di Vincenzo Pardini
Cent’anni fa l’autore delle «Odi barbare», gravemente malato, riceveva a domicilio il Premio Nobel dalle mani del ministro svedese De Bildt. Nella sua opera due presenze costanti: l’integrità della terra e l’armonia del paesaggio
Giosue Carducci ebbe un’infanzia movimentata. Il padre Michele, medico condotto a Bolgheri, aveva idee rivoluzionarie e anticlericali, e una notte la loro casa fu presa a fucilate da ignoti. Sembra ci avesse messo lo zampino il pievano, che capeggiava l’ala conservatrice della popolazione bolgherese. Ai Carducci non rimase che trasferirsi a Castagneto. Preso il calesse, come avevano fatto da Stazzema a Bolgheri la mattina del 25 ottobre 1938, s’incamminarono alla volta della nuova residenza.
Come tutti gli artisti, il piccolo Giosue aveva una forte sensibilità e guardava con attenzione il mondo che lo circondava. Di gran lunga diverso da quello di adesso. Si racconta che fosse anche un bambino molto irrequieto, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da raccontare ai familiari. Il padre, che fu il suo primo maestro, era dotato di una buona cultura classica, la madre era innamorata dell’Alfieri. Non di rado si videro arrivare il figlio a casa tenendo alla corda o in braccio un cucciolo di lupo, all’epoca numerosi anche nelle pianure. Ma gli anni passavano e la vita incalzava. Giosue gli andava incontro con un’arma che non gli verrà mai meno: quella della poesia; strana arma o strano strumento: dà l’illusione di poter ingabbiare l’esistenza interpretandone le emozioni. Ne avrà moltissime. Incluse le dolorose. Non si lascerà tuttavia sopraffare.
Se è vero che l’anima d’una persona si riflette nel volto, bisogna dire che lui ce l’aveva da guerriero antico. La capigliatura pareva una criniera di leone, lo sguardo burbero. Peccato non fosse molto alto. Ma dava lo stesso un’impressione di forza. Brillante negli studi, a 25 anni è a Bologna professore di letteratura italiana, ossia di eloquenza come si diceva a quei tempi. Si tramanda che nell’aula universitaria di via Zamboni 33 non ripeté mai, negli anni, la stessa lezione. Gran studioso, si impossessava di quanto leggeva. I classici erano la sua passione e tormento; forse anche un limite. Le sue poesie migliori mi sembrano infatti quelle che oggi, con un termine assai leggero, chiamiamo intimiste, ma che non lo sono affatto.
Cento anni fa, il 10 dicembre 1906, l’Accademia di Svezia gli conferì il premio Nobel per la letteratura. Fu il primo italiano a riceverlo. Gli accademici dovettero vedere in lui qualcosa di veramente nuovo, che da noi non gli è ancora stato riconosciuto. Nessuno lo ristampa più; resiste perché viene studiato sui banchi di scuola, o perché Fiorello ha cantato San Martino, uno dei suoi componimenti più brevi e musicali. Per il resto, il «Vate della terza Italia», massone, rivoluzionario, monarchico innamorato della regina Margherita, senatore che sostenne Crispi, maestro di Giovanni Pascoli, Renato Serra, Alfredo Panzini, Manara Valgimigli, Stefano Ferrari e a cui, studente liceale, scrisse D’Annunzio, esprimendogli grande ammirazione, sta facendo una fine scandalosa. Se ne parla solo quando emerge qualche pettegolezzo, e credo ne verranno fuori tanti durante questa ricorrenza. Mentre la sola e unica maniera di parlarne sarebbe quella di rivisitare le sue opere.
Se ben lo leggiamo ci rendiamo conto che pochi poeti come lui hanno l’attaccamento alla natura. Per certi versi è, dunque, un autore ecologico: testimonia l’integrità della terra e l’armonia del paesaggio, elogiando la fatica degli uomini e degli animali. Nel sonetto Il bove questi dati emergono subito. Più che descrivere, scolpisce, in pochi versi, la figura del bue, tra solennità e mitezza. Ogni parola emette rumori, suoni. Dai sospiri della bestia che tira l’aratro, al taglio del vomere che penetra, dilata la terra, divaricandone le zolle, al battito del pungolo con cui il contadino lo incita. Una poesia dove si legge l’antico dialogo tra l’uomo, la terra e la bestia. E ci riporta al centro della civiltà contadina, quando toro e bove erano due cose ben diverse che oggi, al contrario, molti giovani non sanno più distinguere, come non distinguono la differenza tra mulo e asino.
Altra testimonianza la cogliamo in Ave Maria. Dante aveva cantato: «Era già l’ora che volge il disio/ai navicanti e ’ntenerisce ’l core». Carducci sembra riprendere l’argomento calandolo nel nostro presente. Nelle città e nelle metropoli ossessionate dal traffico, anche se suonassero le campane, nessuno le sentirebbe. Ma neppure nei paesi. Non solo mancano i campanari, mancano i sacerdoti e il suono delle campane è riprodotto da incisioni su nastro. Se invece leggiamo questa lirica, ritroviamo i suoni perduti, e l’aria di quelle sere che sembravano fondersi coi tramonti. Non solo: ritroviamo il silenzio, il grande assoluto silenzio, musica dell’anima. Il laico, anticlericale Carducci sa perfino pregare, sa rivolgersi alla Madonna.
Altro suggestivo componimento, è Davanti San Guido. Sembra la sequenza di un film. Protagonista è il treno. Il narratore, poiché di un racconto si tratta, guarda la campagna e si rivede bambino. Ripercorre il suo passato abbandonandosi non tanto al cuore, ma alle immagini. I cipressi sono le sentinelle dei bei momenti, che vorrebbero scendesse, ritornasse tra loro e la loro ombra dove cantano gli uccelli, si muovono gli insetti. Lui non può. Soffre, a suo modo, della sindrome dell’uomo moderno: rincorrere la celebrità pur di essere qualcuno. Solo la visione di nonna Lucia lo riporta alla realtà. Non si corre mai verso la gloria, ma verso la morte. I poeti queste cose le sanno bene.
Leggendo Carducci, ci accorgiamo che le sue liriche sono inondate di luce; la stagione che predilige è l’estate. Come senz’altro, nonostante i suoi scarti d’umore, era solare lui nell’intimo. Buona parte della sua vita privata lasciò, infatti, che divenisse di pubblico dominio. Non si oppose mai. E quando venne il momento di soffrire, come per la morte del piccolo Dante, che esprime nella poesia Pianto antico e nella lettera all’amico poeta Giuseppe Chiarini, «Per la morte del figlio», non ebbe alcun ritegno a mostrarsi quale era. Oggi non è così. I sentimenti, i cosiddetti affari personali, vanno nascosti, deviati, travisati. Non è dignitoso manifestarli. Siamo troppo evoluti, addirittura europei. I sessantottini dicevano che i sentimenti sono un vizio borghese, e instaurarono gli anni di piombo.
Ecco perché ci sarebbe bisogno di poesia, forte e autentica. Per riscattarci da tanto orrore.I giurati di Stoccolma si avvidero della grandezza di Carducci. E gli conferirono il Nobel. Gravemente infermo, glielo portò a Bologna in via del Piombo il barone De Bildt, ministro svedese. Il poeta, rivoltosi alla moglie, le dette la busta mormorando: «Non sono un imbecille!». L’ironia dell’intelligenza. Non prendersi mai sul serio. Due mesi dopo morì.
Il Giornale del 4 dicembre 2006
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