Mentre nelle arti figurative le «scuole» hanno sempre prodotto capolavori, in letteratura non hanno mai lasciato nulla. Come il Gruppo 63, i «cannibali», i Trenta-Quarantenni
di Massimiliano Parente
Monet e Cézanne, incontrandosi, avrebbero parlato di pittura, perché una mela dipinta dall’uno o dall’altro si trasformavano in due universi tra loro inconciliabili. Picasso e Braque avrebbero parlato di cubismo. Worringer e Kandinskij di astrattismo. Tristan Tzara e Hugo Ball di quale happening dadaista organizzare al Cabarat Voltaire. Erano le avanguardie, chiamate storiche perché furono le prime, e storicamente anche le ultime.
Ciascuna con il suo manifesto poetico e spesso con finalità didattico-pratiche da fai-da-te tipo impara l’arte e mettila in cucina vicino alla minestrina. Dal Manifesto tecnico della pittura futurista al come trovare un objet trouvé al come comporre un cadavre exquis. Dove il più megalomane era il Surrealismo di André Breton, il quale reclutava retroattivamente anche i morti, secondo il principio: non era Breton a essere baudelairano ma Baudelaire a essere un pre-surrealista.
Se tuttavia nelle arti figurative le avanguardie hanno dato il meglio di se stesse, in letteratura non hanno mai prodotto granché, cioè tanto fumo, tra una barricata e l’altra del 1914-18, tra interventisti e pacifisti pantofolai, e poco arrosto, zero capolavori, zero opere. Marinetti produceva librini gadget come Uccidiamo il Chiaro di Luna!, Mafarka il futurista, paroliberi come Zang Tung Tung per finire in futuro nella biblioteca futurista di Mughini, e questo mentre Joyce, Proust, Musil e Kafka scrivevano in silenzio capolavori assoluti.
Sarà perché la letteratura si fa da soli e non esistono colleghi, come diceva Gombrowicz «sono limitati da se stessi, dalla loro stessa folla», e perfino l’incontro tra Joyce e Proust fu raggelante, e il succo della conversazione fu questo: «L’ha letto il mio Ulisse?». Proust: «Non ho avuto tempo».
Così dopo un altro mezzo secolo mentre nelle arti figurative italiane dal Neo-Dada veniva fuori quel genio di Piero Manzoni e a New York dalla Pop-Art quell’altro genio di Andy Warhol, qui aprivano baracca e burattini il Gruppo 63 e i Novissimi, che sembravano già vecchissimi. Almeno in Francia all’«OuLiPo» passavano Queneau, Cortázar e Borges, da noi peggio del Gruppo 63 non c’era nulla, solo Nanni Balestrini e il suo «Vogliamo tutto», ossia una carriera.
In America, negli anni Sessanta, si sa, c’erano i beat, e anche lì poche opere, al massimo il lungo rotolo di carta igienica su cui fu dattilografato On the road di Jack Kerouac tra canne e ruttini di birra e fogli unti e bisunti di Charles Bukowski e compagnia scorreggiona, e da noi a chiedersi per decenni quale femme fatale dovesse essere Fernanda Pivano per farseli tutti: gente che finiva a letto con chiunque, non distingueva il lavandino dal water e aveva avuto il culo di nascere nell’era dello svacco e della poesia sulla gara a chi pisciava più lontano.
Al giorno d’oggi poi l’avanguardia è una commedia all’italiana, perfino i pochi grandi non organizzati sono umanamente finiti troppo bene o troppo male per poter essere presi come esempi. Per esempio Aldo Busi, fondatore dell’avanguardia dei busiani, cioè o siete me o non siete niente, non scrive più libri ma ha inaugurato una tecnica di guerriglia al contrario: concedere interviste per farsele rifiutare. Funziona così: un giornalista gli chiede un’intervista, Busi gli dice «Sì ma non devi tagliare nulla», l’ingenuo acconsente e gli manda cinque domande alle quali Busi risponde con due pagine a domanda. Il povero giornalista non può pubblicarla e l’intervista «censurata» va su Dagospia o su altriabusi.it dove finiscono anche suoi scambi di mail privati a insaputa del destinatario. Lo ha fatto anche con me, credendo di farmi dispetto nel raccontare i cazzi miei, non sapendo che non ho una vita privata, e quindi come si dice a Roma: stikazzi.
Tra giovani scrittori ci si raggruppa alla meno peggio, per tentare un colpo di Stato o almeno un colpo di culo, una P2 o P3 o P4 letteraria di borghesi piccoli piccoli e tristi tristi, avessero preso almeno lo spirito di Amici miei, neppure quello. Già negli anni Novanta ci avevano provato con la Gioventù Cannibale, erano cattivi, erano pulp, mangiavano bambini, finiti presto a pulire pannolini: Tiziano Scarpa con un romanzino per dire quanto è bello essere diventato papà, Silvia Ballestra per celebrare la sua maternità, Aldo Nove ha scritto perfino un poemetto alla Madonna. L'unico vero trasgressivo che conosco è il poeta Sandrino De Fazi, in arte Sisso, insegna latino a Caserta e la sua pagina di Facebook è un evento irrinunciabile, fosse per me gli darei il Nobel.
Intanto i vecchi residuati bellici della critica militante come Angelo Guglielmi si aggirano ogni anno a Villa Giulia e attaccano sbiascicanti nenie autocelebrative appena vedono una lucina di telecamera o almeno il telefonino di Fulvio Abbate per parlare a Teledurruti («Quando c’ero io a Rai Tre si faceva avanguardia...»), e comunque si sa, a causa di Pier Vittorio Tondelli non ci sono più vecchi, tutti sono sempre under qualcosa: under 20, under 25, under 30, under 40, e chi più ne under più ne metta.
Si finisce nel 2011 che non hanno niente in comune se non l’età e il bisogno di un posto fisso, un finanziamento statale, un’Officina Italia, uno straccio di programmino tv per venire via con loro e loro non se ne vanno mai. Essendo nel frattempo cresciuti, avendo superato i quarant’anni e non sapendo come fare a definirsi ancora under qualcosa, a maggio scorso si sono chiamati TQ, ossia Trentenni-Quarantenni, in nome della lotta al precariato. Letterariamente, non avendo prodotto niente di importante, sono già morti, a Roma domenica scorsa organizzano a San Lorenzo un convegnetto estivo a cui non si presenta nessuno, la prossima volta meglio organizzarlo direttamente al cimitero del Verano. Biologicamente moriranno comunque giovani, sia i T che i Q, anche se dovessero campare molto e diventare CS e SO, tumulati under novanta e meritatamente underground per sempre.
Ciascuna con il suo manifesto poetico e spesso con finalità didattico-pratiche da fai-da-te tipo impara l’arte e mettila in cucina vicino alla minestrina. Dal Manifesto tecnico della pittura futurista al come trovare un objet trouvé al come comporre un cadavre exquis. Dove il più megalomane era il Surrealismo di André Breton, il quale reclutava retroattivamente anche i morti, secondo il principio: non era Breton a essere baudelairano ma Baudelaire a essere un pre-surrealista.
Se tuttavia nelle arti figurative le avanguardie hanno dato il meglio di se stesse, in letteratura non hanno mai prodotto granché, cioè tanto fumo, tra una barricata e l’altra del 1914-18, tra interventisti e pacifisti pantofolai, e poco arrosto, zero capolavori, zero opere. Marinetti produceva librini gadget come Uccidiamo il Chiaro di Luna!, Mafarka il futurista, paroliberi come Zang Tung Tung per finire in futuro nella biblioteca futurista di Mughini, e questo mentre Joyce, Proust, Musil e Kafka scrivevano in silenzio capolavori assoluti.
Sarà perché la letteratura si fa da soli e non esistono colleghi, come diceva Gombrowicz «sono limitati da se stessi, dalla loro stessa folla», e perfino l’incontro tra Joyce e Proust fu raggelante, e il succo della conversazione fu questo: «L’ha letto il mio Ulisse?». Proust: «Non ho avuto tempo».
Così dopo un altro mezzo secolo mentre nelle arti figurative italiane dal Neo-Dada veniva fuori quel genio di Piero Manzoni e a New York dalla Pop-Art quell’altro genio di Andy Warhol, qui aprivano baracca e burattini il Gruppo 63 e i Novissimi, che sembravano già vecchissimi. Almeno in Francia all’«OuLiPo» passavano Queneau, Cortázar e Borges, da noi peggio del Gruppo 63 non c’era nulla, solo Nanni Balestrini e il suo «Vogliamo tutto», ossia una carriera.
In America, negli anni Sessanta, si sa, c’erano i beat, e anche lì poche opere, al massimo il lungo rotolo di carta igienica su cui fu dattilografato On the road di Jack Kerouac tra canne e ruttini di birra e fogli unti e bisunti di Charles Bukowski e compagnia scorreggiona, e da noi a chiedersi per decenni quale femme fatale dovesse essere Fernanda Pivano per farseli tutti: gente che finiva a letto con chiunque, non distingueva il lavandino dal water e aveva avuto il culo di nascere nell’era dello svacco e della poesia sulla gara a chi pisciava più lontano.
Al giorno d’oggi poi l’avanguardia è una commedia all’italiana, perfino i pochi grandi non organizzati sono umanamente finiti troppo bene o troppo male per poter essere presi come esempi. Per esempio Aldo Busi, fondatore dell’avanguardia dei busiani, cioè o siete me o non siete niente, non scrive più libri ma ha inaugurato una tecnica di guerriglia al contrario: concedere interviste per farsele rifiutare. Funziona così: un giornalista gli chiede un’intervista, Busi gli dice «Sì ma non devi tagliare nulla», l’ingenuo acconsente e gli manda cinque domande alle quali Busi risponde con due pagine a domanda. Il povero giornalista non può pubblicarla e l’intervista «censurata» va su Dagospia o su altriabusi.it dove finiscono anche suoi scambi di mail privati a insaputa del destinatario. Lo ha fatto anche con me, credendo di farmi dispetto nel raccontare i cazzi miei, non sapendo che non ho una vita privata, e quindi come si dice a Roma: stikazzi.
Tra giovani scrittori ci si raggruppa alla meno peggio, per tentare un colpo di Stato o almeno un colpo di culo, una P2 o P3 o P4 letteraria di borghesi piccoli piccoli e tristi tristi, avessero preso almeno lo spirito di Amici miei, neppure quello. Già negli anni Novanta ci avevano provato con la Gioventù Cannibale, erano cattivi, erano pulp, mangiavano bambini, finiti presto a pulire pannolini: Tiziano Scarpa con un romanzino per dire quanto è bello essere diventato papà, Silvia Ballestra per celebrare la sua maternità, Aldo Nove ha scritto perfino un poemetto alla Madonna. L'unico vero trasgressivo che conosco è il poeta Sandrino De Fazi, in arte Sisso, insegna latino a Caserta e la sua pagina di Facebook è un evento irrinunciabile, fosse per me gli darei il Nobel.
Intanto i vecchi residuati bellici della critica militante come Angelo Guglielmi si aggirano ogni anno a Villa Giulia e attaccano sbiascicanti nenie autocelebrative appena vedono una lucina di telecamera o almeno il telefonino di Fulvio Abbate per parlare a Teledurruti («Quando c’ero io a Rai Tre si faceva avanguardia...»), e comunque si sa, a causa di Pier Vittorio Tondelli non ci sono più vecchi, tutti sono sempre under qualcosa: under 20, under 25, under 30, under 40, e chi più ne under più ne metta.
Si finisce nel 2011 che non hanno niente in comune se non l’età e il bisogno di un posto fisso, un finanziamento statale, un’Officina Italia, uno straccio di programmino tv per venire via con loro e loro non se ne vanno mai. Essendo nel frattempo cresciuti, avendo superato i quarant’anni e non sapendo come fare a definirsi ancora under qualcosa, a maggio scorso si sono chiamati TQ, ossia Trentenni-Quarantenni, in nome della lotta al precariato. Letterariamente, non avendo prodotto niente di importante, sono già morti, a Roma domenica scorsa organizzano a San Lorenzo un convegnetto estivo a cui non si presenta nessuno, la prossima volta meglio organizzarlo direttamente al cimitero del Verano. Biologicamente moriranno comunque giovani, sia i T che i Q, anche se dovessero campare molto e diventare CS e SO, tumulati under novanta e meritatamente underground per sempre.
«A» del luglio 2011
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