Nel saggio sull’informazione del grande giornalista, un capitolo devastante sui conduttori-divi dei talk targati Rai (e dintorni). Da Santoro alla Dandini, da Gruber a Lerner, dalla Annunziata a Floris, Pansa ne ha per tutti
di Giampaolo Pansa
Esce il 4 maggio Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, pagg. 412, euro 19,90) di Giampaolo Pansa. Un ritratto impietoso del mondo dell’informazione, dalla carta stampata alla televisione. I giornali, nessuno escluso, sono sempre più faziosi. Eppure c’è chi non vuole ammetterlo e si presenta come immune da ogni partigianeria. È il caso di testate come la Repubblica, L’espresso e, talvolta, del Corriere della Sera. Spesso, dietro alla millantata obiettività si cela l’ossessione anti-Cavaliere, la volontà di distruggerlo con ogni mezzo, incluse le inchieste scandalistiche sulla vita privata (cinicamente tirate fuori per motivi di tirature: il gossip «politico» ha risollevato le vendite di Repubblica). Storia personale (Pansa è uno dei più grandi giornalisti italiani) e pubblica si intrecciano in un affresco accurato. Non mancano parti esilaranti, come l’incredibile rassegna delle smentite pubblicate dai quotidiani colti in castagna. Per gentile concessione dell’autore, presentiamo, in queste pagine, due stralci dal libro, il primo dedicato ai telepredicatori di sinistra, il secondo a Carlo De Benedetti, editore di Repubblica ed Espresso, giornali nei quali Pansa ha lavorato per molti anni, ricoprendo cariche importantissime
Santoro si era sempre fatto notare per lo stile e le qualità del leader politico. Per cominciare, risultava il più anziano dei sultani rossi. Nel luglio 2011 quella parte d’Italia che lo ama festeggerà a dovere il suo sessantesimo compleanno. Poi era il televisionista rosso di più lunga durata. Stava sugli altari dal 1987, quando aveva 36 anni e ancora esisteva la Prima repubblica. Il successo iniziale fu Samarcanda , seguito da Il rosso e il nero del 1992, entrambi su Rai 3. In quel tempo Michele era magro, astuto e ambiguo quanto occorreva. Nell’ottobre del 1991 andai a intervistarlo per l’Espresso . E mi resi conto che era sicuramente di sinistra, ma la sua fedeltà andava a un solo partito rosso: quello di Santoro. Con un timbro anarco-populista, forse derivato dalla militanza giovanile in un gruppo maoista: Servire il popolo. Per la Prima repubblica erano tempi tragici. I politici apparivano stremati e si trovavano sull’orlo dell’abisso di Tangentopoli. Santoro me li descrisse con la sicurezza del ras televisivo che si sente sempre più forte. Disse: «I partiti non saranno così stupidi da tagliare la lingua a Samarcanda . Noi siamo matti, imprevedibili e liberi. E continueremo a rompere. Io rompo o sto zitto: non vedo vie di mezzo». Poi mi spiegò: «Non è vero che il successo di Samarcanda mi abbia dato alla testa. Io sono un topo in mezzo agli elefanti dei partiti. Saltello per evitare che le loro zampe mi schiaccino. Se mi salvo, continuerò a rompere. I politici possono starne sicuri». Santoro si sentiva il capo di una forza personale che poteva decidere con chi allearsi o no. Per questo, all’improvviso, scelse di passare sul fronte opposto alla Rai: Mediaset, la corazzata di Berlusconi. Anche nel fortino del Cavaliere mise in mostra un’invidiabile capacità nel trattare gli affari. Ottenne uno stipendio da nababbo, più l’assunzione di tutta la sua squadra con il massimo dei compensi. E costruì un altro talk show di successo: Moby Dick nel 1996. Ma al Cavaliere, più furbo di tanti suoi dirigenti, Michele non piaceva. In lui fiutava l’avversario, ben piazzato su un terreno insidioso: la televisione. Per di più, gli stava sui santissimi per la sua aria da padrone. Lo liquidò. E Santoro divenne il primo dei Grandi epurati, messi fuori dalla tv grazie agli editti del Cavaliere. Michele ritornò in Rai. Poi la sinistra, sempre generosa con i divi della tv, gli offrì una exit strategy di lusso: il 14 giugno 2004 lo fece eleggere deputato europeo. Ma il Parlamento di Strasburgo era il posto più noioso del mondo per una star da battaglia come lui. Santoro sopportò per meno di due anni il fastidio di doverlo frequentare. Poi si dimise. E nel 2006 decise di rincasare in viale Mazzini. E diede vita a un nuovo programma: Annozero . Sotto questa bandiera, Santoro inaugurò un’altra stagione personale: il conduttore da guerra. Contro chi? Ma che domanda! Contro il suo vecchio padrone privato: Berlusconi. Il nemico da sconfiggere, il demonio da scacciare, il caimano da uccidere. Divenne il più mussoliniano fra i sultani rossi dei talk show. E ogni giovedì, in prima serata su Rai 2, riprese a imporci il proprio comandamento: credere, obbedire e combattere. Sempre con lo stesso obiettivo: mandare a gambe all’aria il tiranno di Arcore. Il pubblico di sinistra continuò ad adorarlo. Santoro era la prova vivente che il regime fascista del Cavaliere esisteva, ma poteva essere battuto. Nella scala gerarchica della Rai, Michele iniziò a contare più di dieci Paolo Garimberti, il presidente. E più di Mauro Masi, un direttore generale senza un potere reale nei confronti di Annozero. Ma nel paese dei balocchi televisivi, tutto è volatile. La forza di un programma e di un conduttore può sparire di colpo, o attenuarsi a ritmi terrificanti. È quel che accadde a Santoro verso la metà del novembre 2010. Quando il nuovo spettacolo di Fazio & Saviano cominciò a fare ascolti mirabolanti, confinando Annozero nell’angolo dei perdenti, sia pure provvisori. [...] Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, mi appariva il Santoro dei poveri, formato Festa dell’Unità, quella del tempo che fu. Aveva di continuo l’ansia di non poter risultare abbastanza rosso. Ma ci riusciva ogni volta. La scelta degli ospiti era bipartisan. Non così il suo atteggiamento.
Il compagnone di Ballarò si mostrava sempre amichevole nei confronti degli invitati di sinistra. Nei momenti di difficoltà, costoro sapevano di poter contare sul suo aiuto, offerto con lo zelo di un crocerossino fedele nei secoli. Ma con gli interlocutori di destra, la musica cambiava di colpo. Con loro Floris sfoderava l’altro lato di se stesso. Diventava gelido e spesso scioccamente irridente. Li interrompeva, li silenziava, li metteva alle strette. Insomma, un capoclasse perfetto: buono con i buoni, cattivo con i cattivi. E in molti casi pomposo. Con il vezzo ridicolo di celebrare se stesso: lo vedete quanto sono imparziale, liberale, democratico? Una sua gemella era Lucia Annunziata, la regina di In mezz’ora.
Di lei rammento l’affanno di mandare al tappeto l’ospite che aveva di fronte per trenta minuti filati. Se chi s’azzardava a sedersi davanti a lei apparteneva al giro politico opposto al suo, anche un bambino avrebbe subito intravisto il difetto di Lucia. A lei non interessavano le risposte dell’interlocutore, ma soltanto le proprie domande. Che dovevano sempre risultare aggressive, grintose, insomma cazzute, se posso usare per una signora questo lessico da bettola. Una sola volta toccò a Lucia di andare ko. Accadde con quel satanasso di Berlusconi. Il Caimano si alzò e la piantò in asso, sola e abbandonata in piena diretta tv. Un’altra dama sinistra era Serena Dandini, la regina di Parla con me, famosa per il divano rosso. E dal martedì al venerdì sempre disposta ad accogliere chiappe eccellenti dell’opposizione al cavaliere.
Da lei erano passati Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, Bill Emmott, l’ex direttore dell’ Economist , Stefano Rodotà, Massimo Cacciari, Carlo Azeglio Ciampi, Guglielmo Epifani, Sabrina Ferilli, Antonio Tabucchi, Corrado Augias e tanti altri avversari del Berlusca. Davanti a Scalfari e alla sua sacra barba bianca, Serena cadde in deliquio. Era seduta accanto a lui, ma sembrava in ginocchio. Pronta a incoronare ogni risposta, anche la più banale, con la sua entusiastica risata. Un giorno, Pietrangelo Buttafuoco disse di lei:«Ha l’espressione un po’ così, di quelli che ridono pure in un cimitero». Aldo Grasso, il critico televisivo del Corriere della Sera , il più acuto tra quelli a disposizione dei lettori di quotidiani, fu spietato con madama Dandini. Scrisse: «Ride in continuazione per sottolineare la sua ironia e la sua intelligenza, caso mai fossero sfuggite».
Poi aggiunse: «Da un programma che impiega tredici autori e la consulenza di altri quattro, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una mini fiction dopolavoristica». Risultato? Un continuo calo d’ascolti. A Santoro & C. si potevano aggiungere altre eccellenze rosse che non dipendevano dalla Rai. Consideriamo il caso di La7, una rete privata e senza obbligo di canone per l’utente. Qui a dominare era Lilli Gruber, già parlamentare europea di sinistra, che ogni sera metteva in mostra la propria militanza. Sempre piacevole a vedersi, ma soltanto per la sua bellezza e per l’eleganza by Armani. Confesso che ad affascinarmi era l’eterna giovinezza della conturbante Dietlinde, con quel viso di porcellana senza età,un’attrazione irresistibile per un maschio dai capelli bianchi.
Anche per questo dettaglio, mi domandavo perché mai dimenticasse il proprio ruolo. Per tramutarsi da conduttrice in uno dei litiganti inviati al suo Otto e mezzo. Con il risultato di far scrivere all’implacabile Grasso del Corrierone : «La Gruber rappresenta un vecchio modo di fare giornalismo. Nel suo programma non c’è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». In questo scontro, Lilli voleva sempre vincere. Per arrivare a questo risultato, adottava spesso il sistema del due contro uno. I due, tutti anti-Cav, erano lei e uno degli invitati, entrambi nemici giurati del Caimano. L’uno era un ospite di centrodestra, destinato fatalmente a soccombere. E non metto nel conto il filmato di Paolo Pagliaro che, ogni sera, offriva il proprio soccorso rosso. Più o meno lo stesso era quel che pensavo a proposito di un altro programma di La7: L’Infedele di Gad Lerner. Ecco l’ennesimo talk show da combattimento. Sempre contro il maledetto Cavaliere. E per questo noioso e banale, da non guardare. Mai una sorpresa né un guizzo di genialità imprevista. Ma in fondo era il ritratto to del suo autore.
Da tempo Lerner stava immerso in una fantastica regressione politica. Che lo aveva sospinto all’indietro nel tempo. Ossia agli anni Settanta, quando Gad s’illudeva di fare la rivoluzione proletaria nelle file di Lotta continua. Allora aveva perso e la sconfitta si era mutata in un incubo destinato a perseguitarlo. Come una condanna a cercare di continuo una vittoria che l’ascolto ridotto seguitava a negargli. [...] Molto più interessante di Serra (Michele, ndr), risultava il personaggio di Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sinistra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava interpretare il ruolo opposto al televisionista settario. Era quello dell’abatino estraneo a qualsiasi parrocchia, amico di tutti e nemico di nessuno. Con l’aria dimessa, l’espressione sempre stupita, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna frantumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia nessuno, curatore attento dei propri comodi. E all’occorrenza anche cattivo.
Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvelenato ben nascosto. Era con questa lama che Fazio, nel suo programma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessibile. Truccata da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sempre pagata dal canone sborsato dai «tutti» ai quali Saviano voleva parlare.
Il compagnone di Ballarò si mostrava sempre amichevole nei confronti degli invitati di sinistra. Nei momenti di difficoltà, costoro sapevano di poter contare sul suo aiuto, offerto con lo zelo di un crocerossino fedele nei secoli. Ma con gli interlocutori di destra, la musica cambiava di colpo. Con loro Floris sfoderava l’altro lato di se stesso. Diventava gelido e spesso scioccamente irridente. Li interrompeva, li silenziava, li metteva alle strette. Insomma, un capoclasse perfetto: buono con i buoni, cattivo con i cattivi. E in molti casi pomposo. Con il vezzo ridicolo di celebrare se stesso: lo vedete quanto sono imparziale, liberale, democratico? Una sua gemella era Lucia Annunziata, la regina di In mezz’ora.
Di lei rammento l’affanno di mandare al tappeto l’ospite che aveva di fronte per trenta minuti filati. Se chi s’azzardava a sedersi davanti a lei apparteneva al giro politico opposto al suo, anche un bambino avrebbe subito intravisto il difetto di Lucia. A lei non interessavano le risposte dell’interlocutore, ma soltanto le proprie domande. Che dovevano sempre risultare aggressive, grintose, insomma cazzute, se posso usare per una signora questo lessico da bettola. Una sola volta toccò a Lucia di andare ko. Accadde con quel satanasso di Berlusconi. Il Caimano si alzò e la piantò in asso, sola e abbandonata in piena diretta tv. Un’altra dama sinistra era Serena Dandini, la regina di Parla con me, famosa per il divano rosso. E dal martedì al venerdì sempre disposta ad accogliere chiappe eccellenti dell’opposizione al cavaliere.
Da lei erano passati Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, Bill Emmott, l’ex direttore dell’ Economist , Stefano Rodotà, Massimo Cacciari, Carlo Azeglio Ciampi, Guglielmo Epifani, Sabrina Ferilli, Antonio Tabucchi, Corrado Augias e tanti altri avversari del Berlusca. Davanti a Scalfari e alla sua sacra barba bianca, Serena cadde in deliquio. Era seduta accanto a lui, ma sembrava in ginocchio. Pronta a incoronare ogni risposta, anche la più banale, con la sua entusiastica risata. Un giorno, Pietrangelo Buttafuoco disse di lei:«Ha l’espressione un po’ così, di quelli che ridono pure in un cimitero». Aldo Grasso, il critico televisivo del Corriere della Sera , il più acuto tra quelli a disposizione dei lettori di quotidiani, fu spietato con madama Dandini. Scrisse: «Ride in continuazione per sottolineare la sua ironia e la sua intelligenza, caso mai fossero sfuggite».
Poi aggiunse: «Da un programma che impiega tredici autori e la consulenza di altri quattro, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una mini fiction dopolavoristica». Risultato? Un continuo calo d’ascolti. A Santoro & C. si potevano aggiungere altre eccellenze rosse che non dipendevano dalla Rai. Consideriamo il caso di La7, una rete privata e senza obbligo di canone per l’utente. Qui a dominare era Lilli Gruber, già parlamentare europea di sinistra, che ogni sera metteva in mostra la propria militanza. Sempre piacevole a vedersi, ma soltanto per la sua bellezza e per l’eleganza by Armani. Confesso che ad affascinarmi era l’eterna giovinezza della conturbante Dietlinde, con quel viso di porcellana senza età,un’attrazione irresistibile per un maschio dai capelli bianchi.
Anche per questo dettaglio, mi domandavo perché mai dimenticasse il proprio ruolo. Per tramutarsi da conduttrice in uno dei litiganti inviati al suo Otto e mezzo. Con il risultato di far scrivere all’implacabile Grasso del Corrierone : «La Gruber rappresenta un vecchio modo di fare giornalismo. Nel suo programma non c’è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». In questo scontro, Lilli voleva sempre vincere. Per arrivare a questo risultato, adottava spesso il sistema del due contro uno. I due, tutti anti-Cav, erano lei e uno degli invitati, entrambi nemici giurati del Caimano. L’uno era un ospite di centrodestra, destinato fatalmente a soccombere. E non metto nel conto il filmato di Paolo Pagliaro che, ogni sera, offriva il proprio soccorso rosso. Più o meno lo stesso era quel che pensavo a proposito di un altro programma di La7: L’Infedele di Gad Lerner. Ecco l’ennesimo talk show da combattimento. Sempre contro il maledetto Cavaliere. E per questo noioso e banale, da non guardare. Mai una sorpresa né un guizzo di genialità imprevista. Ma in fondo era il ritratto to del suo autore.
Da tempo Lerner stava immerso in una fantastica regressione politica. Che lo aveva sospinto all’indietro nel tempo. Ossia agli anni Settanta, quando Gad s’illudeva di fare la rivoluzione proletaria nelle file di Lotta continua. Allora aveva perso e la sconfitta si era mutata in un incubo destinato a perseguitarlo. Come una condanna a cercare di continuo una vittoria che l’ascolto ridotto seguitava a negargli. [...] Molto più interessante di Serra (Michele, ndr), risultava il personaggio di Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sinistra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava interpretare il ruolo opposto al televisionista settario. Era quello dell’abatino estraneo a qualsiasi parrocchia, amico di tutti e nemico di nessuno. Con l’aria dimessa, l’espressione sempre stupita, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna frantumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia nessuno, curatore attento dei propri comodi. E all’occorrenza anche cattivo.
Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvelenato ben nascosto. Era con questa lama che Fazio, nel suo programma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessibile. Truccata da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sempre pagata dal canone sborsato dai «tutti» ai quali Saviano voleva parlare.
«Il Giornale» del 29 aprile 2011
Nessun commento:
Posta un commento