di Roberto Colombo
Più voci associative e politiche stanno incalzando, opportune et inopportune, il complesso e delicato dibattito culturale ed etico in corso nel nostro Paese sull'eutanasia e sulla distanasia, ovvero quali interventi medici e infermieristici siano doverosi o illeciti nei confronti di chi è affetto da una malattia inguaribile, versa da tempo in uno stato di ridotta o assente vigilanza cognitiva, oppure è ormai giunto nella fase clinica terminale di una prognosi infausta. Lo scopo di questo "assedio mass-mediatico", stretto attorno ai medici, ai pazienti ed alle loro famiglie, ai parlamentari ed anche a tutti noi, è evidente: abbreviare i tempi del legislatore e favorire l'approvazione di un testo normativo orientato in una certa direzione, prima che maturi nei cittadini una consapevolezza della questione in gioco tale da indurli, eventualmente, a scegliere di andare nella direzione opposta o di optare per una ragionevole composizione delle istanze conflittuali.
Ragione, realismo antropologico-clinico e amore alla vita fino all'ultimo istante, se prevalessero - come ci auguriamo - sul pietismo, sul calcolo economico-sanitario e sul potere tecnico, porterebbero a una legge che contempli sia l'esclusione del ricorso a terapie clinicamente futili e contrarie alla volontà del paziente che la doverosità delle cure essenziali e proporzionate per il mantenimento dell'analgesia e il supporto delle funzioni fisiologiche primarie (respirazione, circolazione, ricambio metabolico, etc.) fino a che cessi la loro integrazione e coordinazione e subentri la morte.
Su questa strada si sta costruendo un crescente consenso, non senza la necessaria fatica del ragionamento, del confronto tra posizioni culturali ancora tra loro distanti, e dell'ascolto dell'esperienza degli operatori sanitari che curano quotidianamente questi malati e di coloro che li accudiscono con dedizione incondizionata nelle proprie famiglie. Una democrazia matura si alimenta del contributo di ch i lavora per affermare il vero ed il bene ovunque essi si manifestino.
Chi pensa e presenta l'eutanasia come la panacea di tutti i mali inguaribili e tormentosi che possono colpire l'uomo per pochi o lunghi anni, quello che i pazienti, in queste condizioni, chiederebbero con insistenza, o l'unica risorsa adeguata che si possa offrire a essi, deve fare i conti con la realtà, dove «ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia», dice Shakespeare nell'Amleto. Tra queste «cose del cielo e della terra» vi è anche il fatto che il male non è l'ultima parola sulla nostra vita, il dolore non è insopportabile se qualcuno presta le cure adeguate, e la medicina non è solo terapia aggressiva della patologia ma anche - e anzitutto - il volto umano di una presenza che accompagna e conforta.
Senza tutto questo non si spiegherebbe perché in Belgio, dove l'eutanasia è stata legalizzata nel 2002 e da un anno nelle farmacie è a disposizione dei medici il kit farmacologico per eseguirla, solo l'1,5% dei malati oncologici in fase terminale ha scelto di porre fine anzitempo ai propri giorni. Gli altri, che pur versavano in uno stato clinico simile, hanno avuto una "buona ragione" per continuare a vivere. Una ragione che i pazienti possono trovare se non sono lasciati soli, nella loro sofferenza, a lottare con la malattia inguaribile. Se tutti incontrassero la mano desiderata, la nostra amorevole presenza, non verrebbe loro meno la buona ragione del vivere.
Ragione, realismo antropologico-clinico e amore alla vita fino all'ultimo istante, se prevalessero - come ci auguriamo - sul pietismo, sul calcolo economico-sanitario e sul potere tecnico, porterebbero a una legge che contempli sia l'esclusione del ricorso a terapie clinicamente futili e contrarie alla volontà del paziente che la doverosità delle cure essenziali e proporzionate per il mantenimento dell'analgesia e il supporto delle funzioni fisiologiche primarie (respirazione, circolazione, ricambio metabolico, etc.) fino a che cessi la loro integrazione e coordinazione e subentri la morte.
Su questa strada si sta costruendo un crescente consenso, non senza la necessaria fatica del ragionamento, del confronto tra posizioni culturali ancora tra loro distanti, e dell'ascolto dell'esperienza degli operatori sanitari che curano quotidianamente questi malati e di coloro che li accudiscono con dedizione incondizionata nelle proprie famiglie. Una democrazia matura si alimenta del contributo di ch i lavora per affermare il vero ed il bene ovunque essi si manifestino.
Chi pensa e presenta l'eutanasia come la panacea di tutti i mali inguaribili e tormentosi che possono colpire l'uomo per pochi o lunghi anni, quello che i pazienti, in queste condizioni, chiederebbero con insistenza, o l'unica risorsa adeguata che si possa offrire a essi, deve fare i conti con la realtà, dove «ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia», dice Shakespeare nell'Amleto. Tra queste «cose del cielo e della terra» vi è anche il fatto che il male non è l'ultima parola sulla nostra vita, il dolore non è insopportabile se qualcuno presta le cure adeguate, e la medicina non è solo terapia aggressiva della patologia ma anche - e anzitutto - il volto umano di una presenza che accompagna e conforta.
Senza tutto questo non si spiegherebbe perché in Belgio, dove l'eutanasia è stata legalizzata nel 2002 e da un anno nelle farmacie è a disposizione dei medici il kit farmacologico per eseguirla, solo l'1,5% dei malati oncologici in fase terminale ha scelto di porre fine anzitempo ai propri giorni. Gli altri, che pur versavano in uno stato clinico simile, hanno avuto una "buona ragione" per continuare a vivere. Una ragione che i pazienti possono trovare se non sono lasciati soli, nella loro sofferenza, a lottare con la malattia inguaribile. Se tutti incontrassero la mano desiderata, la nostra amorevole presenza, non verrebbe loro meno la buona ragione del vivere.
«Avvenire» del 24 novembre 2006
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