Il critico Bruno Pischedda rovescia i giudizi letterari correnti
di Paolo Di Stefano
C’è una dedica autoironica, nel nuovo libro di Bruno Pischedda (Mettere giudizio, Diabasis, pagine 227, 16), che dice bene quanto anche il buon critico, come lo scrittore, sia mosso da una sua sana ossessione che lo fa apparire subito controcorrente o comunque imprevedibile: capace cioè di rileggere in contropelo quel che tanti altri hanno letto prima di lui. La dedica recita: «Ad A. che mi accusa di incaponirmi sul De modernitate». In effetti è la modernità (una modernità che «toglie e dà») l’ossessione di Pischedda, sia che si legga il narratore (Com’è grande la città, 1996 e Carùga blues, 2003), sia che si legga l’interprete di opere letterarie (per esempio quello de La grande sera del mondo). Pischedda va a caccia dei nodi problematici che affiorano nel confronto con la cultura di massa e con i cambiamenti che questa ha comportato. E nella sua personalissima indagine, non c’è soluzione di continuità tra racconto della società che muta e diagnosi sull’editoria, sulla cultura, sulla letteratura, sulla critica letteraria. Per questo, Pischedda è un critico militante nel vero senso della parola: è un critico che, guardando i testi dal proprio punto di vista (dalle proprie ossessioni), intende esprimere dei giudizi di valore, secondo modalità e con strumenti diversi, ora sociologici, ora stilistici, ora psicologici, ora storico-politici. Il «mettere giudizio» va dunque inteso nel duplice senso di «emettere sentenze» e di «mettere la testa a posto» (quasi un invito a se stesso - da qui la rilettura di Fortini - prima che alla critica attuale), in ogni caso comunque implica una seria e coraggiosa presa di responsabilità che oggi non è moneta corrente. Pischedda indubbiamente le sue belle responsabilità se le assume, perché ama rileggere i suoi autori, dal dopoguerra a oggi, cercando di stanare i luoghi comuni e le formule trite. Senza evitare, ovviamente, di soffermarsi con particolare acume sulla letteratura che si fa sotto i suoi occhi, nella piena contemporaneità. Il suo libro raccoglie quattro tipi di intervento: «giudizi sommari», cioè vere e proprie recensioni d’occasione, letture a caldo, articoli «di pronto intervento», per usare una formula cara a Mengaldo; «giudizi di merito», che hanno un’ambizione più saggistica; «giudizi d’intrattenimento» che si soffermano sulla letteratura di genere; «giudizi a procedere», nel cui respiro anche teorico si intravede una prospettiva storiografica di lunga gittata: c’è per esempio un utile capitolo sul postmoderno italiano che, passando nel bene e nel male da alcune imprese editoriali come Stile Libero, minimum fax, Fanucci, culmina in quella «sintesi arguta tra globalismo americanista e controspinta autoctona» rappresentata dai romanzi di Camilleri. Il repertorio è molto ricco, non solo cronologicamente: si parte dai gialli Mondadori e si arriva a Benni, a Busi, agli inetti di Culicchia, passando per Fenoglio, Vittorini, Pasolini, Parise, Tadini (uno dei pochi scrittori capaci di tradurre in narrativa il «visivo mediatizzato»). Con un occhio tenuto sempre fisso sul lettore. Perché, come Pischedda osserva nella sua bella introduzione in forma di racconto, «la letteratura è esattamente ciò che i lettori reputano tale», dunque ogni preclusione snobistica sarebbe nefasta. E siccome i lettori «reputano tale» anche ciò che la critica laureata tende a ignorare, ecco un’ampia disamina sui romanzi «rosa» di Brunella Gasperini affidati a rotocalchi di grande diffusione: «una narrativa per lettrici pur sempre sotto tutela, vigilate più o meno strettamente dai genitori, ma che vengono spinte ad emanciparsene, non a confermare in modo succube una morale statuita da altri per loro». Insomma, in questa prospettiva i capovolgimenti delle opinioni vulgate sono all’ordine del giorno. Così, per esempio il giudizio di Pischedda su Vittorini, pur non essendo propriamente «sommario», riserva qualche sorpresa, arrivando alla conclusione che il suo pensiero, «mentre idoleggia una civiltà integralmente artificiale, denaturata, in quanto obiettivo di liberazione umana, rifiuta però di misurarsi in modo costruttivo con la cultura interclassista di massa che inevitabilmente vi si accompagna». Per non dire di Pasolini, il cui mito «pervasivo e ideologicamente trasversale» nasce e si diffonde in «mitografia» grazie a (e a beneficio di) una «borghesia educata» a cinema e televisione. E così, lo scandalo di Busi e il suo «talentaccio egoico» vengono ridotti a «neoromanticismo funereo». Nelle diagnosi di Pischedda anche editori comunemente considerati innovativi vengono impietosamente passati al setaccio del confronto attivo e creativo con la nuova cultura di massa: è il caso di Alberto Mondadori, il cui «dinamismo intermittente» e la cui anche tragica grandeur ne oscurarono il «senso di realtà» quando si provò a saldare «il nesso delicatissimo tra ricerca e divulgazione, tra cultura "alta" e processi di allargamento della cultura». C’è chi, nel tempo del mercato, reagisce con disillusione o con nostalgia, chi si rifugia nelle invettive viscerali, nel populismo, nel manicheismo, chi precipita in un vortice apocalittico. Chi con chiaro opportunismo politico e, si direbbe, con lungimiranza. Così l’Unità dei primi anni Cinquanta, direttore Davide Lajolo, quando tutto consiglia al Pci di tenere a distanza il suo e-lettore dall’americanismo invasivo, sfida la modernità adottando in terza pagina il giallo di materia statunitense, «consapevole del dinamismo accattivante che promana dal poliziesco». Magari lo fa in chiave di «contropropaganda», per avvertire il lettore della corruzione sessuale, politica, economica che minaccia le classi capitaliste d’Oltreoceano, ma con un lucido obiettivo editoriale: allargare verso il basso l’area di influenza del giornale, in un momento in cui il genere vive un notevole fermento espansivo.
«Corriere della sera» dell’8 dicembre 2006
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