Un volume ricostruisce le sorti di un oggetto che ha più di duemila anni. E attraversa i secoli, partendo da Seneca
di Luciano Canfora
Simbolo di libertà, è spesso vittima dell’intolleranza
Si deve probabilmente ammettere che quella per la lettura e per i libri è una passione che rasenta la malattia. Una fonte indiscutibilmente certa mi ha narrato anni addietro di una ragazza di provincia approdata a Parigi e impegnata, per sopravvivere, nel duro e poco gratificante lavoro domestico, la quale di notte, barricata nella stanza a lei destinata, divorava, leggendoli da cima a fondo, man mano tutti i libri che i suoi padroni possedevano quali che essi fossero. È una situazione che sa di antico: il pensiero va a quei ricchi romani padroni di moltissimi schiavi, alcuni dei quali non solo alfabetizzati ma molto colti, i quali - come precipua loro funzione - «leggevano» per i padroni. Seneca, in una Epistola a Lucilio, racconta di quel proprietario il quale aveva avuto l’accortezza, oltre che il proposito, di specializzare i suoi schiavi colti, ciascuno per un autore: uno per ciascuno dei dieci poeti lirici del canone, uno per Omero, uno per Esiodo e così via. A comando ciascuno di loro recitava, o leggeva, il testo richiesto. Forza inesauribile degli archetipi. Millenni più tardi, Ray Bradbury immaginò o paventò il sorgere di un’epoca di persecuzione contro la lettura, persecuzione cui si opponevano, flebilmente e a rischio personale, singoli volontari: i quali salvavano i libri imparandoli a memoria e recitandoli in gran segreto per non dimenticarli (ognuno un libro: Cervantes, Dostojevskij etc.). Il lavoro di Bradbury si chiamava Fahrenheit 451. Esso risale a più di mezzo secolo addietro (1953), ma sembra talvolta - quando l’intolleranza torna a farsi sentire - oltremodo attuale. L’intolleranza ha molti volti. La scena delle cataste di Marx-Engels Werke gettate nelle discariche subito dopo la riunificazione tedesca non fu edificante. Per i libri si può soffrire. Il più grande letterato del Medioevo, il patriarca Fozio, patì la condanna, l’arresto e il carcere perché leggeva e faceva leggere libri della «scienza profana», quae a Deo stulta facta est come recita un truce passo di una lettera paolina. Nel secolo successivo a Fozio, ad Occidente, Gerbert d’Aurillac, grandissimo papa col nome di Silvestro II, «il papa dell’anno 1000» come è stato definito, patì anche lui a causa della medesima passione: e per la sua cultura, e per il suo cercare e copiare libri fu reputato mago, come mago fu stimato Fozio, e molto aspramente contestato. Fozio aveva fatto molto di più: aveva creato una cerchia di lettori e l’aveva tenuta in vita anche dopo l’elevazione sua al patriarcato, come apprendiamo dal IX Canone degli atti dell’VIII Concilio ecumenico (870 d.C.). E proprio questo non gli fu perdonato. Gli furono sequestrati i libri, che erano vere e proprie rarità quasi del tutto introvabili e che lui si era procurato attivando mille contatti e per mille rivoli, anche rivolgendosi al Califfato di Baghdad. Dopo il sequestro, la distruzione fu il destino che toccò a molti di quei volumi rari e preziosamente unici. Non necessariamente, né sempre, fu distruzione intenzionale. Una diffusa ostilità circondava quei libri, guardati con sospetto da chi non li capiva e anche perciò li odiava. Ma a questo si aggiungeva la situazione drammatica dell’arresto, della rovina personale, dell’accatastamento tumultuario, e poi l’incuria, e poi la dispersione di buona parte di quella semiclandestina «cerchia di lettori». E allora ben si comprende come in quella circostanza si siano determinate perdite irreparabili, di cui troviamo prova indiscutibile già nei decenni successivi. Le lettere all’imperatore in cui Fozio lamenta il sequestro dei suoi libri sono tra le sue prose più vibranti. Ma Fozio seppe prendersi la sua rivalsa proprio grazie a un libro, o meglio inventando un libro. All’imperatore che lo aveva sacrificato alla ragion di Stato, al rozzo e scaltro Basilio il Macedone - che era di origini modestissime - egli fece credere di aver scoperto, in un libro, la traccia documentaria della antica ascendenza regale di lui. Il libro era un falso. Fozio si era procurato pergamena molto vecchia, aveva vergato un testo in caratteri arcaicissimi, e creato così ex nihilo un testo che faceva discendere l’ex stalliere macedone, ora sul trono, da un antico lignaggio armeno. E riconquistò il favore del sovrano e dopo qualche anno recuperò quel poco che restava dei suoi libri, e infine riprese possesso del patriarcato. E persino riprese l’attività della sua cerchia di lettori: questo durò fino alla seconda sua rovina, quando un altro imperatore, per ragioni che in parte ci sfuggono, depose daccapo e definitivamente l’inquieto patriarca. Di quanto egli aveva letto e fatto leggere rimase comunque traccia in una specie di «verbale» o giornale di bordo di questa cerchia di lettori che si era costituita intorno a lui. È la cosiddetta Biblioteca. Non era un libro destinato ai posteri, bensì a uso di quel gruppo di studiosi. Una volta decimata la loro raccolta libraria, ne era quasi un surrogato. Come lo è per noi, che tanta parte abbiamo perso della letteratura greca antica e medievale. Uno scrittore di genio, in un libro giovanile che per noi è ormai un classico, Notre Dame de Paris, la cui prima edizione risale al 1831, ha raffigurato efficacemente la situazione, tipicamente medievale, della scarsità di libri. È il capitolo II della quinta parte, intitolato Questo ucciderà quello: «Ceci tuera cela». La scena è celebre. Ne è protagonista l’arcidiacono di Notre Dame, che indica, aprendo la finestra della sua cella, l’immensa chiesa, alla quale - scrive Hugo - la nera sagoma delle due torri, i fianchi di pietra e la mostruosa groppa davano la parvenza di una sfinge a due teste e, osservando per qualche tempo in silenzio l’edificio, lo indica al confratello venuto a visitarlo, definendolo «uno dei suoi libri». «Poi, stendendo con un sospiro la mano destra verso il libro aperto sul suo tavolo e andando con lo sguardo tristemente dal libro alla chiesa, Ahimè - disse - questo ucciderà quella». E alle proteste incredule del suo interlocutore osserva, mantenendosi all’interno del suo "indovinello", anziché spiegarlo: «Le cose piccole hanno la meglio sulle grandi. Un dente può rosicchiare una trave. Il topo del Nilo uccide il coccodrillo, il pesce spada uccide la balena. Il libro ucciderà l’edificio». Il tema straripa nel capitolo successivo, dove Hugo traccia una memorabile storia dell’alfabeto e del libro, che include i primordi stessi della civiltà umana: dalla «prima pietra piantata nel terreno» che era una «lettera» di un primordiale alfabeto, fino al pilastro del tempio greco, che è una «sillaba», fino alla «piramide» che è «una parola», fino alla «cattedrale medievale» che è un «racconto». Il libro, e poi la stampa, - egli séguita - fu la più grande rivoluzione (definita poi, da una studiosa novecentesca, la «rivoluzione inavvertita»). La riproduzione meccanica in migliaia di copie del frutto del pensiero dell’uomo può avere un aspetto babelico, ma appare - e siamo appena nel 1831 - allo scrittore Victor Hugo «rifugio promesso all’intelligenza contro un nuovo diluvio, contro una nuova invasione di barbari». Forse quel momento è arrivato, e noi lo stiamo vivendo. Nell’epoca attuale dominata dallo strumento più pervasivo e passivizzante che, dopo l’oppio, l’umanità abbia saputo inventare, - intendo il piccolo schermo - quel momento che Hugo riteneva esorcizzato per sempre grazie al libro, sembra essere inavvertitamente e irresistibilmente piovuto su di noi. Non parlo dei grandi sentieri informatici della conoscenza. Essi sono i benvenuti, essi potenziano il libro, non lo soppiantano. Semplificano forse, ma alla lunga creano e sempre più creeranno bisogno di conoscenza. La «rete» è fonte e suscitatrice di cultura. Bellarmino che rifiuta il cannocchiale di Galileo è un modello aberrante. Non di questo si tratta, quantunque la gestione di tutto ciò stia per proporre problemi immani e di controllo e in ultima analisi di libertà e di tutela di diritti. Non di questo si tratta. Si tratta invece dello strumento che ottunde, perché mobilita solo una parte del cervello assopendone il resto. Il mezzo televisivo, intendo, che soppianta la parola scritta, l’unica che può davvero definirsi parola, con l’immagine, selezionata, se del caso falsificata e ossessivamente reiterata: sino a creare una realtà che non esiste. Se l’arcidiacono di Notre Dame paventava, rassegnato, la vittoria del libro sulla cattedrale «parlante», oggi questa nuova e rutilante e dozzinale «cattedrale parlante» rischia di scalzare il libro. Il libro è di per sé strumento critico, perché i libri sono per natura, si potrebbe dire, molti e in contrasto tra loro, e dunque critici. Il «piccolo schermo» ipnotizzante è invece inevitabilmente uno, portatore, in una gara al ribasso, di un unico «pensiero». E dove il pensiero è solo uno c’è barbarie, dove i pensieri sono molti e conflittuali c’è libertà. Ecco perché ancora una volta è nel libro la nostra principale speranza. XV secolo Johann Gutenberg inventa i caratteri mobili di stampa 1945 la svolta Entra in funzione il primo computer: pesa 5 tonnellate
Il brano che pubblichiamo in questa pagina è tratto dall’introduzione di Luciano Canfora al volume di Michel Melot «Libro», pubblicato dalle edizioni Sylvestre Bonnard, illustrato con le fotografie di Nicolas Taffin (pagine 188, 36). Nel volume, Michel Melot, scrittore che è stato anche direttore del dipartimento delle stampe e della fotografia della Bibliothèque nationale di Parigi e presidente del Conseil supérieur des Bibliothèques, ha esplorato la topografia e l’architettura di questo oggetto nato più di duemila anni fa esaminando i rapporti reali e simbolici del libro con il sacro, il profano, il commercio, la politica, la libertà, e, naturalmente, il sapere digitale.
«Corriere della sera» del 1 dicembre 2006
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