva presentarsi alle Camere. Poi, tra un’allusione e l’altra, tra una deduzione e la successiva sul ruolo della P2 contro la Dc di Moro e Zaccagnini: “Fatto sta che, scomparso Moro, l’istigazione di Scalfari verso il Pci ebbe finalmente successo. ‘Dal ’79 in poi’ racconta Scalfari ‘la questione morale’ ha preso il posto del compromesso storico nell’agenda berlingueriana. Quella è stata secondo me la svolta di fondo, nella evoluzione del Pci… In questi dieci anni’, conclude, ‘il nostro gruppo di opinione e soprattutto le testate giornalistiche che lo rappresentano, la Repubblica, l’Espresso e Panorama, ha adempiuto egregiamente, per la sua parte, al ruolo di laicizzare la chiesa comunista’. E’ un brano rivelatore – ora è di nuovo Socci – il grande cavallo di battaglia è proprio lo spauracchio dello scandalismo: la questione morale viene da loro contrabbandata come la degenerazione del sistema dei partiti, che va dunque ‘riformata’. (Ma lungi da loro per esempio l’idea di ‘moralizzare la finanza o la Grande industria). Il tam tam si farà assordante verso il 1980 grazie anche ai giornali del gruppo Rizzoli (controllato da Licio Gelli): la via d’uscita che questi indicavano doveva essere una sorta di golpe istituzionale che portasse al governo dei tecnici […]”.
Cronologicamente:
1) Alla fine del 1979 il Pci abbandona Andreotti; nell’agosto dell’80 scoppia la bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, culmine di una “spettacolare e sospetta escalation del terrorismo”;
2) Collassa la credibilità dei partiti, “causa di sfacelo e corruzione. Con il novembre 1980 la parola d’ordine assordante è: questione morale”.
3) Flaminio Piccoli diventa segretario della Dc, il suo vice e futuro successore è Ciriaco De Mita, “la prospettiva per quelle lobbies che vollero questa svolta nella Dc”. Sarà De Mita a nominare Romano Prodi al vertice dell’Iri.
4) Il Corriere della Sera fa da grancassa alla richiesta di un “governo dei tecnici” guidato da Bruno Visentini.
“Con i partiti ridotti a fantasmi di se stessi (o burattini di molti burattinai)” – concludono Socci e Fontolan – “tre grandi lobbies sono ormai padrone assolute della piazza”. Queste lobbies, ora convergenti ora no, nell’inchiesta risultano essere la P2 di Gelli “che controlla i giornali del gruppo Rizzoli”, il gruppo Agnelli (“giornali, Confindustria, Mediobanca eccetera) e il gruppo “De Benedetti, Caracciolo, Scalfari”. Oggi Antonio Socci conferma che in quegli anni “Berlinguer, invece di parlare di quello politico, all’improvviso prese a parlare un linguaggio moralistico-metafisico”.
E’ in quegli anni, negli anni Settanta, che “si affacciò l’idea tecnocratica di ascendenza azionista, secondo la definizione di Augusto Del Noce, che ha sempre contestato i grandi partiti popolari usciti vincitori o sconfitti dalle elezioni del 1948: Dc, Pci e Psi. Questa casta d’illuminati ha sempre creduto che per destino dovesse rappresentare il governo vero dell’Italia. Fino ad allora s’erano dovuti accontentare della Banca d’Italia, di ministeri economici e giornali. Poi, finalmente, si sono sentiti pronti a prendere le redini dell’Italia”. La realtà che ha oggi davanti a sé Antonio Socci è completamente diversa. Persino da Tangentopoli. “Oggi gli schieramenti non sono così netti”. Secondo lui “l’unica risonanza di tipo moralistico è in effetti percepibile intorno alla vicenda De Benedetti-Berlusconi. Lì sì, è come ci fosse un problema di sangue. Ciò che in una splendida inchiesta di Luca Ricolfi, ricercatore all’Università di Torino, viene chiamato ‘razzismo etico’: una posizione ideologica tipica del centrosinistra, che consiste nel ritenere moralmente inferiore gli avversari”. Quanto al resto, “mancano gli ingredienti, gli elementi materiali per costruire il teatrino. Le plebi non si lasciano infiammare dai nomi di Ricucci e degli altri. Non è neppure chiaro chi siano. In più non c’è l’alto grado di impatto emotivo rappresentato dai risparmiatori penalizzati da Parmalat”. Il presupposto, dice Socci è che “il meccanismo giustizialista, dal punto di vista filosofico, ha un’essenza giacobina, manichea e gnostica. Ha bisogno di una chiara, nettissima delimitazione delle parti in causa. Bianco e nero.
La regola fondamentale del gioco è questa: deve essere abbastanza chiaro per il pubblico quali sono i due fronti. Da una parte deve esserci il male assoluto (a suo tempo Craxi), dall’altra il bene assoluto (a suo tempo Di Pietro). Oggi non li vedo questi giocatori. La cosa funziona ancora per Berlusconi, il brutto sporco e cattivo. Ma adesso non si capisce granché da che parte stia Berlusconi. Certo, se riusciranno a tirarcelo, allora sì, allora il giochetto potrebbe funzionare”. Fermo restando però che “neanche i bambini crederebbero a Prodi nel ruolo di bene assoluto mentre solleva una ‘questione morale’. Al massimo può avvalersi di un piccolo spunto propagandistico per una campagna elettorale che parte alla lontana. Una furbatella. Ma onestamente, Prodi nelle vesti del giacobino giustizialista non è credibile, è dal 1978 che fa il ministro. Non è che sia precisamente una vestale”. C’è infine un elemento che Socci vuole illuminare: “Rispetto a quanto scrivevo dieci anni fa, contro il moralismo usato come arma ideologica, riconosco che c’è comunque un problema oggettivo di moralità. L’alternativa non può essere tra il giustizialismo e la totale mancanza di regole e d’un minimo di correttezza. Nel caso attuale non riuscirei a scrivere dove come e perché le regole non hanno funzionato”. Qualcuno si avvantaggerà della situazione? Lo farà in senso “antipolitico” come sembrò durante Tangentopoli? “Sia nella vicenda di Berlinguer sia in Tangentopoli il vero monstrum era l’Italia dei partiti. Quella vissuta in un sistema bloccato in cui non c’era ricambio né controllo. Fondamentalmente era un’Italia politica con grande cultura d’appartenenza, con realtà popolari. Oggi non è così. Anzi paradossalmente se dovessimo dire cosa c’è rimasto dell’Italia dei partiti, diremmo Ds e An. Tangentopoli ebbe successo anche perché cadde in concomitanza con una finanziaria da novantamila miliardi di vecchie lire, il prelievo forzoso dei conti correnti e così via. La gente si sentiva fisicamente, personalmente derubata. Ma ormai la questione morale è uno slogan, potrebbe anche essere impugnata dal centrodestra, come in effetti avvenne nel caso Telekom Serbia (al di là della mazzetta presa o meno, la questione investì la liceità di finanziare il dittatore Milosevic). Di più: da un punto di vista culturale sarebbe proprio la destra la legittima proprietaria della questione morale-politica. I “partiti forchettoni” era una formula adottata dal vecchio Msi. In fondo quale è stato l’effetto più grande, oltre alla distruzione della Dc, di Tangentopoli? La fine dell’arco costituzionale e la ‘legalizzazione’ del Msi”.
In Italia la questione morale è storicamente come uno sciame di cattivi pensieri in una mente troppo piccola per trattenerli tutti e metterli in ordine. Ma è pure un palpabilissimo romanzo d’appendice in cui giocano a rincorrersi scandali innegabili, tecnocrazie giudiziarie, sovietismi inconsci, e non da ultimo certi familismi finanziari che si proteggono con piglio calvinista dall’aggressione di altre famiglie ricche più basse (che poi magari vincono e diventano calviniste e chiuse). Il meccanismo si affaccia a cadenza ciclica, crea scompiglio e svapora. Di volta in volta la questione morale viene evocata come un’urgenza imperativa e negletta. In tempi non lontani, è stato così all’alba degli anni Ottanta quando Enrico Berlinguer evocò, appunto, la questione morale in un’intervista a Eugenio Scalfari. Era il 28 luglio 1981 e il segretario del Partito comunista italiano disse al fondatore (e allora direttore) di Repubblica: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti”.
E poi: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo, il risultato è drammatico”. “Essi hanno degenerato recando così danni gravissimi”. Di qui l’orgoglio della diversità comunista (“Il Pci non li ha seguiti in questa degenerazione, ecco la prima ragione della nostra diversità”), e la nuova bandiera da issare: “La questione morale è il centro del problema italiano”. E siccome si era allora in piena turbolenza da infiltrazioni massoniche piduiste, Berlinguer aggiunse: “Oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare o spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le operazioni che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela”. Lo sciame sarebbe tornato dopo il crollo del muro di Berlino, nei primi anni Novanta, con Mani pulite. Con la frana della così detta Prima repubblica, indebolita dalla corruzione e sgretolata dalle procure. Fu la stagione del dipietrismo tonante, quando perfino Achille Occhetto si convinceva che “per fortuna siamo alla fine del regime”.
Mentre l’anima giustizialista del Pci-Pds gonfiava il petto e, come ha scritto il senatore Giovanni Pellegrino nel suo “La guerra civile” (Bur-Rizzoli 2005), accadeva che le inchieste di mafia e corruzione aperte dalla magistratura venissero “doppiate” dalla nomenklatura post-comunista (“i pentiti prima venivano sentiti da Caselli, poi da Violante”, all’epoca presidente della commissione Antimafia). Adesso, nuovamente, l’eterno ritorno del sospetto si spande sulla quotidianità italiana. Sul groviglio politico-finanziario che avvolge, come fosse nato dalle radici di un unico rampicante, la scalata in Rcs e le offerte d’acquisto per la banca Antonveneta e la Bnl (con o senza l’aiuto del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio); le nomine dei vertici Rai e la sopraggiunta e presto decaduta collaborazione finanziaria tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi (isolato a sinistra, soltanto il senatore ds Franco Debenedetti ha disapprovato pubblicamente il contegno del fratello Carlo). Un patto inedito, conveniente e chiacchieratissimo. Un patto unilateralmente sciolto da CdB per ragioni, appunto, di opportunità morale e dopo ch’era insorta, sconfessandolo con dimissioni e brontolii, la crema militante (o anche solo simpatizzante) della sua associazione Libertà e Giustizia. Sylos Labini, Giovanni Sartori, Enzo Biagi.
Ma perfino il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha voluto sigillare la protesta con un fondo contro “il diavolo” Cav. Ricavandone nell’ordine: la palinodia di CdB; una risposta tra il vittimista e lo spazientito del Cav. e l’opportunità di replicargli, a brutto muso per una volta ancora. E’ stato invece, come tutti sanno, il prodiano Arturo Parisi a disseppellire la questione morale facendone il lamento dei giusti (per autoproclama) contro il risorgente malaffare che coinvolgerebbe anche i Ds, con quel loro presunto baratto per portare Claudio Petruccioli alla presidenza della Rai e con quel loro atteggiamento per lo meno tollerante verso Chicco Gnutti, Stefano Ricucci e altri “scalatori” (il prediletto è Giovanni Consorte di Unipol). Si sa come l’hanno presa i Ds, e fra loro sopra tutto quelli che non hanno mai aderito al “partito delle procure”. Tipo Emanuele Macaluso, figura storica del socialismo riformista. Macaluso ha scritto che Parisi avrebbe “vomitato” quanto Prodi teneva in pancia. Chissà se è vero. In ogni caso l’accusa dei prodiani ha trovato il suo vento e si è levata. Sostenuta dagli editoriali della domenica di Eugenio Scalfari su Repubblica (“La morale perduta”; svolgimento: “Quest’intenso discutere di morale mi allarma. Sono infatti convinto che quando la morale diventa argomento di vivace discussione, essa stia scomparendo dai comportamenti degli individui e dei gruppi sociali”. Segue predica morale con citazione berlingueriana, tocco antiberlusconiano, polemica su Bankitalia e sulla timidezza dell’opposizione. Coda d’insoddisfazione per il contegno dalemiano) e di Barbara Spinelli su La Stampa. Spinelli se possibile è quasi definitiva e le rincresce molto “la grande illusione che Mani pulite fosse servita a qualcosa” perché “il malaffare permane” e “ha ragione Arturo Parisi quando parla di questione morale”. Così, mentre l’Unità si fida poco finanche del passo indietro di De Benedetti, faccende di dimensione e consistenza vaga, imprecisa, vengono trattate con tetraggine d’altri tempi.
Emanuele Macaluso si è arrabbiato, dicevamo. Secondo lui “non è così semplice la cosa e la questione morale va inquadrata nella storia politica d’Italia”. Perché “c’è sempre stata la questione morale, in uno Stato come il nostro sostanzialmente immorale, mai di diritto perché ha convissuto con mafia e scandali. A cominciare dalla fine dell’Ottocento con quello della Banca Romana”. Di fondo “c’è una storia tipica fatta di moralismi e trasgressioni le più incredibili. In cui lo Stato italiano ha sempre oscillato tra le leggi eccezionali e le tolleranze. Ed emergenza e tolleranza non fanno uno Stato di diritto. Proprio il contrario. Eppoi basta pensare alle inchieste parlamentari sulla mafia condotte mentre lo Stato trattava con la mafia. Idem con il terrorismo: abbiamo questa doppiezza su cui bisogna riflettere preliminarmente”. Detto questo, è vero che dalla fine dei Settanta qualcosa cambia nel Pci che si propone come forza di rottura non solo ideologica ma adesso prevalentemente morale. L’intervista di Berlinguer – è sempre Macaluso – coincide con l’emergenza P2. L’impasto di una loggia massonica dove figuravano iscritti di tutti i tipi. Dai capi dei carabinieri a finanzieri, politici, poliziotti, servizi eccetera. Una specie di raduno di uomini che rappresentavano lo Stato ma in un recinto parallelo. Berlinguer aveva la preoccupazione fondamentale di una crisi dei partiti, del sistema politico. Partiti che decidevano su tutto. La sua idea era di fare un passo indietro. Eravamo dentro una crisi del sistema cominciata con la morte di Aldo Moro. Non c’era ricambio politico. Ma ci siamo ancora dentro, in questa crisi endemica”. Forse perché “Berlinguer commise l’errore di non capire che il problema non era solo di far fare un passo indietro ai partiti, ma di rendere agibile il sistema con le alternative di governo, cioè con un Pci che non si limitasse allo strappo con i partiti comunisti dell’Est. Berlinguer ebbe la remora di non dire chiaramente che il partito poteva essere forza di governo, con una piena adesione alla socialdemocrazia europea.
Ebbe l’idea di poter superare la crisi di sistema sollevando la questione morale e cercando l’acquisizione, nella coscienza storica, della diversità comunista”. Ma se ci fu inadeguatezza allora, esiste oggi ed è esistita fino a ieri l’altro una coazione a ripetere secondo la quale Mani pulite è stata la prosecuzione (incompiuta) con mezzi giudiziari della battaglia morale che ancora agita i girotondi e i Sylos Labini. “Mani pulite è dentro quella logica. Arriva quando il sistema è già in coma e nel pieno della crisi totale dei partiti. Non è vero che la crisi arriva da Mani Pulite, già nel 1992 il fenomeno era visibile nella Lega che portava a Roma 80 parlamentari. Tangentopoli arriva veramente nel 1993, ed è l’epilogo di quella crisi. Una rinuncia della politica che fu evidente in occasione del famoso discorso di Bettino Craxi, quando il leader socialista pose alla Camera la questione su quanti sapevano del sistema di finanziamenti illeciti. Craxi disse quello che disse e nessuno si alzò, allora fu chiaro cos’era la rinuncia della politica. Qualcuno ha pensato che il braccio della magistratura potesse aiutare la riconversione del sistema politico. Io non ho mai creduto all’asse Pds-Ds-Magistratura. C’è stato qualcosa, vabbè, con Violante. Ma era il convincimento che, siccome la magistratura in assenza della politica aveva preso il suo ruolo, tutto sommato quel ruolo avrebbe favorito il ricambio. Neanche per sogno, invece”.
Oggi è diverso ma in fondo, dice Macaluso, “siamo ancora lì. Non c’è stata la ricostruzione di un sistema di partiti, che si sono frantumati come si è frantumato il progetto berlusconiano del 1994. Come la società civile che doveva surrogare quella politica in crisi. Tutte balle. Oggi ancora una volta si è rinunciato a una battaglia per ricostruire le grandi forze politiche e collegarle al mondo. La questione di cui più si parla, il comportamento di Bankitalia, suggerisce che è inutile pigliarsela con i giudici quando è la politica a mancare. In America quando hanno dovuto colpire certi fenomeni hanno colpito approntando una legge adeguata. Una risposta della politica. Da noi la politica non è stata in grado di concludere nulla dopo lo scandalo Parmalat”. Pure il sottofondo moralistico è rimasto uguale? Il caso di De Benedetti fa scuotere la testa a Macaluso. “La sinistra pensa che De Benedetti possa essere il proprio oracolo. Invece lui, nella pratica di intrecciare affari e politica, è come Berlusconi. Lo ha sempre fatto, ha sempre avuto le mani in pasta nella costruzione di governi attraverso associazioni e giornali. Sempre con l’obiettivo di influenzare la politica, sempre tenendo fermi i suoi affari. Questa la logica. Oggi la cosa è venuta un po’ più allo scoperto per il legame tra i due. Ecco cosa rimprovero alla sinistra: di avere pensato che l’Ingegnere potesse essere un patriarca della sinistra”. Quanto alle insinuazioni sui Ds, “non sono iniziative d’occasione. Coloro che attaccano sono gli epigoni di una storia. Usano metodi che in passato furono usati da esponenti del Pci contro i loro stessi compagni. Cosa è l’intervista al Corriere di Parisi? Il tentativo di solleticare il girotondismo, da una parte, e dall’altra certe forze della borghesia per dire loro: badate non vi fidate di questi ex comunisti. Il discorso è indirizzato alle fasce plebee (anche se in mezzo c’è qualche professore universitario), perché di plebeismo si tratta nel caso dei girotondi. Ma anche però alla Confindustria e ad altri poteri per dire: state attenti che questi qui, i Ds, poi si mettono d’accordo con gli uomini che sono arrivati all’ultimo momento. I Ricucci i Fiorani i Consorte. E siccome Parisi sapeva certamente che i vari Della Valle avevano fatto le loro polemiche contro i lanzichenecchi, ha pensato bene di dire: noi siamo un’altra cosa. Il professore vi può garantire anche questo.
E’ stato tutto un gioco per fottere i Ds. I quali Ds sono un po’ coglioni, non si accorgono delle cose, anche se ora reagiscono”.
Altro ex Pci disincantato, Duccio Trombadori, altro uomo di sinistra estraneo alle prefetture di polizia morale. Esplicito. Secondo Trombadori “Berlinguer tentò di far uscire il Pci dalla osservanza ad Est e dalle sue proprie contraddizioni, invece che per la strada maestra della socialdemocrazia, accentuando una linea tradizionale di stampo radical-azionista: dunque virtuista, ideologicamente antifascista e tendenzialmente forcaiola. Il rinnovamento socialista-democratico dell’Italia, e la vocazione nazionale popolare del Pci, veniva subordinata al pregiudizio della bonifica dei partiti come se questi ultimi fossero i veri e i soli responsabili della nota corruttela istituzionale. Il singolare connubio di azionismo laicista e massonico e radicalismo comunisteggiante segnò anche la politica “europea” di Berlinguer per svincolare il suo partito dal confronto con la alternativa socialista e liberale che in Italia gli indicava Craxi”. Questo “grande peccato d’origine” ha fatto da battistrada ai successivi sviluppi storico-politici “di cui il Pci è stato oggetto e soggetto per varie circostanze fino ad oggi facendo dell’Italia quel ‘paese anormale’ che è, con buona pace di Massimo D’Alema che, sia pure con qualche variante, è stato seguace diretto della linea berlingueriana. O almeno lo fu senza mai rompere”. Anche per Trombadori “nei primi anni Ottanta, le accuse di Berlinguer avevano una consistenza. Ma tutto fu estremizzato al punto tale da far precipitare gli equilibri politici fino allo sfascio della Prima repubblica”.
Quel messaggio antipolitico “non poteva poi non piacere a certi esponenti del managerialismo di Stato, vissuti all’ombra ma non del tutto compromessi con le logiche di partito. Come per esempio quei tecnocrati democristiani per lo più ‘di sinistra’ che ritrovavano nella linea berlingueriana una specie di verginità per un capitalismo di Stato che intendeva mantenere il suo potere attraverso l’appoggio del partito comunista”. Antonio Socci, giornalista Rai, editorialista del Giornale, ha toccato questo capitolo in un’inchiesta scritta nel 1987, insieme con Roberto Fontolan, per il settimanale “Il Sabato”. Titolo, “Tredici anni della nostra storia”. Un lavoro che ha procurato a Socci notorietà e un sacco di antipatie. Nella puntata numero 14 Socci incrocia la questione morale. Ci arriva un poco di striscio ma ci arriva, e lo fa partendo dai “grandi potentati contro le formazioni politiche”. Siamo alla metà dei Settanta e nel mondo della finanza azionista (“tecnocrazia e grande industria”, all’epoca nome e cognome della Fiat) prende forma il progetto di laico-illuminista (così nella definizione di Giorgio Galli che Socci riporta) di “colonizzare il Pci portandolo su posizioni liberal (per questo nasce nel ’76 la Repubblica di Scalfari e Caracciolo, cognato di Agnelli). E comprarsi la Dc (come fosse in svendita) per farne un partito repubblicano di massa: i due poli. Così matura la candidatura di Umberto Agnelli nella Dc. I risultati del 20 giugno 1976 portano il Pci al 33,8 per cento (la Dc è al 38,9). Ci sono dunque le condizioni per realizzare quel patto fra produttori che assesterebbe un brutto colpo al sistema dei partiti. E la sua forma non può essere che quella di un accordo tra una Dc ‘agnelliana’ e un Pci scalfarizzato. I giochi sembrano ormai fatti. A far saltare il piano saranno Moro e Andreotti”.
Da qui muove una ricognizione su “Andreotti il guastafeste” scelto da Aldo Moro per reggere il governo che, con l’astensione del Pci, procederà al risanamento di conti pubblici voraginosi e all’abbattimento di una spaventosa inflazione. Eppure, scrive Socci che fino al 1980 le varie “aree tecnocratiche” si trovano “coalizzate” contro la segreteria Dc. Nel 1980, dopo la sconfitta di Andreotti, l’Italia è in mano ai potentati economici e finanziari (i partiti sono impotenti e sconfitti): si prepara il grande scontro interno al Palazzo”. Molto in breve: l’inchiesta ripercorre l’incredibile vicenda di Moro (anno 1978), rapito nel giorno in cui il governo Andreotti (il Pci nella maggioranza) doveva presentarsi alle Camere. Poi, tra un’allusione e l’altra, tra una deduzione e la successiva sul ruolo della P2 contro la Dc di Moro e Zaccagnini: “Fatto sta che, scomparso Moro, l’istigazione di Scalfari verso il Pci ebbe finalmente successo. ‘Dal ’79 in poi’ racconta Scalfari ‘la questione morale’ ha preso il posto del compromesso storico nell’agenda berlingueriana. Quella è stata secondo me la svolta di fondo, nella evoluzione del Pci… In questi dieci anni’, conclude, ‘il nostro gruppo di opinione e soprattutto le testate giornalistiche che lo rappresentano, la Repubblica, l’Espresso e Panorama, ha adempiuto egregiamente, per la sua parte, al ruolo di laicizzare la chiesa comunista’. E’ un brano rivelatore – ora è di nuovo Socci – il grande cavallo di battaglia è proprio lo spauracchio dello scandalismo: la questione morale viene da loro contrabbandata come la degenerazione del sistema dei partiti, che va dunque ‘riformata’. (Ma lungi da loro per esempio l’idea di ‘moralizzare la finanza o la Grande industria). Il tam tam si farà assordante verso il 1980 grazie anche ai giornali del gruppo Rizzoli (controllato da Licio Gelli): la via d’uscita che questi indicavano doveva essere una sorta di golpe istituzionale che portasse al governo dei tecnici […]”.
Cronologicamente:
1) Alla fine del 1979 il Pci abbandona Andreotti; nell’agosto dell’80 scoppia la bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, culmine di una “spettacolare e sospetta escalation del terrorismo”;
2) Collassa la credibilità dei partiti, “causa di sfacelo e corruzione. Con il novembre 1980 la parola d’ordine assordante è: questione morale”.
3) Flaminio Piccoli diventa segretario della Dc, il suo vice e futuro successore è Ciriaco De Mita, “la prospettiva per quelle lobbies che vollero questa svolta nella Dc”. Sarà De Mita a nominare Romano Prodi al vertice dell’Iri.
4) Il Corriere della Sera fa da grancassa alla richiesta di un “governo dei tecnici” guidato da Bruno Visentini.
“Con i partiti ridotti a fantasmi di se stessi (o burattini di molti burattinai)” – concludono Socci e Fontolan – “tre grandi lobbies sono ormai padrone assolute della piazza”. Queste lobbies, ora convergenti ora no, nell’inchiesta risultano essere la P2 di Gelli “che controlla i giornali del gruppo Rizzoli”, il gruppo Agnelli (“giornali, Confindustria, Mediobanca eccetera) e il gruppo “De Benedetti, Caracciolo, Scalfari”. Oggi Antonio Socci conferma che in quegli anni “Berlinguer, invece di parlare di quello politico, all’improvviso prese a parlare un linguaggio moralistico-metafisico”.
E’ in quegli anni, negli anni Settanta, che “si affacciò l’idea tecnocratica di ascendenza azionista, secondo la definizione di Augusto Del Noce, che ha sempre contestato i grandi partiti popolari usciti vincitori o sconfitti dalle elezioni del 1948: Dc, Pci e Psi. Questa casta d’illuminati ha sempre creduto che per destino dovesse rappresentare il governo vero dell’Italia. Fino ad allora s’erano dovuti accontentare della Banca d’Italia, di ministeri economici e giornali. Poi, finalmente, si sono sentiti pronti a prendere le redini dell’Italia”. La realtà che ha oggi davanti a sé Antonio Socci è completamente diversa. Persino da Tangentopoli. “Oggi gli schieramenti non sono così netti”. Secondo lui “l’unica risonanza di tipo moralistico è in effetti percepibile intorno alla vicenda De Benedetti-Berlusconi. Lì sì, è come ci fosse un problema di sangue. Ciò che in una splendida inchiesta di Luca Ricolfi, ricercatore all’Università di Torino, viene chiamato ‘razzismo etico’: una posizione ideologica tipica del centrosinistra, che consiste nel ritenere moralmente inferiore gli avversari”. Quanto al resto, “mancano gli ingredienti, gli elementi materiali per costruire il teatrino. Le plebi non si lasciano infiammare dai nomi di Ricucci e degli altri. Non è neppure chiaro chi siano. In più non c’è l’alto grado di impatto emotivo rappresentato dai risparmiatori penalizzati da Parmalat”. Il presupposto, dice Socci è che “il meccanismo giustizialista, dal punto di vista filosofico, ha un’essenza giacobina, manichea e gnostica. Ha bisogno di una chiara, nettissima delimitazione delle parti in causa. Bianco e nero.
La regola fondamentale del gioco è questa: deve essere abbastanza chiaro per il pubblico quali sono i due fronti. Da una parte deve esserci il male assoluto (a suo tempo Craxi), dall’altra il bene assoluto (a suo tempo Di Pietro). Oggi non li vedo questi giocatori. La cosa funziona ancora per Berlusconi, il brutto sporco e cattivo. Ma adesso non si capisce granché da che parte stia Berlusconi. Certo, se riusciranno a tirarcelo, allora sì, allora il giochetto potrebbe funzionare”. Fermo restando però che “neanche i bambini crederebbero a Prodi nel ruolo di bene assoluto mentre solleva una ‘questione morale’. Al massimo può avvalersi di un piccolo spunto propagandistico per una campagna elettorale che parte alla lontana. Una furbatella. Ma onestamente, Prodi nelle vesti del giacobino giustizialista non è credibile, è dal 1978 che fa il ministro. Non è che sia precisamente una vestale”. C’è infine un elemento che Socci vuole illuminare: “Rispetto a quanto scrivevo dieci anni fa, contro il moralismo usato come arma ideologica, riconosco che c’è comunque un problema oggettivo di moralità. L’alternativa non può essere tra il giustizialismo e la totale mancanza di regole e d’un minimo di correttezza. Nel caso attuale non riuscirei a scrivere dove come e perché le regole non hanno funzionato”. Qualcuno si avvantaggerà della situazione? Lo farà in senso “antipolitico” come sembrò durante Tangentopoli? “Sia nella vicenda di Berlinguer sia in Tangentopoli il vero monstrum era l’Italia dei partiti. Quella vissuta in un sistema bloccato in cui non c’era ricambio né controllo. Fondamentalmente era un’Italia politica con grande cultura d’appartenenza, con realtà popolari. Oggi non è così. Anzi paradossalmente se dovessimo dire cosa c’è rimasto dell’Italia dei partiti, diremmo Ds e An. Tangentopoli ebbe successo anche perché cadde in concomitanza con una finanziaria da novantamila miliardi di vecchie lire, il prelievo forzoso dei conti correnti e così via. La gente si sentiva fisicamente, personalmente derubata. Ma ormai la questione morale è uno slogan, potrebbe anche essere impugnata dal centrodestra, come in effetti avvenne nel caso Telekom Serbia (al di là della mazzetta presa o meno, la questione investì la liceità di finanziare il dittatore Milosevic). Di più: da un punto di vista culturale sarebbe proprio la destra la legittima proprietaria della questione morale-politica. I “partiti forchettoni” era una formula adottata dal vecchio Msi. In fondo quale è stato l’effetto più grande, oltre alla distruzione della Dc, di Tangentopoli? La fine dell’arco costituzionale e la ‘legalizzazione’ del Msi”.
«Il Foglio» del 26 luglio 2011
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