Nel vitalismo odierno, venature di necrofilia
di Francesco D'Agostino
Che cosa veramente "vuole" Piergiorgio Welby? Intendo: cosa vuole lui, proprio lui, Welby (e non l’associazione che egli presiede o la parte politica che lo annovera tra i suoi membri)? Vuole l’eutanasia? Vuole rinunciare alle terapie di sostegno vitale cui è sottoposto? Vuole la fine di un inutile accanimento terapeutico? Vuole una "robusta" terapia del dolore? Vuole richiamare l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica sul valore dell’autodeterminazione dei malati, anche in casi tragici ed estremi? Vuole trasformare il suo tragico caso "privato" in un caso "pubblico", per orientare, come è lecito che faccia un leader politico, la politica sanitaria del paese?
Potrei continuare a formulare ipotesi su ipotesi (tutte peraltro ben fondate), ma sarebbe inutilmente defatigante: è evidente che Welby vuole tutto o può voler tutto ciò che si è detto. Il problema è che tutto ciò che egli vuole (o può volere) diventa, nel gioco mediatico che ci assedia da tutte le parti, costitutivamente sfuggente, ambiguo, polisenso e si presta ad essere sforzato e deformato in mille modi.
Possiamo farci qualcosa? Certo: possiamo e dobbiamo esigere da parte di tutti, e in primo luogo da noi stessi, un estremo rigore concettuale e lessicale. E’ difficilissimo, ma dobbiamo provarci ad ogni costo, se non vogliamo che il "caso Welby" divenga, come tante altre volte è successo, il pretesto per alterazioni irreversibili non solo del nostro sistema giuridico, ma anche e soprattutto della comune sensibilità etico-sociale del nostro paese.
Prendiamo come esempio un tema cruciale, quello del rifiuto delle terapie. Non possiamo confonderlo con la richiesta di eutanasia, cioè di una "buona morte", che da nessuna parte nel nostro ordinamento giuridico ottiene un qualsiasi riconoscimento. Quello del rifiuto delle cure è un diritto personale, di rango addirittura costituzionale, la cui violazione da parte di un medico (o di chicchessia) potrebbe addirittura far scattare una denuncia penale. Per un giurista questo è un dato incontrovertibile, che può essere sicuramente applicato al caso Welby: non c’è dubbio che, mentre una sua domanda di eutanasia non potrebbe che essere respinta, sarebbe invece doveroso rendere ossequio alla sua volontà, ove egli, dopo aver dato prova della sua piena capacità di intendere e di voler, esigesse la sospensione di una qualsiasi terapia gli venisse applicata, anche salvavita (ma che cosa "veramente" voglia Welby - se cioè voglia l’eutanasia o la sospensione delle cure - purtroppo non è affatto chiaro). Si può aggiungere che, così come Welby ha il pieno diritto di rifiutare una terapia, il medico che lo ha in cura ha l’assoluto dovere di praticargli le terapie compassionevoli, le terapie del dolore che meglio si adattano alla sua circostanza, anche nel caso in cui i dolori che lo possano assalire siano la conseguenza del suo rifiuto di terapie. Il caso, insomma, potrebbe giuridicamente essere ritenuto molto semplice.
Perché allora questa semplicità non viene riconosciuta? Il punto è che ciò che è semplice per il diritto (che in questi casi ragiona in modo freddo ed elementare, utilizzando il codice lecito/illecito) non lo è più, quando ci poniamo sul piano caldo e intricato dell’esperienza umana integrale, che arriva subito al vertice della complessità adottando (e non potrebbe fare altrimenti) il codice bene/male, un codice che solo gli ingenui pensano si possa ridurre nei termini (peraltro suggestivi) dell’autodeterminazione personale, delle preferenze soggettive e perfino della "dignità della vita" (espressione sfuggente e divenuta ormai polisensa). Ma proprio per questo gli appelli che vediamo continuamente rivolti al legislatore perché intervenga, con quello che è il suo unico, possibile strumento, e cioè la legge, per incrinare con riferimento a specifici casi concreti il principio ippocratico della difesa della vita, appaiono poco meditati: la legge, strumento inevitabilmente freddo, rigido, burocratico, formale, è lo strumento peggiore da utilizzare quando sono in gioco questioni estreme e di frontiera, come quelle che investono vita e morte, e che chiedono invece intelligenza appassionata e sottile, duttilità, empatia, partecipazione solidale.
La medicina ha già la sua legge, alla quale i medici devono attenersi: il giuramento di Ippocrate, che proibisce l’eutanasia, ce ne presenta una delle più suggestive formulazioni. Al diritto dello Stato dobbiamo chiedere una cosa sola, che vincoli i medici al loro giuramento, che è giuramento per la vita, che li vincoli a questa fedeltà, soprattutto oggi, in un mondo in cui si diffonde un sottile e terribile gusto per la morte. A Welby qualcuno è arrivato a formulare un vero e proprio anti-augurio, terribile perché obiettivamente necrofilo: quello di non arrivare a vedere il giorno di Natale. A Welby, come ad ogni essere umano, bisogna invece fare auguri di vita: perché questa e solo questa è la cifra reale e riassuntiva della nostra comune esperienza.
Potrei continuare a formulare ipotesi su ipotesi (tutte peraltro ben fondate), ma sarebbe inutilmente defatigante: è evidente che Welby vuole tutto o può voler tutto ciò che si è detto. Il problema è che tutto ciò che egli vuole (o può volere) diventa, nel gioco mediatico che ci assedia da tutte le parti, costitutivamente sfuggente, ambiguo, polisenso e si presta ad essere sforzato e deformato in mille modi.
Possiamo farci qualcosa? Certo: possiamo e dobbiamo esigere da parte di tutti, e in primo luogo da noi stessi, un estremo rigore concettuale e lessicale. E’ difficilissimo, ma dobbiamo provarci ad ogni costo, se non vogliamo che il "caso Welby" divenga, come tante altre volte è successo, il pretesto per alterazioni irreversibili non solo del nostro sistema giuridico, ma anche e soprattutto della comune sensibilità etico-sociale del nostro paese.
Prendiamo come esempio un tema cruciale, quello del rifiuto delle terapie. Non possiamo confonderlo con la richiesta di eutanasia, cioè di una "buona morte", che da nessuna parte nel nostro ordinamento giuridico ottiene un qualsiasi riconoscimento. Quello del rifiuto delle cure è un diritto personale, di rango addirittura costituzionale, la cui violazione da parte di un medico (o di chicchessia) potrebbe addirittura far scattare una denuncia penale. Per un giurista questo è un dato incontrovertibile, che può essere sicuramente applicato al caso Welby: non c’è dubbio che, mentre una sua domanda di eutanasia non potrebbe che essere respinta, sarebbe invece doveroso rendere ossequio alla sua volontà, ove egli, dopo aver dato prova della sua piena capacità di intendere e di voler, esigesse la sospensione di una qualsiasi terapia gli venisse applicata, anche salvavita (ma che cosa "veramente" voglia Welby - se cioè voglia l’eutanasia o la sospensione delle cure - purtroppo non è affatto chiaro). Si può aggiungere che, così come Welby ha il pieno diritto di rifiutare una terapia, il medico che lo ha in cura ha l’assoluto dovere di praticargli le terapie compassionevoli, le terapie del dolore che meglio si adattano alla sua circostanza, anche nel caso in cui i dolori che lo possano assalire siano la conseguenza del suo rifiuto di terapie. Il caso, insomma, potrebbe giuridicamente essere ritenuto molto semplice.
Perché allora questa semplicità non viene riconosciuta? Il punto è che ciò che è semplice per il diritto (che in questi casi ragiona in modo freddo ed elementare, utilizzando il codice lecito/illecito) non lo è più, quando ci poniamo sul piano caldo e intricato dell’esperienza umana integrale, che arriva subito al vertice della complessità adottando (e non potrebbe fare altrimenti) il codice bene/male, un codice che solo gli ingenui pensano si possa ridurre nei termini (peraltro suggestivi) dell’autodeterminazione personale, delle preferenze soggettive e perfino della "dignità della vita" (espressione sfuggente e divenuta ormai polisensa). Ma proprio per questo gli appelli che vediamo continuamente rivolti al legislatore perché intervenga, con quello che è il suo unico, possibile strumento, e cioè la legge, per incrinare con riferimento a specifici casi concreti il principio ippocratico della difesa della vita, appaiono poco meditati: la legge, strumento inevitabilmente freddo, rigido, burocratico, formale, è lo strumento peggiore da utilizzare quando sono in gioco questioni estreme e di frontiera, come quelle che investono vita e morte, e che chiedono invece intelligenza appassionata e sottile, duttilità, empatia, partecipazione solidale.
La medicina ha già la sua legge, alla quale i medici devono attenersi: il giuramento di Ippocrate, che proibisce l’eutanasia, ce ne presenta una delle più suggestive formulazioni. Al diritto dello Stato dobbiamo chiedere una cosa sola, che vincoli i medici al loro giuramento, che è giuramento per la vita, che li vincoli a questa fedeltà, soprattutto oggi, in un mondo in cui si diffonde un sottile e terribile gusto per la morte. A Welby qualcuno è arrivato a formulare un vero e proprio anti-augurio, terribile perché obiettivamente necrofilo: quello di non arrivare a vedere il giorno di Natale. A Welby, come ad ogni essere umano, bisogna invece fare auguri di vita: perché questa e solo questa è la cifra reale e riassuntiva della nostra comune esperienza.
«Avvenire» del 21 dicembre 2006
Nota bene: quest'articolo è apparso il giorno prima dell'assassinio di Welby, e quindi le frasi finali sembrano essere una profezia ... purtroppo avveratasi.
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