Quando essere anticomunisti era considerato un reato. La viltà di chi ha voluto nascondere le vere dimensioni della persecuzione comunista. L’incomprensione della natura ideologica del marxismo-leninismo
di Roberto De Mattei
Nel novembre del 1997 il velo di silenzio che sembrava destinato ad avvolgere l'ottantesimo anniversario della Rivoluzione di Ottobre fu squarciato dalla pubblicazione in Francia del Libro nero del comunismo, un volume di oltre ottocento pagine in cui una équipe di storici coordinati da Stéphane Courtois, si proponeva di tracciare il tragico bilancio dei crimini commessi dal comunismo nel XX secolo. Il totale delle vittime registrate da Courtois e dai suoi collaboratori, oltre 85 milioni, costituisce una cifra impressionante ma certamente sottostimata.
Quando Solgenitsin, in un discorso alla Duma del 28 ottobre 1994, parlò di 60 milioni di vittime per la sola Russia, nessuno sollevò obiezioni. L'8 ottobre 1971 Mao Tse Dong dichiarò all'imperatore d'Etiopia Hailé Sellassié in visita ufficiale a Pechino che il costo in vite umane "delle vittorie del socialismo" dal 1949 (anno della proclamazione della Repubblica popolare cinese) era stato di "cinquanta milioni di morti". Eugenio Corti, ricordando l'episodio, aggiunge che una contabilità più precisa ci è offerta da un importante studio demografico di Paul Paillat e Alfred Sauvy pubblicato sulla rivista Population nel 1974, dopo che Pechino ebbe finalmente resi pubblici i dati riguardanti la popolazione: nelle statistiche cinesi, in poco più di vent'anni, risultavano mancanti 150 milioni di persone.
Al di là del costo quantitativo, verosimilmente ascrivibile ad oltre duecento milioni di vittime, esiste una dimensione qualitativa del Terrore comunista, ben nota in Occidente prima del crollo del Muro di Berlino e dell'apertura degli archivi dell'Est europeo. «Tutti - ricorda Vladimir Bukovskji - lo capivano, lo sapevano, lo intuivano, ma non ne volevano parlare, perché cercavano di sopravvivere non di combattere contro il comunismo» (Gli archivi segreti di Mosca, tr. it., Spirali, Milano 1999 p. 66).
Se è vero infatti che il filo rosso del terrore sostanzia tutta la storia del comunismo, dal 1917 ai nostri giorni, è anche vero che a questa storia si è sempre accompagnata, nello spazio di 80 anni, una letteratura di sistematica denuncia della portata criminale di questo sistema.
Sarebbe interessante tracciare, accanto all'inventario dei crimini del comunismo, il catalogo non meno significativo delle voci inascoltate che nello spazio di oltre settant'anni denunciarono tali crimini, prima che il Libro nero del comunismo li portasse alla ribalta mediatica.
Ma sarebbe altrettanto importante tracciare una storia dell'atteggiamento di complicità, di silenzio, di omissione, di coloro che comunisti non erano, ma che ritenevano che l'anticomunismo rappresentasse un pericolo maggiore del comunismo.
All'indomani della caduta del Muro di Berlino, in un suo importante studio dal titolo Comunismo e Anticomunismo alle soglie dell'ultima decade di questo millennio (sul Corriere della Sera del 7 marzo 1990 e su Il Tempo dell'8 marzo 1990), il pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira chiedeva un grande atto di giustizia nei confronti del comunismo, interpellando di fronte al tribunale della storia non solo i dirigenti supremi della Russia sovietica e delle nazioni satelliti, ma anche tutti coloro che avevano taciuto, collaborato, prolungato con le loro sovvenzioni l'azione dei carnefici, perseguitato e diffamato gli anticomunisti.
La storia della politica di distensione dei governi occidentali nei confronti del comunismo è ancora tutta da scrivere. Ma il giudizio morale è stato dato, ed è inappellabile. Vladimir Bukovskji lo riassume in questi termini: «quand'anche il più compiacente intelletto ci suggerisse giustificazioni logicamente irreprensibili e apparentemente nobili, la coscienza farebbe sentire la sua voce: la nostra perdizione èiniziata quando abbiamo accettato una "coesistenza pacifica" con il male" (p. 65).
«La verità - ha scritto a sua volta Barbara Spinelli - è che gli Stati liberali hanno dimenticato il prezzo morale che pagarono per ottenere la coesistenza pacifica. Non solo erano partiti dall'idea che l'unica strada possibile fosse la distensione, ma in più credevano che quest'ultima rappresentasse anche l'unica soluzione morale: una convinzione che pesa tuttora sulla vita interna dei Paesi dell'Unione. Il selvaggio matrimonio con le dittature seminò confusione nel loro senso morale, e semina confusione ancora oggi. Avevano vissuto in concubinato con un sistema la cui realtà non vollero apprendere allora e non intendono apprendere oggi. Quasi non si erano accorti, presi com'erano dalla pur legittima paura di una terza guerra mondiale, che dietro la cortina di ferro esisteva gente che aveva dovuto far proprie non solo le ragioni della coesistenza, ma anche quel che discendeva da tali ragioni: l'accettazione della necessità fatale della dittatura, e del suo permanere" (Il sonno della memoria. L'Europa dei totalitarismi, Oscar Mondadori, Milano 2004, pp. 105-106).
L:accettazione della "coesistenza pacifica" con il male ebbe la sua radice nella convinzione che il male non fosse tale, perché iscritto nella "irreversibilità" della storia. L:Occidente non rifiutò l'idea comunista, ma i tempi e i modi della sua affermazione storica, giudicata inevitabile.
Negli anni di maggior opposizione al comunismo, quelli della guerra fredda, il cosiddetto anticomunismo si limitò a combattere la potenza militare sovietica, il suo espansionismo, i suoi missili, i suoi carri armati, senza risalire a quella dottrina marx-Ieninista che ne costituiva l'anima e la ragione. Quando nel 1975 Enrico Berlinguer lanciò l'''eurocomunismo'', gli anticomunisti non lo accusarono di voler trasformare l'Europa in senso comunista, ma di non essere "sincero" nel suo proclamato distacco dall'Unione Sovietica: il mito di un socialismo de-sovietizzato, di un possibile socialismo "dal volto umano", nutriva l'Occidente.
È anche per questo che negli ambienti che controllano i "media" dell'immagine e della carta stampata, il comunismo, anche dopo la sua caduta, non è mai stato sentito come un "male", alla stessa maniera del nazionalsocialismo.
Eppure, fin dal 1937, Pio XI, nell'enciclica Divini Redemptoris, affermando che «assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo», offriva in maniera sintetica ma articolata la prima e per molti versi insuperata analisi della dottrina comunista, definendola come un sistema ideologico intrinsecamente perverso, con il quale nessun compromesso era possibile.È
questo un punto cruciale. Una delle principali, forse la principale ragione del successo del comunismo, è stata la mancanza di comprensione dell'ideologia comunista e, prima ancora, la mancanza di comprensione del ruolo delle idee nella storia.
Il grave errore della cultura liberale e di quella cattolica è stato, secondo Augusto Del Noce, quello di aver sottovalutato la forza ideologica del marxismo e nell'averlo ridotto a scienza della società o a teoria economica. In realtà il marxismo è una completa ed unitaria concezione del mondo per cui l'uomo, la società e lo stesso universo vanno intesi come realtà materiale in perenne evoluzione conflittuale; proprio in questo aspetto dialettico, più ancora che in quello sociologistico e materialistico, sta il suo aspetto radicalmente rivoluzionario.S
olo una riflessione sull'essenza ideologica del marxismo ci può aiutare a comprenderne la parabola, dal cosiddetto "socialismo reale", dalla Rivoluzione d'Ottobre fino alla perestrojka di Gorbaciov e la risorgenza attraverso le metamorfosi precedenti e successive all'attentato delle Twin Towers.
L’Unione Sovietica si è dissolta, ma gli errori fermentati in Russia si sono diffusi nel mondo. Non si tratta solo della permanenza di Stati ufficialmente comunisti, dalla "superpotenza" cinese alla micropotenza cubana. Il comunismo è sopravvissuto trasformandosi; ha perso le sue caratteristiche monolitiche ed è divenuto neo-trotzkismo, nazional-comunismo, anarco-comunismo, comunismo "cognitivo" o mentale. Gli errori ideologici del comunismo si sono liberati dall'involucro dello Stato sovietico e si sono diffusi nel mondo, contaminando realtà che fino allora erano rimaste immuni da questa influenza, a cominciare dal mondo islamico.U
no studioso italiano dell'lslam, Renzo Guolo, ha definito "Ieninismo religioso" la visione di Osama Bin Laden: il Jihad inteso come guerra di annientamento del nemico attraverso gli strumenti della guerra e del terrorismo. Ma accanto a questa linea dura, dall'alto, di leninismo religioso, ve ne è un'altra, "dolce" ma non meno insidiosa, che potremmo definire una linea di "gramscismo religioso": la conquista dell'Occidente attraverso la prevalenza demografica e l'islamizzazione delle istituzioni e degli spazi sociali.
In entrambi i casi assistiamo ad una "contaminazione" della "filosofia del Corano" con la prassi rivoluzionaria marxista importata dall'Occidente. Il marxismo è stato definito dal sociologo Jules Monnerot come l'islamismo del secolo XX. Oggi fa la sua apparizione un neo-islamismo che potrebbe essere definito il neo-comunismo del secolo ventesimo, o meglio un islamo-marxismo animato da quella medesima avversione alla civiltà occidentale e cristiana che costituì il nucleo del comunismo novecentesco.
Lo spirito di "coesistenza pacifica" con i nemici dell'Occidente non si è dissolto. Così come ieri vi era chi riteneva che l'anticomunismo fosse un male peggiore del comunismo, oggi non manca chi pensa che la lotta contro il terrorismo islamo-comunista sia un male peggiore del terrorismo, o addirittura costituisca la vera causa del terrorismo. Sarebbe da irresponsabili pensare di consegnare il nostro futuro nelle mani di coloro che la storia ha dimostrato essere "falsi profeti".
Le vittime secondo il Libro nero del comunismo
URSS: 20 milioni di morti;
Cina: 65 milioni di morti;
Vietnam: 1 milione di morti:
Corea del nord: 2 milioni di morti;
Cambogia: 2 milioni di morti;
Europa dell’est: 1 milione di morti;
America Latina: 150.000 morti;
Africa: 1 milione e 700.000 morti;
Afghanistan: 1 milione e 500.000 morti;
Movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere: circa 10.000 morti.
Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.
Quando Solgenitsin, in un discorso alla Duma del 28 ottobre 1994, parlò di 60 milioni di vittime per la sola Russia, nessuno sollevò obiezioni. L'8 ottobre 1971 Mao Tse Dong dichiarò all'imperatore d'Etiopia Hailé Sellassié in visita ufficiale a Pechino che il costo in vite umane "delle vittorie del socialismo" dal 1949 (anno della proclamazione della Repubblica popolare cinese) era stato di "cinquanta milioni di morti". Eugenio Corti, ricordando l'episodio, aggiunge che una contabilità più precisa ci è offerta da un importante studio demografico di Paul Paillat e Alfred Sauvy pubblicato sulla rivista Population nel 1974, dopo che Pechino ebbe finalmente resi pubblici i dati riguardanti la popolazione: nelle statistiche cinesi, in poco più di vent'anni, risultavano mancanti 150 milioni di persone.
Al di là del costo quantitativo, verosimilmente ascrivibile ad oltre duecento milioni di vittime, esiste una dimensione qualitativa del Terrore comunista, ben nota in Occidente prima del crollo del Muro di Berlino e dell'apertura degli archivi dell'Est europeo. «Tutti - ricorda Vladimir Bukovskji - lo capivano, lo sapevano, lo intuivano, ma non ne volevano parlare, perché cercavano di sopravvivere non di combattere contro il comunismo» (Gli archivi segreti di Mosca, tr. it., Spirali, Milano 1999 p. 66).
Se è vero infatti che il filo rosso del terrore sostanzia tutta la storia del comunismo, dal 1917 ai nostri giorni, è anche vero che a questa storia si è sempre accompagnata, nello spazio di 80 anni, una letteratura di sistematica denuncia della portata criminale di questo sistema.
Sarebbe interessante tracciare, accanto all'inventario dei crimini del comunismo, il catalogo non meno significativo delle voci inascoltate che nello spazio di oltre settant'anni denunciarono tali crimini, prima che il Libro nero del comunismo li portasse alla ribalta mediatica.
Ma sarebbe altrettanto importante tracciare una storia dell'atteggiamento di complicità, di silenzio, di omissione, di coloro che comunisti non erano, ma che ritenevano che l'anticomunismo rappresentasse un pericolo maggiore del comunismo.
All'indomani della caduta del Muro di Berlino, in un suo importante studio dal titolo Comunismo e Anticomunismo alle soglie dell'ultima decade di questo millennio (sul Corriere della Sera del 7 marzo 1990 e su Il Tempo dell'8 marzo 1990), il pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira chiedeva un grande atto di giustizia nei confronti del comunismo, interpellando di fronte al tribunale della storia non solo i dirigenti supremi della Russia sovietica e delle nazioni satelliti, ma anche tutti coloro che avevano taciuto, collaborato, prolungato con le loro sovvenzioni l'azione dei carnefici, perseguitato e diffamato gli anticomunisti.
La storia della politica di distensione dei governi occidentali nei confronti del comunismo è ancora tutta da scrivere. Ma il giudizio morale è stato dato, ed è inappellabile. Vladimir Bukovskji lo riassume in questi termini: «quand'anche il più compiacente intelletto ci suggerisse giustificazioni logicamente irreprensibili e apparentemente nobili, la coscienza farebbe sentire la sua voce: la nostra perdizione èiniziata quando abbiamo accettato una "coesistenza pacifica" con il male" (p. 65).
«La verità - ha scritto a sua volta Barbara Spinelli - è che gli Stati liberali hanno dimenticato il prezzo morale che pagarono per ottenere la coesistenza pacifica. Non solo erano partiti dall'idea che l'unica strada possibile fosse la distensione, ma in più credevano che quest'ultima rappresentasse anche l'unica soluzione morale: una convinzione che pesa tuttora sulla vita interna dei Paesi dell'Unione. Il selvaggio matrimonio con le dittature seminò confusione nel loro senso morale, e semina confusione ancora oggi. Avevano vissuto in concubinato con un sistema la cui realtà non vollero apprendere allora e non intendono apprendere oggi. Quasi non si erano accorti, presi com'erano dalla pur legittima paura di una terza guerra mondiale, che dietro la cortina di ferro esisteva gente che aveva dovuto far proprie non solo le ragioni della coesistenza, ma anche quel che discendeva da tali ragioni: l'accettazione della necessità fatale della dittatura, e del suo permanere" (Il sonno della memoria. L'Europa dei totalitarismi, Oscar Mondadori, Milano 2004, pp. 105-106).
L:accettazione della "coesistenza pacifica" con il male ebbe la sua radice nella convinzione che il male non fosse tale, perché iscritto nella "irreversibilità" della storia. L:Occidente non rifiutò l'idea comunista, ma i tempi e i modi della sua affermazione storica, giudicata inevitabile.
Negli anni di maggior opposizione al comunismo, quelli della guerra fredda, il cosiddetto anticomunismo si limitò a combattere la potenza militare sovietica, il suo espansionismo, i suoi missili, i suoi carri armati, senza risalire a quella dottrina marx-Ieninista che ne costituiva l'anima e la ragione. Quando nel 1975 Enrico Berlinguer lanciò l'''eurocomunismo'', gli anticomunisti non lo accusarono di voler trasformare l'Europa in senso comunista, ma di non essere "sincero" nel suo proclamato distacco dall'Unione Sovietica: il mito di un socialismo de-sovietizzato, di un possibile socialismo "dal volto umano", nutriva l'Occidente.
È anche per questo che negli ambienti che controllano i "media" dell'immagine e della carta stampata, il comunismo, anche dopo la sua caduta, non è mai stato sentito come un "male", alla stessa maniera del nazionalsocialismo.
Eppure, fin dal 1937, Pio XI, nell'enciclica Divini Redemptoris, affermando che «assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo», offriva in maniera sintetica ma articolata la prima e per molti versi insuperata analisi della dottrina comunista, definendola come un sistema ideologico intrinsecamente perverso, con il quale nessun compromesso era possibile.È
questo un punto cruciale. Una delle principali, forse la principale ragione del successo del comunismo, è stata la mancanza di comprensione dell'ideologia comunista e, prima ancora, la mancanza di comprensione del ruolo delle idee nella storia.
Il grave errore della cultura liberale e di quella cattolica è stato, secondo Augusto Del Noce, quello di aver sottovalutato la forza ideologica del marxismo e nell'averlo ridotto a scienza della società o a teoria economica. In realtà il marxismo è una completa ed unitaria concezione del mondo per cui l'uomo, la società e lo stesso universo vanno intesi come realtà materiale in perenne evoluzione conflittuale; proprio in questo aspetto dialettico, più ancora che in quello sociologistico e materialistico, sta il suo aspetto radicalmente rivoluzionario.S
olo una riflessione sull'essenza ideologica del marxismo ci può aiutare a comprenderne la parabola, dal cosiddetto "socialismo reale", dalla Rivoluzione d'Ottobre fino alla perestrojka di Gorbaciov e la risorgenza attraverso le metamorfosi precedenti e successive all'attentato delle Twin Towers.
L’Unione Sovietica si è dissolta, ma gli errori fermentati in Russia si sono diffusi nel mondo. Non si tratta solo della permanenza di Stati ufficialmente comunisti, dalla "superpotenza" cinese alla micropotenza cubana. Il comunismo è sopravvissuto trasformandosi; ha perso le sue caratteristiche monolitiche ed è divenuto neo-trotzkismo, nazional-comunismo, anarco-comunismo, comunismo "cognitivo" o mentale. Gli errori ideologici del comunismo si sono liberati dall'involucro dello Stato sovietico e si sono diffusi nel mondo, contaminando realtà che fino allora erano rimaste immuni da questa influenza, a cominciare dal mondo islamico.U
no studioso italiano dell'lslam, Renzo Guolo, ha definito "Ieninismo religioso" la visione di Osama Bin Laden: il Jihad inteso come guerra di annientamento del nemico attraverso gli strumenti della guerra e del terrorismo. Ma accanto a questa linea dura, dall'alto, di leninismo religioso, ve ne è un'altra, "dolce" ma non meno insidiosa, che potremmo definire una linea di "gramscismo religioso": la conquista dell'Occidente attraverso la prevalenza demografica e l'islamizzazione delle istituzioni e degli spazi sociali.
In entrambi i casi assistiamo ad una "contaminazione" della "filosofia del Corano" con la prassi rivoluzionaria marxista importata dall'Occidente. Il marxismo è stato definito dal sociologo Jules Monnerot come l'islamismo del secolo XX. Oggi fa la sua apparizione un neo-islamismo che potrebbe essere definito il neo-comunismo del secolo ventesimo, o meglio un islamo-marxismo animato da quella medesima avversione alla civiltà occidentale e cristiana che costituì il nucleo del comunismo novecentesco.
Lo spirito di "coesistenza pacifica" con i nemici dell'Occidente non si è dissolto. Così come ieri vi era chi riteneva che l'anticomunismo fosse un male peggiore del comunismo, oggi non manca chi pensa che la lotta contro il terrorismo islamo-comunista sia un male peggiore del terrorismo, o addirittura costituisca la vera causa del terrorismo. Sarebbe da irresponsabili pensare di consegnare il nostro futuro nelle mani di coloro che la storia ha dimostrato essere "falsi profeti".
Le vittime secondo il Libro nero del comunismo
URSS: 20 milioni di morti;
Cina: 65 milioni di morti;
Vietnam: 1 milione di morti:
Corea del nord: 2 milioni di morti;
Cambogia: 2 milioni di morti;
Europa dell’est: 1 milione di morti;
America Latina: 150.000 morti;
Africa: 1 milione e 700.000 morti;
Afghanistan: 1 milione e 500.000 morti;
Movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere: circa 10.000 morti.
Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.
«Il Timone» n. 36 - Settembre/Ottobre 2004
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