di Roberto Marchesini
È il cuore del problema dell’omosessualità. Si può uscirne e ritrovare la propria identità originaria. Circa un terzo di coloro che hanno cominciato la terapia riparativa ci sono riusciti e altrettanti hanno conosciuto sensibili miglioramenti.
Uno dei “miti” della propaganda gay afferma che gli omosessuali non possono cambiare orientamento; ne conseguirebbe che l’unica cosa che possono fare è rassegnarsi alla propria omosessualità e interrompere gli sforzi per opporvisi.
Ogni tentativo di cambiare orientamento non sarebbe altro che un inutile tormento dettato da una sadica “omofobia” travestita da benevolenza.
Peccato che le cose non stiano affatto così: gli omosessuali possono cambiare orientamento.
Lo dimostrano l’esperienza clinica degli psicoterapeuti Nicolosi e van den Aardweg, e una ormai storica ricerca condotta dallo psicoanalista Irving Bieber, secondo la quale circa il 27% dei pazienti con tendenze omosessuali sottopostisi a un trattamento psicoanalitico aveva cambiato orientamento sessuale. Non va dimenticato il prezioso ed inaspettato sostegno ai fautori della possibilità di cambiamento giunto nel 2003 da parte di Robert Spitzer, docente alla Columbia University di New York, il quale, dopo aver esaminato il percorso di cambiamento di circa 200 ex-omosessuali, ha dichiarato: «Come molti psichiatri io pensavo che alla tendenza omosessuale si potesse solamente resistere e che non potesse realmente cambiare l’orientamento sessuale. Ora credo che questa convinzione sia falsa. Alcune persone con orientamento omosessuale possono cambiare e cambiano».
La psicoterapia riparativa – ossia la psicoterapia che ha come obiettivo il ri-orientamento sessuale – non è l’unica via di cambiamento per le persone che soffrono per un orientamento omosessuale indesiderato: soprattutto negli Stati Uniti ci sono diversi gruppi religiosi – per la maggior parte protestanti – che propongono un cammino spirituale e umano che può portare a superare le ferite che hanno causato l’orientamento omosessuale. Il più importante di questi gruppi, operante anche in Europa, è Living Waters, fondato da Andrew Comiskey, ex omosessuale ed ora pastore protestante coniugato.
Diverse testimonianze di cambiamento e ricerche che dimostrano la possibilità di un ri-orientamento si possono trovare sul sito www.pathinfo.org, del forum denominato Positive Alternative to Homosexuality – “alternative positive all’omosessualità” – che
raccoglie associazioni e gruppi, scientifici e pastorali, che propongono una visione dell’omosessualità “positiva”, ossia differente a quella della rassegnazione gay.
Tra le varie testimonianze di cambiamento è disponibile sul sito del NARTH – National Research and Therapy of Homosexuality, l’Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell’Omosessualità, diretta da Nicolosi, quella di Stefaan che, attraverso un percorso spirituale, ha riconquistato la sua eterosessualità: «Potrei dire che non ho avuto un modello di padre e di uomo. Per riassumere un po’, ho avuto un’infanzia poco felice, anche se sembrava che i miei genitori facessero del loro meglio. Durante l’adolescenza non mi sentivo all’altezza d’essere un maschio: la pressione in me era intensa, tutto prendeva proporzioni sempre più grandi, il desiderio erotico-sessuale diventava ossessivo, la masturbazione, da anni praticata più volte al giorno come sollievo, era ancora più immaginativa e di consolazione. Ricercavo la forza e la sicurezza in altri uomini, volevo dagli altri quello che non possedevo! […] Non voglio dire che sono guarito, perché vorrebbe dire ch’ero malato, e che l’omosessualità è dunque una malattia; ma piuttosto che prima vivevo separato della mia identità, non ero mai stato confermato come uomo da mio padre! Il processo di maturazione era bloccato. Cercavo solamente di acquistare la mia mascolinità in un modo sbagliato! Non ritornerei indietro nel passato e in quel falso io, e sono contento d’avere capito cosa in me e fuori da me ha fatto sì che io abbia avuto dei problemi d’omosessualità».
Purtroppo, in Italia, grazie al clima terroristico creato dagli attivisti gay attorno ai tentativi di cambiamento, le testimonianze sono ancora poche. Eppure, anche nella nostra penisola, qualcosa comincia a muoversi, e le prime, timide testimonianze, per ora comprensibilmente anonime, cominciano ad affiorare: «Ho capito che l’omosessualità era come una via di fuga, una uscita d’emergenza che potevo utilizzare quando il gioco si faceva troppo duro per le capacità che pensavo di avere… ora non ho più pensieri omosessuali»; «Più mi relazionavo con uomini che mi intimorivano e dai quali mi sentivo attratto, più sentivo diminuire l’attrazione nei loro confronti… adesso i pensieri omosessuali durano un attimo e sono rarissimi…»; «Fino a quando pensavo di non poter uscire dall’omosessualità mi sentivo completamente dominato da essa, la percepivo costante… adesso ho capito che è una reazione ai momenti di difficoltà e di vergogna».
Gli attivisti gay sostengono che non esiste altra risposta possibile all’omosessualità se non quella da loro proposta; per questo motivo attuano una vera e propria strategia terroristica nei confronti della terapia riparativa, in modo che venga proibita, condannata e nessun omosessuale tenti il ri-orientamento. Una delle accuse più terribili che essi muovono nei confronti della terapia riparativa è di essere una violenza alla “vera natura” della persona, tanto terribile da causare il suicidio. Intervistato su questo punto, Nicolosi ha dichiarato che nessuno dei suoi pazienti ha mai nemmeno tentato il suicidio; e per quanto riguarda la pericolosità della terapia riparativa per il benessere delle persone che vi si sottopongono, è nuovamente Spitzer ad affermare che «Al contrario, i soggetti della mia ricerca riferiscono che essa è stata utile a prescindere dallo stesso cambiamento di orientamento sessuale».
Quali percentuali di successo ha la terapia riparativa? Approssimativamente, secondo le testimonianze sia di van den Aardweg che di Nicolosi, 1/3 di pieno successo (persone che hanno superato compiutamente l’omosessualità, orientandosi stabilmente e armoniosamente verso l’eterosessualità anche con forme di legame sessuale stabile con l’altro sesso); 1/3 di miglioramento della identità globale della persona, con capacità di gestirsi in modo più equilibrato; infine 1/3 di “fallimento”, inteso come persistenza nella omosessualità indesiderata (includendo anche gli abbandoni della terapia). È opportuno sottolineare che queste percentuali
sono pressappoco quelle di ogni altra psicoterapia.
E le persone che si sottopongono alla terapia riparativa con successo, non avranno più pensieri di tipo omosessuale? Non è detto.
Come scriveva Sigmund Freud nella sua Introduzione alla psicoanalisi: «Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo».
Questo significa che una persona che ha cambiato orientamento, se sottoposta ad un forte stress, a umiliazioni, alla fatica, a quelle situazioni, insomma, dove l’autostima può subire uno scossone, potrebbe avere nuovamente pensieri omosessuali; ma il meccanismo consolatorio è ormai svelato, e la persona è in grado di reagire in maniera positiva alla tentazione. Eccone una testimonianza: «La perdita di interesse per l’omosessualità è stata progressiva, e, anche se tuttora ho dei momenti in cui i pensieri omosessuali si riaffacciano alla mente, riesco subito a capire che quella tentazione sta solo cercando di colmare qualche mancanza nella mia vita e allora io colmo questo vuoto con qualcosa d’altro, semplicemente».
Sono possibili anche delle ricadute? Certo. Esattamente come nella terapia di qualsiasi altro disturbo; il che non impedisce che si continui a tentare di porvi rimedio.
Come abbiamo visto, il ri-orientamento non è semplice, e non è garantito per tutti; è la proposta di un cammino difficile che a volte può durare tutta la vita. Ma è possibile. E questo significa che l’omosessualità non è uno “stato”, una “condizione”; che non è immutabile né per sempre; e soprattutto che ci sono alternative possibili alla resa, e allo stile di vita gay.
È importante chiarire un punto: il ri-orientamento è sempre una proposta, mai una imposizione; anche perché nessuno può essere obbligato a tentare di avere nuovamente fiducia nella propria virilità.
Il ri-orientamento è dunque una proposta di libertà, non solo intesa come libera adesione ad un cammino o come liberazione da una tendenza non desiderata; ma anche perché offre alle persone con tendenze omosessuali una possibilità di scelta tra l’ideologia gay e il combattimento contro pulsioni non desiderate e percepite come estranee.
L’ideologia gay vuole invece limitare questa libertà, affermandosi come unica risposta all’omosessualità. Non è così: una alternativa positiva all’omosessualità è possibile.
Uno dei “miti” della propaganda gay afferma che gli omosessuali non possono cambiare orientamento; ne conseguirebbe che l’unica cosa che possono fare è rassegnarsi alla propria omosessualità e interrompere gli sforzi per opporvisi.
Ogni tentativo di cambiare orientamento non sarebbe altro che un inutile tormento dettato da una sadica “omofobia” travestita da benevolenza.
Peccato che le cose non stiano affatto così: gli omosessuali possono cambiare orientamento.
Lo dimostrano l’esperienza clinica degli psicoterapeuti Nicolosi e van den Aardweg, e una ormai storica ricerca condotta dallo psicoanalista Irving Bieber, secondo la quale circa il 27% dei pazienti con tendenze omosessuali sottopostisi a un trattamento psicoanalitico aveva cambiato orientamento sessuale. Non va dimenticato il prezioso ed inaspettato sostegno ai fautori della possibilità di cambiamento giunto nel 2003 da parte di Robert Spitzer, docente alla Columbia University di New York, il quale, dopo aver esaminato il percorso di cambiamento di circa 200 ex-omosessuali, ha dichiarato: «Come molti psichiatri io pensavo che alla tendenza omosessuale si potesse solamente resistere e che non potesse realmente cambiare l’orientamento sessuale. Ora credo che questa convinzione sia falsa. Alcune persone con orientamento omosessuale possono cambiare e cambiano».
La psicoterapia riparativa – ossia la psicoterapia che ha come obiettivo il ri-orientamento sessuale – non è l’unica via di cambiamento per le persone che soffrono per un orientamento omosessuale indesiderato: soprattutto negli Stati Uniti ci sono diversi gruppi religiosi – per la maggior parte protestanti – che propongono un cammino spirituale e umano che può portare a superare le ferite che hanno causato l’orientamento omosessuale. Il più importante di questi gruppi, operante anche in Europa, è Living Waters, fondato da Andrew Comiskey, ex omosessuale ed ora pastore protestante coniugato.
Diverse testimonianze di cambiamento e ricerche che dimostrano la possibilità di un ri-orientamento si possono trovare sul sito www.pathinfo.org, del forum denominato Positive Alternative to Homosexuality – “alternative positive all’omosessualità” – che
raccoglie associazioni e gruppi, scientifici e pastorali, che propongono una visione dell’omosessualità “positiva”, ossia differente a quella della rassegnazione gay.
Tra le varie testimonianze di cambiamento è disponibile sul sito del NARTH – National Research and Therapy of Homosexuality, l’Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell’Omosessualità, diretta da Nicolosi, quella di Stefaan che, attraverso un percorso spirituale, ha riconquistato la sua eterosessualità: «Potrei dire che non ho avuto un modello di padre e di uomo. Per riassumere un po’, ho avuto un’infanzia poco felice, anche se sembrava che i miei genitori facessero del loro meglio. Durante l’adolescenza non mi sentivo all’altezza d’essere un maschio: la pressione in me era intensa, tutto prendeva proporzioni sempre più grandi, il desiderio erotico-sessuale diventava ossessivo, la masturbazione, da anni praticata più volte al giorno come sollievo, era ancora più immaginativa e di consolazione. Ricercavo la forza e la sicurezza in altri uomini, volevo dagli altri quello che non possedevo! […] Non voglio dire che sono guarito, perché vorrebbe dire ch’ero malato, e che l’omosessualità è dunque una malattia; ma piuttosto che prima vivevo separato della mia identità, non ero mai stato confermato come uomo da mio padre! Il processo di maturazione era bloccato. Cercavo solamente di acquistare la mia mascolinità in un modo sbagliato! Non ritornerei indietro nel passato e in quel falso io, e sono contento d’avere capito cosa in me e fuori da me ha fatto sì che io abbia avuto dei problemi d’omosessualità».
Purtroppo, in Italia, grazie al clima terroristico creato dagli attivisti gay attorno ai tentativi di cambiamento, le testimonianze sono ancora poche. Eppure, anche nella nostra penisola, qualcosa comincia a muoversi, e le prime, timide testimonianze, per ora comprensibilmente anonime, cominciano ad affiorare: «Ho capito che l’omosessualità era come una via di fuga, una uscita d’emergenza che potevo utilizzare quando il gioco si faceva troppo duro per le capacità che pensavo di avere… ora non ho più pensieri omosessuali»; «Più mi relazionavo con uomini che mi intimorivano e dai quali mi sentivo attratto, più sentivo diminuire l’attrazione nei loro confronti… adesso i pensieri omosessuali durano un attimo e sono rarissimi…»; «Fino a quando pensavo di non poter uscire dall’omosessualità mi sentivo completamente dominato da essa, la percepivo costante… adesso ho capito che è una reazione ai momenti di difficoltà e di vergogna».
Gli attivisti gay sostengono che non esiste altra risposta possibile all’omosessualità se non quella da loro proposta; per questo motivo attuano una vera e propria strategia terroristica nei confronti della terapia riparativa, in modo che venga proibita, condannata e nessun omosessuale tenti il ri-orientamento. Una delle accuse più terribili che essi muovono nei confronti della terapia riparativa è di essere una violenza alla “vera natura” della persona, tanto terribile da causare il suicidio. Intervistato su questo punto, Nicolosi ha dichiarato che nessuno dei suoi pazienti ha mai nemmeno tentato il suicidio; e per quanto riguarda la pericolosità della terapia riparativa per il benessere delle persone che vi si sottopongono, è nuovamente Spitzer ad affermare che «Al contrario, i soggetti della mia ricerca riferiscono che essa è stata utile a prescindere dallo stesso cambiamento di orientamento sessuale».
Quali percentuali di successo ha la terapia riparativa? Approssimativamente, secondo le testimonianze sia di van den Aardweg che di Nicolosi, 1/3 di pieno successo (persone che hanno superato compiutamente l’omosessualità, orientandosi stabilmente e armoniosamente verso l’eterosessualità anche con forme di legame sessuale stabile con l’altro sesso); 1/3 di miglioramento della identità globale della persona, con capacità di gestirsi in modo più equilibrato; infine 1/3 di “fallimento”, inteso come persistenza nella omosessualità indesiderata (includendo anche gli abbandoni della terapia). È opportuno sottolineare che queste percentuali
sono pressappoco quelle di ogni altra psicoterapia.
E le persone che si sottopongono alla terapia riparativa con successo, non avranno più pensieri di tipo omosessuale? Non è detto.
Come scriveva Sigmund Freud nella sua Introduzione alla psicoanalisi: «Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo».
Questo significa che una persona che ha cambiato orientamento, se sottoposta ad un forte stress, a umiliazioni, alla fatica, a quelle situazioni, insomma, dove l’autostima può subire uno scossone, potrebbe avere nuovamente pensieri omosessuali; ma il meccanismo consolatorio è ormai svelato, e la persona è in grado di reagire in maniera positiva alla tentazione. Eccone una testimonianza: «La perdita di interesse per l’omosessualità è stata progressiva, e, anche se tuttora ho dei momenti in cui i pensieri omosessuali si riaffacciano alla mente, riesco subito a capire che quella tentazione sta solo cercando di colmare qualche mancanza nella mia vita e allora io colmo questo vuoto con qualcosa d’altro, semplicemente».
Sono possibili anche delle ricadute? Certo. Esattamente come nella terapia di qualsiasi altro disturbo; il che non impedisce che si continui a tentare di porvi rimedio.
Come abbiamo visto, il ri-orientamento non è semplice, e non è garantito per tutti; è la proposta di un cammino difficile che a volte può durare tutta la vita. Ma è possibile. E questo significa che l’omosessualità non è uno “stato”, una “condizione”; che non è immutabile né per sempre; e soprattutto che ci sono alternative possibili alla resa, e allo stile di vita gay.
È importante chiarire un punto: il ri-orientamento è sempre una proposta, mai una imposizione; anche perché nessuno può essere obbligato a tentare di avere nuovamente fiducia nella propria virilità.
Il ri-orientamento è dunque una proposta di libertà, non solo intesa come libera adesione ad un cammino o come liberazione da una tendenza non desiderata; ma anche perché offre alle persone con tendenze omosessuali una possibilità di scelta tra l’ideologia gay e il combattimento contro pulsioni non desiderate e percepite come estranee.
L’ideologia gay vuole invece limitare questa libertà, affermandosi come unica risposta all’omosessualità. Non è così: una alternativa positiva all’omosessualità è possibile.
«Il Timone» n. 50 del febbraio 2006
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