di Daniele Zappalà
«I cittadini provano oggi sempre più l’impressione sgradevole di essere sommersi da un’abbondanza, un’"info-obesità", quasi un caos d’informazione, ma c’è una soluzione a questo disorientamento ed è il giornalismo». Ad esserne profondamente convinto è Eric Scherer, oggi direttore della strategia digitale della televisione pubblica francese ed autore di un Manifesto del giornalismo espanso (Editions Puf) che sta facendo molto discutere in Francia.
Lei sottolinea innanzitutto che si accede oggi all’attualità non più necessariamente attraverso i menù offerti dai media tradizionali. Chi "consuma" l’informazione è davvero più attivo?
«Credo di sì, perché oggi chiunque ha la possibilità di scegliere ed il menù è meno imposto che mai dai media tradizionali. Anche per questo, ad esempio, l’editoriale di un quotidiano di riferimento come "Le Monde" ha oggi un’influenza minore rispetto al passato. Attraverso internet, il cittadino può cercare in modo più autonomo l’informazione. Dipende poi dai casi, naturalmente, se ciò sia un bene o un male, ma in ogni caso si tratta di un dato di fatto».
Come definirebbe i cambiamenti in corso?
«Assomigliano un po’ a quanto avvenne nel XV secolo, con un controllo sempre più allargato e diffuso degli strumenti di produzione e diffusione dell’informazione. Ciò può essere visto pure come una democratizzazione della scrittura e produce un’esplosione esponenziale di contenuti digitali, interessanti o meno».
Per il giornalismo, questo contesto coincide con nuove sfide?
«Sì e direi davvero cruciali. In questo nuovo scenario, i giornalisti dovranno esercitare in modo più ampio ed articolato i loro tradizionali compiti di selezione, verifica, gerarchizzazione, valorizzazione dell’informazione, restituendo ad essa anche quel senso che la sovrabbondanza di internet tende a dissolvere. Occorre ridurre in tal modo l’effetto di frastuono legato ad internet, facendo così pure guadagnare del tempo ai cittadini».
Si può dire che il problema principale dell’informazione su internet è proprio un fallimento dei filtri?
«Sì, ed il giornalismo può divenire, anche su internet, il filtro della vita digitale del XXI secolo, oltre a conservare il suo tradizionale ruolo di cane da guardia della democrazia».
Può farci un esempio concreto?
«Le rivoluzioni nel mondo arabo hanno dato vita a un’autentica esplosione di blog ed altre testimonianze digitali di prima mano provenienti dai popoli arabi. Grazie alla sua professionalità e all’utilizzo di Twitter, il giornalista della radio pubblica americana Andy Carvin è riuscito ad assicurare un filtro selettivo delle migliori fonti divenuto poi pure un eccellente strumento di lavoro per la comunità giornalistica».
Il giornalismo deve attualmente pure difendere la propria funzione di pilastro della democrazia?
«Questa funzione resta fondamentale, ma in effetti deve essere più che mai sormontato il problema economico del finanziamento del giornalismo d’inchiesta e in generale di qualità. Non a caso, in molti Paesi anglosassoni sono spesso oggi delle fondazioni o altri organismi no profit a finanziare questo tipo di lavoro giornalistico, con tutti i rischi che ciò comporta in termini d’indipendenza. Le fondazioni hanno infatti spesso un preciso orientamento».
Lei difende la causa di un "giornalismo espanso". Cosa intende?
«Non ci sono mai state così tante opportunità come oggi di far meglio il mestiere di giornalista. Ma occorre che i giornalisti accettino di allargare i propri recinti d’azione e di competenza per entrare in interazione con tutte le capacità e risorse esterne oggi esistenti. Ad esempio, quelle provenienti dalla partecipazione attiva del pubblico. La missione di diffusione dovrà trasformarsi in parte anche in una missione di conversazione. Molte altre risorse esterne provengono dalle nuove tecnologie, le quali permettono fra l’altro forme arricchite di presentazione narrativa dell’informazione».
Lei sottolinea la rinnovata necessità di rafforzare il rapporto di fiducia del pubblico verso l’attività giornalistica. Lo scandalo appena rivelato in Gran Bretagna rappresenta una sorta di avvertimento?
«È uno scandalo che giunge in un pessimo momento e che getta fango sul giornalismo in generale. Negli Stati Uniti e in Europa, cresce da tempo una forma nuova di diffidenza popolare verso tutte le istituzioni tradizionali, dunque anche verso il corpo professionale dei giornalisti. In questo contesto difficile, occorre almeno augurarsi che lo scandalo britannico possa accelerare la fine di certe pratiche di connivenza fra i giornalisti e gli ambienti politici e di polizia».
Lei sottolinea innanzitutto che si accede oggi all’attualità non più necessariamente attraverso i menù offerti dai media tradizionali. Chi "consuma" l’informazione è davvero più attivo?
«Credo di sì, perché oggi chiunque ha la possibilità di scegliere ed il menù è meno imposto che mai dai media tradizionali. Anche per questo, ad esempio, l’editoriale di un quotidiano di riferimento come "Le Monde" ha oggi un’influenza minore rispetto al passato. Attraverso internet, il cittadino può cercare in modo più autonomo l’informazione. Dipende poi dai casi, naturalmente, se ciò sia un bene o un male, ma in ogni caso si tratta di un dato di fatto».
Come definirebbe i cambiamenti in corso?
«Assomigliano un po’ a quanto avvenne nel XV secolo, con un controllo sempre più allargato e diffuso degli strumenti di produzione e diffusione dell’informazione. Ciò può essere visto pure come una democratizzazione della scrittura e produce un’esplosione esponenziale di contenuti digitali, interessanti o meno».
Per il giornalismo, questo contesto coincide con nuove sfide?
«Sì e direi davvero cruciali. In questo nuovo scenario, i giornalisti dovranno esercitare in modo più ampio ed articolato i loro tradizionali compiti di selezione, verifica, gerarchizzazione, valorizzazione dell’informazione, restituendo ad essa anche quel senso che la sovrabbondanza di internet tende a dissolvere. Occorre ridurre in tal modo l’effetto di frastuono legato ad internet, facendo così pure guadagnare del tempo ai cittadini».
Si può dire che il problema principale dell’informazione su internet è proprio un fallimento dei filtri?
«Sì, ed il giornalismo può divenire, anche su internet, il filtro della vita digitale del XXI secolo, oltre a conservare il suo tradizionale ruolo di cane da guardia della democrazia».
Può farci un esempio concreto?
«Le rivoluzioni nel mondo arabo hanno dato vita a un’autentica esplosione di blog ed altre testimonianze digitali di prima mano provenienti dai popoli arabi. Grazie alla sua professionalità e all’utilizzo di Twitter, il giornalista della radio pubblica americana Andy Carvin è riuscito ad assicurare un filtro selettivo delle migliori fonti divenuto poi pure un eccellente strumento di lavoro per la comunità giornalistica».
Il giornalismo deve attualmente pure difendere la propria funzione di pilastro della democrazia?
«Questa funzione resta fondamentale, ma in effetti deve essere più che mai sormontato il problema economico del finanziamento del giornalismo d’inchiesta e in generale di qualità. Non a caso, in molti Paesi anglosassoni sono spesso oggi delle fondazioni o altri organismi no profit a finanziare questo tipo di lavoro giornalistico, con tutti i rischi che ciò comporta in termini d’indipendenza. Le fondazioni hanno infatti spesso un preciso orientamento».
Lei difende la causa di un "giornalismo espanso". Cosa intende?
«Non ci sono mai state così tante opportunità come oggi di far meglio il mestiere di giornalista. Ma occorre che i giornalisti accettino di allargare i propri recinti d’azione e di competenza per entrare in interazione con tutte le capacità e risorse esterne oggi esistenti. Ad esempio, quelle provenienti dalla partecipazione attiva del pubblico. La missione di diffusione dovrà trasformarsi in parte anche in una missione di conversazione. Molte altre risorse esterne provengono dalle nuove tecnologie, le quali permettono fra l’altro forme arricchite di presentazione narrativa dell’informazione».
Lei sottolinea la rinnovata necessità di rafforzare il rapporto di fiducia del pubblico verso l’attività giornalistica. Lo scandalo appena rivelato in Gran Bretagna rappresenta una sorta di avvertimento?
«È uno scandalo che giunge in un pessimo momento e che getta fango sul giornalismo in generale. Negli Stati Uniti e in Europa, cresce da tempo una forma nuova di diffidenza popolare verso tutte le istituzioni tradizionali, dunque anche verso il corpo professionale dei giornalisti. In questo contesto difficile, occorre almeno augurarsi che lo scandalo britannico possa accelerare la fine di certe pratiche di connivenza fra i giornalisti e gli ambienti politici e di polizia».
«Avvenire» del 26 luglio 2011
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