Nelle tavole dello scrittore, una graffiante storia degli intellettuali sempre più lontani dalla realtà
di di Alessandro Gnocchi
Quando è moda, è moda. Anche in campo culturale. Alla fine degli anni Cinquanta erano rockers confinanti con la delinquenza giovanile. All’inizio degli anni Sessanta erano già diventati hippies tutti pace e amore. Nel 1968 abbandonarono le buone vibrazioni e contestarono «il sistema». Poco dopo, quando il movimento si era rivelato una bufala, sposarono la New Age. E, alla fine della corsa, eccoli nei loro eleganti attici, Martini in una mano, sigaretta nell’altra. Magari ancora radicali e attratti dall’irresistibile fascino del rivoluzionario da salotto. Senz’altro molto chic.
Sono i conformisti, ritratti dallo scrittore americano Tom Wolfe. Un osservatore implacabile. Anche quando usava la penna per disegnare e non per raccontare. Infatti l’autore è solito illustrare i suoi reportage con schizzi autografi. I lettori italiani hanno una doppia sfortuna. Una grave, a cui sta ponendo rimedio soprattutto l’editore Mondadori: sul nostro mercato mancano titoli importanti, inediti o editi ma fuori catalogo da decenni; i disegni dell’autore sono pressoché sconosciuti.
Gli americani, al contrario, li apprezzano. Al punto di accogliere Tom Wolfe al National Museum of American Illustration di Newport, per la prima volta in mostra, e accanto a Norman Rockwell, fino al 5 settembre. L’esposizione si intitola In Our Time, come una antologia di disegni pubblicata nel 1980 (i primi risalgono al 1961, la maggior parte ai pieni anni Settanta). Era già l’autore di Radical Chic (1970) ma non ancora il romanziere del Falò delle vanità (successo mondiale nel 1987). Al suo attivo aveva articoli entrati nella storia e ospitati, prima di apparire in volume, da riviste quali Rolling Stone, Esquire, Harper’s Bazaar.
Nelle caricature ci sono tutti i temi che Wolfe poi svolgerà magistralmente nei suoi articoli e nei suoi libri. La satira sul mondo della cultura è sferzante ma la sua caratteristica principale è la lungimiranza. Ci sono le consuete bordate sull’inconsistenza delle avanguardie, con un occhio di riguardo all’architettura e alla pittura. C’è la satira pura sugli intellettuali «rivoluzionari» ma non al punto di rinunciare a qualche vezzo come l’indispensabile loft e l’invito all’inaugurazione del MOMA. C’è la divertente «evoluzione della specie» che conduce il progressista dalla delinquenza giovanile alla coppa di champagne, protagonista e insieme vittima di tutte le mode imposte dal suo milieu.
Spiccano però alcune tavole, con relative didascalie, in cui Wolfe prevede l’evoluzione «rococò» del marxismo. Quella forma residuale di comunismo secondo la quale portare al potere il proletariato, per altro scomparso dai radar, sarebbe cosa volgare. Mentre consegnare il potere alle élite «davvero» democratiche (cioè post comuniste) sarebbe auspicabile anche in virtù della loro raffinatezza che presuppone una indubbia superiorità morale.
Il marxista rococò non si è arreso. E continua a fustigare la stupida borghesia facendo leva sulle «dottrine astruse» che le università degli States hanno importato dall’Europa per poi rispedirle nel Vecchio Continente. Strutturalismo, post-strutturalismo, post-modernismo, decostruzionismo, teoria dell’arte come oggetto d’uso: ecco il fumoso armamentario del marxista rococò prodigo di citazioni dai filosofi di riferimento quali Jacques Derrida o Michel Foucault.
Questa moda culturale, che considera il linguaggio una forma di oppressione borghese, e in quanto tale da smascherare, purtroppo è arrivata anche sulle nostre sponde, con quasi tre decenni di ritardo. I frutti sono davanti agli occhi di tutti: ci ha regalato il politicamente corretto, i discorsi di «genere» sull’oppressione delle donne (e di qualsiasi minoranza vi venga in mente), le polemiche sulle veline, il proliferare di parole usate fuori contesto e fatte rotolare fuori dalle labbra come rivelassero chissà cosa («narrazione» del mondo, del presente, di qualsiasi cosa, anche delle istruzioni della lavatrice, è espressione irrinunciabile, la usa perfino Nichi Vendola, deve essere roba seria).
Oltre a questo, c’è anche l’altro feticcio culturale che sarebbe esploso nel decennio successivo rispetto a In Our Time (1980): la passione per le neuroscienze come possibile chiave di comprensione di qualsiasi aspetto dell’uomo. Nel libro si riferisce sull’ironia pesante riservata dai giovani neurologi a Freud, considerato alla stregua di un poveretto privo di senso dell’umorismo. Temperamento, preferenze, emozioni sono determinati dalla genetica. Idem il libero arbitrio.
Questi temi di profondità abissale, colti con grandissimo anticipo, sono qui risolti in una battuta, o in una didascalia di accompagnamento. Ma in queste tavole c’è la satira che vorremmo sempre vedere: quella che, con una risata, ci fa capire il mondo in cui viviamo lasciando da parte la propaganda politica.
Sono i conformisti, ritratti dallo scrittore americano Tom Wolfe. Un osservatore implacabile. Anche quando usava la penna per disegnare e non per raccontare. Infatti l’autore è solito illustrare i suoi reportage con schizzi autografi. I lettori italiani hanno una doppia sfortuna. Una grave, a cui sta ponendo rimedio soprattutto l’editore Mondadori: sul nostro mercato mancano titoli importanti, inediti o editi ma fuori catalogo da decenni; i disegni dell’autore sono pressoché sconosciuti.
Gli americani, al contrario, li apprezzano. Al punto di accogliere Tom Wolfe al National Museum of American Illustration di Newport, per la prima volta in mostra, e accanto a Norman Rockwell, fino al 5 settembre. L’esposizione si intitola In Our Time, come una antologia di disegni pubblicata nel 1980 (i primi risalgono al 1961, la maggior parte ai pieni anni Settanta). Era già l’autore di Radical Chic (1970) ma non ancora il romanziere del Falò delle vanità (successo mondiale nel 1987). Al suo attivo aveva articoli entrati nella storia e ospitati, prima di apparire in volume, da riviste quali Rolling Stone, Esquire, Harper’s Bazaar.
Nelle caricature ci sono tutti i temi che Wolfe poi svolgerà magistralmente nei suoi articoli e nei suoi libri. La satira sul mondo della cultura è sferzante ma la sua caratteristica principale è la lungimiranza. Ci sono le consuete bordate sull’inconsistenza delle avanguardie, con un occhio di riguardo all’architettura e alla pittura. C’è la satira pura sugli intellettuali «rivoluzionari» ma non al punto di rinunciare a qualche vezzo come l’indispensabile loft e l’invito all’inaugurazione del MOMA. C’è la divertente «evoluzione della specie» che conduce il progressista dalla delinquenza giovanile alla coppa di champagne, protagonista e insieme vittima di tutte le mode imposte dal suo milieu.
Spiccano però alcune tavole, con relative didascalie, in cui Wolfe prevede l’evoluzione «rococò» del marxismo. Quella forma residuale di comunismo secondo la quale portare al potere il proletariato, per altro scomparso dai radar, sarebbe cosa volgare. Mentre consegnare il potere alle élite «davvero» democratiche (cioè post comuniste) sarebbe auspicabile anche in virtù della loro raffinatezza che presuppone una indubbia superiorità morale.
Il marxista rococò non si è arreso. E continua a fustigare la stupida borghesia facendo leva sulle «dottrine astruse» che le università degli States hanno importato dall’Europa per poi rispedirle nel Vecchio Continente. Strutturalismo, post-strutturalismo, post-modernismo, decostruzionismo, teoria dell’arte come oggetto d’uso: ecco il fumoso armamentario del marxista rococò prodigo di citazioni dai filosofi di riferimento quali Jacques Derrida o Michel Foucault.
Questa moda culturale, che considera il linguaggio una forma di oppressione borghese, e in quanto tale da smascherare, purtroppo è arrivata anche sulle nostre sponde, con quasi tre decenni di ritardo. I frutti sono davanti agli occhi di tutti: ci ha regalato il politicamente corretto, i discorsi di «genere» sull’oppressione delle donne (e di qualsiasi minoranza vi venga in mente), le polemiche sulle veline, il proliferare di parole usate fuori contesto e fatte rotolare fuori dalle labbra come rivelassero chissà cosa («narrazione» del mondo, del presente, di qualsiasi cosa, anche delle istruzioni della lavatrice, è espressione irrinunciabile, la usa perfino Nichi Vendola, deve essere roba seria).
Oltre a questo, c’è anche l’altro feticcio culturale che sarebbe esploso nel decennio successivo rispetto a In Our Time (1980): la passione per le neuroscienze come possibile chiave di comprensione di qualsiasi aspetto dell’uomo. Nel libro si riferisce sull’ironia pesante riservata dai giovani neurologi a Freud, considerato alla stregua di un poveretto privo di senso dell’umorismo. Temperamento, preferenze, emozioni sono determinati dalla genetica. Idem il libero arbitrio.
Questi temi di profondità abissale, colti con grandissimo anticipo, sono qui risolti in una battuta, o in una didascalia di accompagnamento. Ma in queste tavole c’è la satira che vorremmo sempre vedere: quella che, con una risata, ci fa capire il mondo in cui viviamo lasciando da parte la propaganda politica.
«Il Giornale» del 26 luglio 2011
Nessun commento:
Posta un commento