Un pensiero precorritore
di Natalino Irti
«Civilizzazione» è parola di singolare destino. Sullo scorcio dell’Ottocento, i compilatori di un Lessico dell’infima e corrotta italianità annotavano: «Ed anche questa ci vien da fuori, ed è la Civilisation, che noi possiam lasciare, contentandoci di Civiltà e Incivilimento». Ma la parola era già nell’alta e severa prosa dello Zibaldone leopardiano, ed anzi ne costituiva tema di insistito e interrogante pensiero. Civilizzazione, sebbene in qualche pagina sembri fungibile con civiltà, vi indica piuttosto il progresso tecnico, lo sviluppo di abilità costruttive, l’accrescimento di bisogni e desideri. Essa - scrive Giacomo Leopardi - sostituisce ai piaceri naturali, comuni, facili, durevoli, altri piaceri, che esigono continua soddisfazione e procurano ogni giorno nuovi patimenti. In questo senso, la civilizzazione è «affine alla corruzione», poiché, nel creare e diffondere nuovi costumi e modi di vita, distrugge la primitiva naturalità. Questo incivilimento non risponde a un disegno dell’uomo, che si attui a mano a mano nel corso del tempo, ma al caso, il quale, «variando ne’diversi remoti paesi o mancando», ne ha prodotto diversi generi o l’assoluto difetto. Dove si sia svolto e compiuto, esso presenta caratteristiche che Leopardi descrive con precorritrice acutezza. La civilizzazione tende a «conformare gli uomini e le cose umane», cioè a ridurli in unica e stabile forma: così lingua, ortografia, stile, che erano vari e discordi e incerti, volgono ormai verso l’uniformità. «La civiltà - leggiamo in uno dei Pensieri più illuminanti (1517 del 18 agosto 1821) - tira sempre... ad uniformare; e l’uniformità fra gl’individui di una nazione e fra le nazioni è sempre in ragione dei progressi generali o particolari della civiltà. Ed ella tira quindi sempre a confondere, risolvere, perdere ed agguagliare i caratteri nazionali e quindi quelli delle lingue». L’uniformità, così diagnosticata da Leopardi, oggi si allarga dalla lingua ai cibi, dal diritto alle mode del vestire, e prova a vincere le ultime resistenze di luoghi e abitudini. La tendenza all’uniformità agisce anche «fra le nazioni», e perciò valica antichi confini e non rispetta argini tradizionali. In un altro splendido pensiero (4280 del 13 aprile 1827), Leopardi coglie il carattere sconfinato della civilizzazione, che «tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione...». Oggi useremmo a tal proposito la parola «globalizzazione», ma la cosa c’è già: il «non contenersi dentro alcun termine», ossia una sorta di peccaminosa smoderatezza, che rifiuta mete precise, e non si lascia racchiudere nella gabbia dei confini. L’uniformità (che non è altro dall’omologazione pasoliniana) si propaga al mondo intero, sopprimendo la varietà dei costumi e l’essenza storica delle nazioni. A chi lo rimproveri di contraddizione - poiché, da un lato, esalta la civilizzazione come «aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di agire e somministratrice dei mezzi analoghi», e, dall’altro, ne denuncia l’affannoso bisogno di «distrazione» e la maggiore infelicità - a chi di questo lo accusi, Leopardi risponde (4187-4188 del 13 luglio 1826) che egli descrive la situazione delle cose, e tuttavia non tace esser «lo stato selvaggio, l’animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità umana». Dove cresce l’intensità delle opere, e gli animi si fanno più fragili, osserva il poeta, lì anche aumenta il grado di infelicità. In questa analisi, così schietta e dura, Leopardi offre prova di una grandezza di pensiero, che soltanto negli ultimi anni - e per merito precipuo di Emanuele Severino - gli è francamente riconosciuta. Leopardi distingue, con ferma limpidità, preferenze soggettive e situazione storica. Se per le une ha nostalgia dello stato selvaggio e primitivo, che, non agitato dal demone del fare, è più quieto e felice, l’altra gli appare ormai irreversibile. Il maggior grado di infelicità è il destino dell’Occidente. Lo Zibaldone ci sospinge, come pochi altri libri, a guardare nel nostro tempo: omologazione planetaria, ossessiva ansia dell’agire, nostalgia di età remote vi trovano un’analisi dolorosa e serena. Nei quattromila e più Pensieri, che si distendono dal 1817 fino all’ultimo del dicembre 1832, in questo che Giosuè Carducci definì «soliloquio» di Giacomo Leopardi, troviamo un breviario filosofico, che ci aiuta a capire ed a vivere.
«Corriere della sera» del 5 dicembre 2006
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