di Biancamaria Frabotta
Anno fortunato, il 1957. In primo luogo per merito di Carlo Emilio Gadda (1893-1973) e del suo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. La sublime flemma del commissario Ingravallo si insedia nell’immaginario del lettore, intanto per il genere, un poliziesco sia pure atipico e per la drammatica «comicità» della lingua. Lava incandescente che erutta da un cratere sempre attivo, le sue invenzioni sono tanto più felici, quanto meno lo è il suo creatore e tanto più nazionale risulta l’uso della lingua, quanto più si screpola in un caleidoscopio di impensati dialetti dell’anima italica. Ritornando ai fasti del «non finito» michelangiolesco, il «pasticciaccio» è uno straordinario antidoto alla prevedibilità delle odierne scuole di creative writing. Il 1957 è anche l’anno de L’isola di Arturo di Elsa Morante (1912-1985). In nessun altro romanzo il Sud del mondo splende nella miracolosa «maternità» di un racconto tutto stile e tutto cose, privo di bellurie, nonostante i sortilegi dello stile e libero dalla diffusa sottomissione al diktat metaletterario del secolo. L’iniziazione alla vita di Arturo è una storia di disincanto, una fiaba notturna e nello stesso tempo solare e le fantastiche imprese del giovinetto kalos kai agathos ci sottraggono al ricatto del tempo restituendoci a un’adolescenza dimenticata o mai vissuta.
Appena all’inizio dei «fantastici Sessanta» incontriamo due romanzi che frugano nel recente passato come in un armadio ingombro di memorie troppo in fretta liquidate. Omaggio alla giovinezza folgorata dalla guerra ai piedi di un muro, sulla soglia di una struggente e «incompiuta» Resistenza, Una questione privata di Beppe Fenoglio (1922-1963) esce postumo nel 1963. Milton, stralunato partigiano langhigiano e angelo caduto da un romantico Eden poco frequentato dal romanzo italiano, proietta la coppia Amore e Morte sullo schermo di un’indecifrabile Storia pubblica eppure privatissima, lanciandosi in una rincorsa che è una fuga e una quête tanto avvincente da far invidia al giovane Calvino. Nel 1962 Giorgio Bassani (1916-2000) nel Giardino dei Finzi Contini rievoca da una proustiana memoria perduta l’indimenticabile e struggente personaggio femminile di Micòl. Non ce ne sono poi tanti nella nostra tradizione narrativa, dopo la Pisana di Nievo e l’Angiolina di Svevo. Micòl, vittima della persecuzione razziale nazifascista, affiora dalla nebbia di una prosa diafana e limpida, exemplum di un destino comune, cui però non appartiene fino in fondo. Creatura di pura nostalgia, a lei è affidata la sorte di una narrazione del «cuore» mai sentimentale e scontata, ma, sin dall’epigrafe, benedetta da un preziosissimo Manzoni tutto ancora impiegabile in un’epoca smemorata come la nostra. «Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto».
Nell’ambito di una genialità narrativa multiforme e dedita alla sperimentazione di generi sempre diversi, Italo Calvino (1923-1985) pubblica nel 1965 i racconti delle Cosmicomiche, cosmogoniche incursioni nell’universo della scienza contemporanea e delle sue aporie. In una sorta di fantascienza alla rovescia Calvino si proietta nell’inimmaginabile virtualità delle origini del cosmo. «Liscia e brulla» come lo spazio in cui vaga il suo protagonista dal nome impronunciabile, Qfwfq, la sua scrittura nitida e giocosamente «esterna» a una dimensione solo letteraria, usa con maestria i segni «alieni» e collaterali del cinema «comico» e dei fumetti. Al mondo dei fumetti si ispira anche Paolo Volponi (1924-1994) con Il pianeta irritabile del 1978, in cui quattro straniati personaggi, una scimmia, un elefante, un’oca e un nano, al pari di quattro grotteschi cavalieri dell’Apocalisse, s’incamminano fra le rovine di un mondo distrutto da una misteriosa e arcaica deflagrazione. Riaffiorando dall’abisso del posthuman in cui la civiltà è precipitata e orientandosi verso una qualsiasi vivibilità, questa favola malinconica e liricamente rappresa nell’allegoria del nostro deserto psichico e corporeo, ci cattura in una prosa tramata di poesia e leopardianamente «irritabile».
Dacia Maraini (1936) per La lunga vita di Marianna Ucrìa del 1990 s’ispira al ritratto di una sua antenata, Marianna Alliata Valguarnera, che nella fastosa ambientazione scenica di un’epoca oppressiva, si erge a prototipo di una possibile liberazione. Sordomuta in seguito a una violenza subita, Marianna approfitta della sua menomazione per approdare a una parola diversa, quasi nuova, frutto di una «preistoria» che escludendola l’ha immunizza dalla barbarie della «storia». Per lei, come per l’autrice, si può dire che «ogni giorno è bastante a sé, non ha memoria».
Sin troppe numerose e angustianti sono invece le memorie che affollano Requiem che Antonio Tabucchi (1943) pubblica in portoghese e in italiano nel 1992. La fantasia barocca di Tabucchi ci coinvolge in un labirinto di «maniere» che riportano in vita la grande letteratura del passato oggi definitivamente defunta. Rievocandola, come in una seduta spiritica o in un gioco di doppi e di specchi e infine addensandola nell’allucinazione del fantasma rivisitato dell’amato Pessoa, Tabucchi raggiunge il vertice della sua funebre vitalità narrativa.
Del vuoto del presente e della piatta orizzontalità dell’oggi sembrano farsi malinconici reporter alcuni giovani autori di oggi. Il maestro indiscusso di questo malinconico minimalismo dalle dimensioni metafisiche è Gianni Celati (1937) che in Narratori delle pianure del 1985, uscendo dalla saga di Guizzardi, eroe di una saga di sfrenata e sinistra allegria linguistica, abbandona i «parlamenti buffi» e si immerge in una sperduta erranza lungo le rive di un Po postmoderno, abbandonato dal mito e da ogni suggestione paesistica, ma misurato a piedi in passi costanti e leggeri, in una nuova metrica di pura orizzontalità lirica. Una versione al femminile ne è offerta da Sandra Petrignani (1952) che sa indirizzare la lingua stringata ed elegante delle sue inchieste giornalistiche verso reportage oggettivi ma anche dilatati verso un indefinibile «altrove», come nelle interviste di sapore beckettiano raccolte in Vecchi del 1999: cronaca dall’aldilà di una senilità assurta a condizione perenne del presente.
Appena all’inizio dei «fantastici Sessanta» incontriamo due romanzi che frugano nel recente passato come in un armadio ingombro di memorie troppo in fretta liquidate. Omaggio alla giovinezza folgorata dalla guerra ai piedi di un muro, sulla soglia di una struggente e «incompiuta» Resistenza, Una questione privata di Beppe Fenoglio (1922-1963) esce postumo nel 1963. Milton, stralunato partigiano langhigiano e angelo caduto da un romantico Eden poco frequentato dal romanzo italiano, proietta la coppia Amore e Morte sullo schermo di un’indecifrabile Storia pubblica eppure privatissima, lanciandosi in una rincorsa che è una fuga e una quête tanto avvincente da far invidia al giovane Calvino. Nel 1962 Giorgio Bassani (1916-2000) nel Giardino dei Finzi Contini rievoca da una proustiana memoria perduta l’indimenticabile e struggente personaggio femminile di Micòl. Non ce ne sono poi tanti nella nostra tradizione narrativa, dopo la Pisana di Nievo e l’Angiolina di Svevo. Micòl, vittima della persecuzione razziale nazifascista, affiora dalla nebbia di una prosa diafana e limpida, exemplum di un destino comune, cui però non appartiene fino in fondo. Creatura di pura nostalgia, a lei è affidata la sorte di una narrazione del «cuore» mai sentimentale e scontata, ma, sin dall’epigrafe, benedetta da un preziosissimo Manzoni tutto ancora impiegabile in un’epoca smemorata come la nostra. «Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto».
Nell’ambito di una genialità narrativa multiforme e dedita alla sperimentazione di generi sempre diversi, Italo Calvino (1923-1985) pubblica nel 1965 i racconti delle Cosmicomiche, cosmogoniche incursioni nell’universo della scienza contemporanea e delle sue aporie. In una sorta di fantascienza alla rovescia Calvino si proietta nell’inimmaginabile virtualità delle origini del cosmo. «Liscia e brulla» come lo spazio in cui vaga il suo protagonista dal nome impronunciabile, Qfwfq, la sua scrittura nitida e giocosamente «esterna» a una dimensione solo letteraria, usa con maestria i segni «alieni» e collaterali del cinema «comico» e dei fumetti. Al mondo dei fumetti si ispira anche Paolo Volponi (1924-1994) con Il pianeta irritabile del 1978, in cui quattro straniati personaggi, una scimmia, un elefante, un’oca e un nano, al pari di quattro grotteschi cavalieri dell’Apocalisse, s’incamminano fra le rovine di un mondo distrutto da una misteriosa e arcaica deflagrazione. Riaffiorando dall’abisso del posthuman in cui la civiltà è precipitata e orientandosi verso una qualsiasi vivibilità, questa favola malinconica e liricamente rappresa nell’allegoria del nostro deserto psichico e corporeo, ci cattura in una prosa tramata di poesia e leopardianamente «irritabile».
Dacia Maraini (1936) per La lunga vita di Marianna Ucrìa del 1990 s’ispira al ritratto di una sua antenata, Marianna Alliata Valguarnera, che nella fastosa ambientazione scenica di un’epoca oppressiva, si erge a prototipo di una possibile liberazione. Sordomuta in seguito a una violenza subita, Marianna approfitta della sua menomazione per approdare a una parola diversa, quasi nuova, frutto di una «preistoria» che escludendola l’ha immunizza dalla barbarie della «storia». Per lei, come per l’autrice, si può dire che «ogni giorno è bastante a sé, non ha memoria».
Sin troppe numerose e angustianti sono invece le memorie che affollano Requiem che Antonio Tabucchi (1943) pubblica in portoghese e in italiano nel 1992. La fantasia barocca di Tabucchi ci coinvolge in un labirinto di «maniere» che riportano in vita la grande letteratura del passato oggi definitivamente defunta. Rievocandola, come in una seduta spiritica o in un gioco di doppi e di specchi e infine addensandola nell’allucinazione del fantasma rivisitato dell’amato Pessoa, Tabucchi raggiunge il vertice della sua funebre vitalità narrativa.
Del vuoto del presente e della piatta orizzontalità dell’oggi sembrano farsi malinconici reporter alcuni giovani autori di oggi. Il maestro indiscusso di questo malinconico minimalismo dalle dimensioni metafisiche è Gianni Celati (1937) che in Narratori delle pianure del 1985, uscendo dalla saga di Guizzardi, eroe di una saga di sfrenata e sinistra allegria linguistica, abbandona i «parlamenti buffi» e si immerge in una sperduta erranza lungo le rive di un Po postmoderno, abbandonato dal mito e da ogni suggestione paesistica, ma misurato a piedi in passi costanti e leggeri, in una nuova metrica di pura orizzontalità lirica. Una versione al femminile ne è offerta da Sandra Petrignani (1952) che sa indirizzare la lingua stringata ed elegante delle sue inchieste giornalistiche verso reportage oggettivi ma anche dilatati verso un indefinibile «altrove», come nelle interviste di sapore beckettiano raccolte in Vecchi del 1999: cronaca dall’aldilà di una senilità assurta a condizione perenne del presente.
«Il Giornale» del 10 dicembre 2006
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