di Roberto Beretta
Bombardate la Padania col napalm! Potrebbe sembrare un progetto di fantapolitica terroristica (con kamikaze islamici a bordo di aerei-cisterna dirottati dall’Afghanistan...) e invece è già avvenuto. È accaduto precisamente nell’inverno 1944, quando gli Alleati scatenarono l’operazione "Pancake" a supporto delle operazioni di terra, all’epoca concentrate sul fiume Senio, in Romagna. «Nel giro di dieci giorni – scrive il ricercatore Andrea Villa – 700 bombardieri pesanti, 300 bombardieri medi e 270 caccia sganciarono 1161 tonnellate di bombe contro 74 obiettivi»; bombe che erano state riempite con «una miscela di recente invenzione, chiamata napalm, i cui effetti erano ancora tutti da verificare e da indagare».
E infatti, con scrupolo molto professionale, i servizi segreti inglesi inviarono subito dopo alcune pattuglie di infiltrati, perché catturassero soldati tedeschi sopravvissuti ai bombardamenti: per interrogarli ed esaminarli. L’Italia come laboratorio di sperimentazione di armi chimiche poi divenute tristemente famose molto più a est, in Vietnam negli anni Sessanta. È tuttavia una notizia insolita, tra le molte documentate dalla scrupolosa ricerca che Villa ha condotto attingendo ai rapporti ufficiali della Raf (l’aviazione britannica) e ad altri archivi londinesi, ed ha pubblicato nella Guerra aerea sull’Italia (1943-1945) (Guerini e associati, pagine 302, euro 28,00).
Alcune tragiche chicche dello studio: il "metodo Zuckerman", escogitato da un professore oxfordiano e che consisteva nel radere al suolo i paesini meridionali: insignificanti come obiettivi militari, ma in grado di ingombrare con le loro stesse macerie le principali vie di comunicazione. I bombardamenti delle raffinerie di Ploiesti in Romania, quelle che fornivano il petrolio a Hitler, partivano tutti dalla Puglia e dalla Campania. L’eroica avventura dell’Italian Air Force, gruppo aereo costituito da piloti e meccanici italiani fuggiti oltre le linee dopo l’8 settembre 1943 e impegnati – su mezzi di fortuna – nei Balcani e in Grecia, ma anche in Polonia, a sganciare armi su Varsavia insorta. L’uso di Pantelleria e della Sicilia come test per lo sbarco in Normandia.
Eccetera. Ma torniamo al napalm sull’Italia del Nord. La sostanza, inventata nel 1942, aveva la capacità di trasformare la benzina o il gasolio in una sorta di gelatina, che così non vaporizzava più e aveva la proprietà di bruciare molto più a lungo, essendo inoltre impermeabile all’acqua. Un’arma micidiale: i test, effettuati in America nel 1944, avevano constatato gli effetti devastanti della miscela, con cui si poteva carbonizzare una vasta area in pochissimi secondi e persino i mezzi corazzati non uscivano indenni dal fiume di fuoco.
Ma le prime prove furono effettuate direttamente sul campo, dai marines sbarcati a Salerno il 9 settembre 1943 ed equipaggiati con 15.000 lanciafiamme al napalm. L’anno dopo si passò appunto alle bombe, sganciate nel Nord Italia. Il 12 ottobre 1944 un’incursione di 60 apparecchi colpì i dintorni di Bologna e gli inglesi poterono catturare alcuni militari germanici feriti, i quali restituirono gli effetti della nuova invenzione: ogni bomba era in grado di incenerire qualunque cosa in un’area di 60 metri per 30, «un terribile fuoco che bruciava molto rapidamente. Tanti soldati erano rimasti gravemente ustionati ed era difficile respirare».
L’efficacia era tale che gli Alleati pensarono di aumentare l’uso delle bombe incendiarie, il cui lato "spettacolare" era inoltre in grado di terrorizzare i nemici e galvanizzare le proprie truppe, soprattutto nei teatri di guerra più difficili; per esempio durante la battaglia delle Ardenne usarono per la prima volta il napalm su una piccola città tedesca verso il confine col Belgio. Ma era legale l’uso di queste armi "non convenzionali"? Il Protocollo firmato a Ginevra nel 1925 impediva l’uso di armi batteriologiche e chimiche, ma si riferiva solo ai gas tossici; del resto, gli Alleati erano convinti (non senza fondamento, visto l’uso che il nostro esercito ne aveva fatto in Eritrea) che in Italia vi fossero bombe chimiche, magari nascoste, e si sentivano dunque legittimati a fare più o meno lo stesso.
E infatti da noi – scrive Villa – «tale miscela tornò ad essere impiegata tra marzo e aprile 1945 su alcune zone dell’Emilia e del Nord-Est, dove ancora resistevano in maniera accanita i reparti tedeschi. Tra il 5 e il 6 aprile furono colpite le strade tra Novellara e Reggio Emlia e i dintorni di Viadana e Fidenza con 28 bombe da circa 100 kg l’una. Nei giorni successivi altri 200 ordigni vennero sganciati su Rovereto, San Stino di Livenza e altri paesi nelle province di Verona, Venezia, Trieste». Poi la sperimentazione finì, e fortunatamente anche la guerra.
E infatti, con scrupolo molto professionale, i servizi segreti inglesi inviarono subito dopo alcune pattuglie di infiltrati, perché catturassero soldati tedeschi sopravvissuti ai bombardamenti: per interrogarli ed esaminarli. L’Italia come laboratorio di sperimentazione di armi chimiche poi divenute tristemente famose molto più a est, in Vietnam negli anni Sessanta. È tuttavia una notizia insolita, tra le molte documentate dalla scrupolosa ricerca che Villa ha condotto attingendo ai rapporti ufficiali della Raf (l’aviazione britannica) e ad altri archivi londinesi, ed ha pubblicato nella Guerra aerea sull’Italia (1943-1945) (Guerini e associati, pagine 302, euro 28,00).
Alcune tragiche chicche dello studio: il "metodo Zuckerman", escogitato da un professore oxfordiano e che consisteva nel radere al suolo i paesini meridionali: insignificanti come obiettivi militari, ma in grado di ingombrare con le loro stesse macerie le principali vie di comunicazione. I bombardamenti delle raffinerie di Ploiesti in Romania, quelle che fornivano il petrolio a Hitler, partivano tutti dalla Puglia e dalla Campania. L’eroica avventura dell’Italian Air Force, gruppo aereo costituito da piloti e meccanici italiani fuggiti oltre le linee dopo l’8 settembre 1943 e impegnati – su mezzi di fortuna – nei Balcani e in Grecia, ma anche in Polonia, a sganciare armi su Varsavia insorta. L’uso di Pantelleria e della Sicilia come test per lo sbarco in Normandia.
Eccetera. Ma torniamo al napalm sull’Italia del Nord. La sostanza, inventata nel 1942, aveva la capacità di trasformare la benzina o il gasolio in una sorta di gelatina, che così non vaporizzava più e aveva la proprietà di bruciare molto più a lungo, essendo inoltre impermeabile all’acqua. Un’arma micidiale: i test, effettuati in America nel 1944, avevano constatato gli effetti devastanti della miscela, con cui si poteva carbonizzare una vasta area in pochissimi secondi e persino i mezzi corazzati non uscivano indenni dal fiume di fuoco.
Ma le prime prove furono effettuate direttamente sul campo, dai marines sbarcati a Salerno il 9 settembre 1943 ed equipaggiati con 15.000 lanciafiamme al napalm. L’anno dopo si passò appunto alle bombe, sganciate nel Nord Italia. Il 12 ottobre 1944 un’incursione di 60 apparecchi colpì i dintorni di Bologna e gli inglesi poterono catturare alcuni militari germanici feriti, i quali restituirono gli effetti della nuova invenzione: ogni bomba era in grado di incenerire qualunque cosa in un’area di 60 metri per 30, «un terribile fuoco che bruciava molto rapidamente. Tanti soldati erano rimasti gravemente ustionati ed era difficile respirare».
L’efficacia era tale che gli Alleati pensarono di aumentare l’uso delle bombe incendiarie, il cui lato "spettacolare" era inoltre in grado di terrorizzare i nemici e galvanizzare le proprie truppe, soprattutto nei teatri di guerra più difficili; per esempio durante la battaglia delle Ardenne usarono per la prima volta il napalm su una piccola città tedesca verso il confine col Belgio. Ma era legale l’uso di queste armi "non convenzionali"? Il Protocollo firmato a Ginevra nel 1925 impediva l’uso di armi batteriologiche e chimiche, ma si riferiva solo ai gas tossici; del resto, gli Alleati erano convinti (non senza fondamento, visto l’uso che il nostro esercito ne aveva fatto in Eritrea) che in Italia vi fossero bombe chimiche, magari nascoste, e si sentivano dunque legittimati a fare più o meno lo stesso.
E infatti da noi – scrive Villa – «tale miscela tornò ad essere impiegata tra marzo e aprile 1945 su alcune zone dell’Emilia e del Nord-Est, dove ancora resistevano in maniera accanita i reparti tedeschi. Tra il 5 e il 6 aprile furono colpite le strade tra Novellara e Reggio Emlia e i dintorni di Viadana e Fidenza con 28 bombe da circa 100 kg l’una. Nei giorni successivi altri 200 ordigni vennero sganciati su Rovereto, San Stino di Livenza e altri paesi nelle province di Verona, Venezia, Trieste». Poi la sperimentazione finì, e fortunatamente anche la guerra.
«Avvenire» del 19 luglio 2011
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